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Abbiamo incontrato Sergio Risaliti nel suo ufficio al Museo Novecento ,proprio di fronte alla basilica di Santa Maria Novella, per una conversazione ad ampio raggio sull’arte contemporanea ch About Art sta ralizzando con i principali Direttori dei Musei italiani. Sergio Risaliti (Prato, 1962) è Direttore del Museo Novecento di Firenze dal Gennaio del 2018. Autore e ideatore di grandi progetti a Siena, con il Centro Arte Contemporanea di Palazzo delle Papesse, a Firenze, con Quarter, Centro Produzione arte di Firenze, a Torino, con Quarter relocated, ha progettato e curato mostre di notevole richiamo, tra cui Bacon Beuys Burri, La collezione della Fondation Cartier, Pascali e Savinio, Le Repubbliche dell’Arte. Israele e Palestina, Lo spazio Condiviso, ed altre dedicate ad artisti di grande rilievo come Jackson Pollock, Giuseppe Pennone, Jeff Koons, Alighiero Boetti ma ha anche lavorato ad eventi dedicati ai grandi Maestri dell’arte antica, ad esempio cocurando con Cristina Acidini ed Elena Capretti la mostra Michelangelo Buonarroti. Incontrare un artista universale, o ancora con Elena Capretti la mostra Michelangelo e Vasari. Preziose lettere all’amico caro, è stato anche curatore dell’esposizione dei Tre profeti di Donatello nel Battistero di Firenze; ha altresì fondato e diretto sedi espositive pubbliche e private. Ma di tutte le attività di cui Risaliti è stato autore o partecipe non è possibil dar conto in qusta sede.
-Comincerei la nostra conversazione con una domanda di attualità; sei reduce dalla Biennale di Venezia e dunque un parere da osservatore e da esperto non posso non chiedertelo: che ti sembra del lavoro del curatore Ralph Rugoff che gira intorno al testo May you live in interesting times» (Che si possa vivere in tempi interessanti ! ) Un titolo che sembra una esortazione, un auspicio ma anche sorta di indicazione. Ecco, che cosa significa «interessante»? E soprattutto: l’arte può rappresentare questi tempi e come riuscirebbe a farlo?
R: Che dire? I titoli possono essere interessanti, non esserlo affatto o esserlo troppo poco, soprattutto considerando una kermesse così vasta com’è diventata la Biennale veneziana, la madre di tutte le Biennali. Nel migliore dei casi un titolo è un segnavia, citando Heidegger.
-Vuoi forse dire che è troppo ampia?
R: No, non è questo il problema, perché tutto va considerato in una certa logica, cioè nel primato che Venezia in questi anni ha acquisito rispetto al mondo e che ha tutto l’interesse a mantenere. Un fatto sicuro è che nei quattro o cinque giorni della inaugurazione tutto il mondo dell’arte vi transita. Un mondo fluido e senza centro, straripante di soggetti diversi e anche alternativi, se consideriamo che ormai l’arte contemporanea è un fenomeno che coinvolge ad ogni latitudine tutti i paesi e le culture, tutte le comunità ricollegando tradizione e innovazione, permanenza e cambiamento. Venezia durante la Biennale gode anche di grandi benefici di carattere economico, pensiamo alla preparazione, alla organizzazione, alla gestione e alla accoglienza di masse di persone che si muovono, comprano, soggiornano e così via.
-Ma per tornare al titolo della Biennale?
R: Io credo che sia semplicemente una sorta di suggestione, nel senso che i tempi possono essere interessanti rispetto alla condizione degli esseri umani che li vivono, siano dolorosi o no, felici o meno …
-Ma l’arte può rappresentarli, secondo te?
R: L’arte se non riesce a rendere interessante il tempo in cui viviamo, sia che lo rappresenti in senso negativo o positivo, tragico o gioioso, è un’arte di scarso valore; a mio parere non esiste un linguaggio che si astrae totalmente dal tempo in cui si vive anche se esistono opere che travalicano il momento storico, opere di valore universale che nutrono lo spirito a prescindere dall’epoca o dal luogo in cui vive lo spettatore. Baudelaire sosteneva che esistono fondamentalmente due tipologie di arte: un’arte che è rappresentativa del tempo in cui vive l’artista ed un’arte sovrastorica, eterna, nel senso che sovrasta l’attualità perché rappresenta tutta l’umanità in senso trasversale: ecco, mi pare che in questo caso le due cose si uniscano.
-Si può dire che un esempio peraltro di stretta attualità che mette in evidenza una forte attenzione ai nostri tempi, soprattutto alle tragedie cui assistiamo, sia l’opera dell’artista svizzero Christoph Büchel esposta a Venezia, all’Arsenale, cioè Barca Nostra, ovvero il relitto del peschereccio nel quale trovarono la morte più di 700 migranti nel canale di Sicilia il 18 aprile del 2015 ? E’ un’opera che ha sollevato molte discussioni.
R: Si, la Barca è una tragica testimonianza di eventi attuali segnati da gravi problemi e da tragedie e certamente non è una reliquia ma qualche cosa che va oltre, è un vero monumento alla memoria che potrebbe restare in modo permanente all’interno dei Cantieri dell’Arsenale di Venezia; la vedrei bene proprio come una sorta di “memento mori”, un ricordo perenne di quanto accadde e ancora accade nel Canale di Sicilia. Salvo poi essere utilizzata come laboratorio creativo di rinascita ad ogni edizione.
-Vuoi sottolineare qualche altra impressione che hai ricevuto dalle altre opere esposte della Biennale ?
R: Io sostanzialmente ho percepito l’esistenza di due mondi, quello che, si può dire per tradizione, è costituito dai Giardini della Biennale, l’altro delle mostre organizzate attorno ai Giardini. La Biennale fuori le mura è una sfida lanciata a colpi grossi tra istituzioni, privati, gallerie, dove si gioca la carta degli artisti storicizzati, definibili come classici, per un pubblico che ha sete e bisogno di valori collaudati, duraturi che siano sia del campo della pittura, come ad esempio Gorki, Burri, Scully, ed altri oppure della scultura, penso a quel gioiello che è la mostra dedicata ad Arp, ma anche alla mostra di Kounellis; artisti insomma già conclamati.
-Il ruolo dei privati dunque è piuttosto importante, mi pare.
R: Certo, c’è tutto un corollario di realtà private che s’impegnano nella valorizzazione ed esibizione di grandi artisti, a cominciare appunto da Prada. Ma desidero citare anche la bellissima realtà dei Musei Civici di Venezia, MUVE, guidati da Gabriella Belli, che ha costruito una vera ingegneria culturale ed espositiva di notevole livello, come mostrano le mostre organizzate in questo periodo, a partire da quella stupenda di Gorky, che a mio parere è scientificamente perfetta. Le novità più interessanti sono ancora una volta nei Giardini, qui in effetti abbiamo assistito ad una vera deflagrazione, credo di poter dire che siamo di fronte ad uno spostamento dell’arte verso territori che erano stati configurati già da Enwezor (purtroppo deceduto recentemente) dove l’arte tende ad abbandonare i lidi sicuri della pittura e della scultura e della istallazione, per incrociare altri mondi, altre forme espressive, direi più urgenti, più drammatiche per stare dentro al nostro tempo. Penso all’arte antropologica, etnografica, con l’assunzione di linguaggi di altre discipline, spostandosi sempre più verso la vita. Dunque il linguaggio artistico tradizionale si viene trasformando in documentario d’arte ed ha sostanzialmente nella performance e nella video performance, ma anche nelle azioni teatrali e coreografiche, la sua espressione.
-Quindi a tuo parere è in questa contaminazione di linguaggi la novità più importante della Biennale 2019?
R: Siamo di fronte ad un doppio spostamento, diciamo così, e credo che questa sia effettivamente la novità più evidente in questa edizione della Biennale; da un parte, uno spostamento nella direzione del video a servizio della documentazione di realtà etno-antropologiche o, come dicevo, di questioni di particolare emergenza, come possono essere quella climatica e quella migratoria, che sono urgentissime; dall’altra uno spostamento verso le arti performative che non sono più quelle che abbiamo conosciuto negli anni Sessanta o Settanta, ma sono ora una sorta di ibrido tra teatro, musica, danza, happening, tableaux-vivant; un’arte che definirei drammaturgica, un impasto, una mescolanza di varie discipline.
-Del tipo di quella espressa nel Padiglione del Ghana, ad esempio?
R: Si certo, anche; ma l’esempio più eclatante secondo me è quella del Padiglione lituano, con quella sorta di tableaux vivant che ha vinto il Leone d’Oro.
-Cioè il primo premio; un premio meritato a tuo parere?
R: Secondo me si, assolutamente meritato innanzitutto perché l’opera proposta è di grande qualità; intendo opera nel senso che si può attribuire non solo ad un dipinto, ma anche ad un lavoro cinematografico, o letterario, o lirico, per dire. Credo che il concetto stesso di opera sia oggi da rideterminare e sia divenuto più interessante da interpretare, è come se fossimo dinanzi ad una nuova categoria, vale a dire la pratica di fare opera, che ha un senso e uno spazio esplorativo più ampio di quanto non fosse finora e che mi fa pensare ad una grande evoluzione in atto. Ovviamente siamo in una fase di maturazione, e tuttavia siamo di fronte ad ‘opere’ molto empatiche molto emozionali che cercano di attrarre il pubblico e di coinvolgerlo giocando sui suoi sentimenti e su una condivisione emotiva.
-Posso sapere se questo che dici dev’essere inteso anche per Patria, l’opera fatta di accumulo di pietre e sassi, intitolata Eclisse, firmata da Sara Goldschmied ed Eleonora Chiari attualmente in esposizione qui al Museo Novecento?
R: Beh certamente anche Goldschmied & Chiari cercano una condivisione immediata col pubblico in questo caso attraverso la declinazione di un termine che riecheggia qualcosa di profondo in ciascuno di noi.
-Insomma mi vuoi dire che Sergio Risaliti e il Museo che dirige hanno in qualche modo anticipato le tendenze d’avanguardia ?
R: No, non è così, anche perché con Eclisse siamo ancora nel campo delle istallazioni e della scultura e se è vero che potremmo dire che l’effetto è ancora più coinvolgente, tuttavia siamo ancora di fronte all’oggetto, di fronte alla forma, ancorati al mondo della scultura e della istallazione plastica. E invece, per ritornare a ciò che mi è piaciuto di più a Venezia è lo spostamento –come dicevo prima- l’evoluzione verso nuovi linguaggi, ad esempio in alcuni documentari, in certi video; queste espressioni in effetti mi hanno molto interessato.
-Parli di alcuni documentari ed alcuni video; ma il resto ?
R: Parlo di quanto ho visto di affascinante e nuovo in certi Padiglioni, al contrario del Padiglione Internazionale dove non mi hanno emozionato le opere più tradizionali ( pittura, scultura, installazioni) e l’allestimento mi è parso un po’ confuso più da Fiera che da Biennale; non voglio entrare troppo nel merito, ma posso certamente dire che l’arte che si appoggia ancora alla tradizione, nel senso che diamo a questo termine, ossia l’arte del manufatto, l’ho trovata davvero di bassa qualità.
-Che dici del Padiglione italiano?
R: L’allestimento mi è sembrato sovrabbondante, probabilmente la personalità del curatore – che deve sempre in qualche modo poter manifestare se stesso, le sue intenzioni- è stata eccessivamente sovrastante alle opere degli artisti, che invece mi pare tendessero ad essere più celate che esibite. Dentro le maglie di quel percorso le opere si autoescludevano in una posizione di marginalità. Mi pare che ne abbia risentito soprattutto Liliana Moro che invece non ha affatto una posizione marginale nel panorama artistico e non meritava certo di averla in questo contesto, dal momento che è un’artista che mantiene sempre una qualità molto alta nelle sue opere, dalla fine degli anni Ottanta ad oggi.
-Per entrare ora dentro al Museo Novecento parliamo della bella mostra di Vincenzo Agnetti.
R: La mostra rientra nel progetto Solo, con il quale dedichiamo un’ala del Museo a piccole ma preziose antologiche –come dei cammei- riservate ad artisti di primo piano del ‘900, come appunto Vedova, Manzoni, Medardo Rosso e adesso Agnetti. Il curatore, Giovanni Iovane, si è concentrato sul tema del rapporto tra territorio e città, laddove la città è il luogo della comunità quindi anche della condivisione di valori, mentre il territorio allude ad una sorta di definizione dei limiti, di confine, che ha inevitabilmente a che fare anche con l’esercizio del potere applicato alla geografia, alla toponomastica. Si tratta con tutta evidenza di una esposizione politicamente impegnata pur essendo formalmente fatta di lavori che non presentano questo immediato impatto visivo, come invece può essere un documentario.
–Cambiamo per un attimo argomento, tra qualche settimana apre la Biennale Antiquaria fiorentina, sei d’accordo con questa mescolanza antico-moderno (messa in atto anche con le mostre di Koons, Currin, Fischer e in parte anche Ytalia) che da alcuni anni si fa in questa manifestazione ?
R: Certamente, sono profondamente d’accordo; ritengo che Fabrizio Moretti abbia dato una spinta straordinaria al rinnovamento della Biennale. Ha fatto un’operazione giustissima, estendendo gli inviti e il programma dall’antico al contemporaneo, arricchendo le giornate della Biennale di una serie di esperienze di arte contemporanea, perché in quelle giornate Firenze diviene capitale dell’arte generalmente intesa; e comunque a Firenze non si può scindere l’antico dal moderno a mio avviso, qui l’antichità è presenza continua; non è come in altri luoghi
-Ed è anche uno dei compiti del tuo Museo, immagino, quello di collegare il passato al presente, vista la città in cui operi?
R: Non ho mai concepito in modo separato le epoche dell’arte ed ho sempre studiato arte nel suo dispiegarsi in continuità nelle varie epoche e sfaccettature; d’altra parte i nostri grandi maestri, da Longhi ad Argan non facevano specialismo, si occupavano allo stesso modo di Piero della Francesca come di Carrà; ecco, mi piacerebbe che i nostri storici e critici d’oggi ed anche i curatori avessero questa apertura mentale e ovviamente la stessa capacità di aggiornamento e di approfondimento spaziando dall’ieri all’oggi senza pregiudizi o lacune.
-E allora, giusto per parlare dei grandi maestri, tra le opere di Morandi che, a cura di Cristina Bandera, sono attualmente in mostra nel primo piano del Museo, si può vedere anche il famoso scritto Exit Morandi in originale, composto da Roberto Longhi in occasione della scomparsa dell’artista suo grande amico, dove egli formula dei giudizi sulla Pop art non proprio azzeccati …
R: Penso ad una mostra su Morandi almeno da trent’anni, proprio da quando ebbi modo di leggere l’Exit Morandi che mi colpì molto; è evidente che nel momento in cui venne scritto quel testo, cioè nel ’64, agli occhi di molti critici –parlo di critici d’avanguardia – Longhi potesse apparire un conservatore, invece si è mostrato più lungimirante di molti altri e il suo parere è da leggere alla luce di quello che è accaduto dopo il 1964. Morandi è stato un punto di riferimento in una linea dell’arte antagonista alla Pop Art; d’altra parte Morandi fu un grande, un artista aggiornatissimo che conosceva bene quale fosse l’arte del suo tempo, che sapeva scegliere i suoi riferimenti, sapeva selezionarli e farli suoi trasformandoli in un linguaggio proprio, personalissimo; e credo di poter dire che una mostra come questa, curata in modo esemplare da Cristina Bandera, una delle massime esperte mondiali di Morandi, sia una vera lezione, una lezione sulla contemporaneità, una lezione per gli artisti, per gli storici d’arte e i critici contemporanei.
-Qualche domanda adesso sul Museo che dirigi ormai da più di un anno. Come si conduce un museo come questo, in una realtà importante come Firenze? Come si gestisce il budget? Qual è il rapporto con le altre istituzioni?
R: Il budget dipende per un 50% dal finanziamento pubblico per l’altro 50% dalla collaborazione con privati; la spesa corrente, vale a dire personale, illuminazione, altre spese di gestione ecc dipende dal Comune; ma è ovvio che un Museo non vive solo di questo, bensì di contenuti, di produzione, di eventi A differenza di altri luoghi espositivi che magari possono contare su budget superiori al nostro, il museo lavora 365 giorni l’anno, sul moderno e sul contemporaneo, sul ‘900 e sull’attualità! Si tratta di un lavoro di educazione, di sensibilizzazione, di formazione che avviene sul doppio fronte dell’aggiornamento e della rilettura del passato, svolto con serietà, vitalità ed impegno. Il Museo Novecento non è un luogo dove si lavora a scadenze, con iniziative una tantum, magari bruciando risorse gigantesche, bensì un laboratorio dove si svolge un lavoro quotidiano di grande impegno. Con la prima tranche di finanziamenti abbiamo realizzato il riallestimento generale a tutti i piani dotando il museo di spazi espositivi che prima non esistevano e che sono essenziali per completare la funzione del museo oltre la conservazione e il mantenimento delle collezioni permanenti con cicli di esposizioni, eventi collaterali, performativi, e poi cinema, video, editoria, conferenze infine incontri e lectio.
-Come vi siete organizzati a questo scopo.
R: Facciamo intervenire direttamente gli artisti ma non solo ovviamente, insieme a loro chiamiamo intellettuali, filosofi, storici e critici d’arte. Il Museo svolge un’attività a 360° ed abbiamo individuato alcuni assi portanti su cui basarci, a cominciare dalla collezione permanente, passando alle esposizioni temporanee secondo i progetti che stiamo mettendo in pratica e poi agli eventi; il lavoro di mediazione culturale è fondamentale per coinvolgere anche pubblici speciali, per questo abbiamo iniziato l’attività outdoor, cioè fuori dalle mura museali, con il museo dislocato, che organizza eventi fuori dal luogo madre, ad esempio al Museo Bardini, a Palazzo Vecchio, al Forte Belvedere e magari un domani anche in piazza della Signoria.
-Vedo comunque che gli Uffizi vi fanno concorrenza, ultimamente con questa notevole mostra di sculture di Tony Cragg a Boboli.
R: La concorrenza e la competizione per me sono sempre bene accette, certo mi piacerebbe che si giocasse ad armi pari, nel senso delle possibilità economiche; posso però rivendicare una sorta di primato in questo campo, perché abbiamo iniziato con il Sindaco Nardella ha dare questi esempi di apertura al contemporaneo, bisogna dargliene atto. C’è stata una visione di politica culturale coraggiosa condivisa con il Sindaco. Poi ci hanno seguito gli Uffizi e Palazzo Strozzi.
-Vuoi spiegare meglio cosa è questa attività outdoor?
R: E’ una parte basilare dell’attività del museo; consiste nel dislocare opere d’arte nelle scuole, portarle davanti ai più giovani al seguito di trasportatori, i restauratori ecc per dare ai ragazzi proprio l’idea di cosa si muove intorno ad un quadro o ad una scultura, come si tutelano, come si gestiscono le opere Siamo andati anche nel carcere di Sollicciano. Insomma questo è quanto può e deve fare un museo nelle sue buone pratiche, agendo nel senso della civiltà e della trasmissione della cultura, permettere l’aggiornamento e la costruzione di nuove esperienze interpretative che aumentano la qualità della democrazia culturale e non solo. Stiamo lavorando parecchio sul campo dell’editoria con la realizzazione di cataloghi e la guida della collezione Alberto della Ragione che non esisteva. Abbiamo stipulato collaborazioni con il Maggio Musicale fiorentino, con l’Accademia di Belle Arti e con la Manifattura Tabacchi.
-Ma non pensi a costituire una Associazione di Amici del Museo Novecento che possa sostenere le vostre programmazioni?
R: E’ un passo fondamentale per la vita di una istituzione museale.
– Un’ultima domanda te la pongo sulla collezione permanente; che importanza ha nella vita del tuo museo e dunque come pensi di salvaguardarla ma anche di aggiornarla.
R: La collezione permanente la intendo come una collezione permanentemente in divenire, permanentemente da valorizzare attraverso nuove interpretazioni, esposizioni, in modo da restituirla al pubblico sempre in modo nuovo, diverso; credo che sia fondamentale questo aspetto, altrimenti a parer mio la collezione permanente si fossilizza, si deprime dal punto di vista culturale e intellettuale, riletture della collezione che vanno continuamente stimolate ed aggiornate. Io concepisco la collezione permanente come una sorta di testo madre che deve essere continuamente riproposto in modo nuovo, continuamente riletto.
–Certamente credo che tu stia lavorando per questo, però ti chiedo, al di là delle aspettative e dei tuoi auspici, ci sono segnali concreti?
R: Io ho cominciato a lavorare per questo fin dal primo giorno, ma quello che auspico si potrà realizzare solo se il museo diventerà una istituzione autorevole; quanto alle cose concrete che mi chiedi, intanto ti rispondo che molti degli artisti che hanno partecipato alle mostre di quest’anno stanno donando una loro opera, dunque la collezione si è già incrementata; con i privati stanno iniziando i contatti, per ora ti dico che abbiamo avuto una importante donazione da un collezionista americano; sono i primi segnali non tanto di una rinascita ma di una vera e propria nascita e crescita. Il Museo Novecento a Firenze è già diventato una realtà centrale, fondamentale per la vita culturale della città e nel giro di poco lo sarà a livello nazionale e internazionale. Abbiamo la situazione favorevole, la continuità di visione progettazione e sostegno che ci viene assicurata dalla riconferma a Sindaco di Dario Nardella.
P d L Firenze giugno 2019