di Beatrice BUSCAROLI
Un inizio, promesse, inviti, soste, cadute, riprese, un addio straziante.
Quattrocentosessantatre lettere in vent’anni. Questo il bilancio del carteggio tra Francesco Arcangeli e Gabriella Festi. Questi gli anni salienti: 1943 -1969.
La vita del critico d’arte bolognese più fervido del secolo scorso, Francesco Arcangeli (1915 – 1974), scorre, nelle pagine dell’appena pubblicato carteggio, Francesco Arcangeli – Gabriella Festi, Come un ricordo remoto d’amore, a cura di M. Malatesta e D. Festi (Bologna, Pendragon, pp. 272), quasi impalpabile ma resistentissima carta velina, che nasconde o svela, ricalca.
Lo scambio di missive cominciò in piena guerra; finì, dopo molte avvisaglie, poco prima della morte dello scrittore. Perché scrittore e poeta fu Francesco, divenuto storico e critico d’arte quando gli si rivelò la storia dell’arte e il suo potente maestro e mentore, Roberto Longhi, e ne seguì i corsi, i viaggi di studio, le incursioni nelle chiese, laureandosi nel 1937.
La prima lettera è del 1943. Arcangeli ha ventotto anni ed è in vacanza vicino a Rimini, alla “Barafonda”, come rimarcava sua sorella Bianca Rosa, pittrice col nome di Rosalba, arricciando la erre. Francesco legge, perlustra i dintorni in bicicletta, gioca a tennis “e poi studio e scrivo, scrivo e studio come un disperato”.
Si rivolge a Gabriella Festi, studentessa di lingue all’Università di Venezia, con un rispettosissimo “lei”, destinato a sparire molto presto. Gabriella ha trent’anni. Alla prima lettera, datata 12 agosto, segue immediata la risposta, quattro giorni dopo. Dalla montagna, dove volentieri si reca d’estate, lo ringrazia delle poesie, lo aggiorna sulle sue giornate, la salute e lo scorrere del tempo, quasi sempre rannuvolato da una sorta di monotona ripetizione, di gesti, di corrucci, di pensieri ricorrenti.
Il tono delle rispettive lettere è destinato, col tempo, a rimanere simile ai primi incunaboli.
Per Francesco ogni missiva, o quasi, è una lunga dissertazione sulle occupazioni, i pensieri, gli affanni, il lavoro, i progetti, ma, soprattutto in certi periodi, i suoi sentimenti per la donna.
Gabriella scrive quasi sempre resoconti di viaggio, garbati e meticolosi, talvolta distaccati, educatissimi sempre.
L’inizio della vicenda d’amore esplode già nella seconda lettera del carteggio pubblicato, 17 ottobre 1944, quando Arcangeli si dichiara con una forza e una semplicità disarmanti: “Io ti amo e vorrei che tu potessi essere la mia donna, per sempre”.
Da questo foglio, e via via per tanti anni a seguire, Francesco (già in famiglia detto “Momi”) dipana lo svolgersi del suo sentire fino alla grande crisi del 1950. Che non interruppe lo scambio, ma lo cambiò del tutto.
Le lettere che seguono il primo struggente grido di un amore non destinato a compiersi segnano impercettibili ma costanti variazioni. I soprannomi innanzitutto: per Arcangeli lei è “diamante adorato”, “diamante unico”, “il Gab”, “Gab adorato”, “gabettino”, “esserino”, “nanno adorato”; lui resta Momi, alle volte “adorato”, altre “tesoro”. Poi i toni, le confidenze, i rimbrotti, i rimproveri…
Arcangeli a volte aggiunge poesie, come quella che contiene l’immagine di lei, datata 30 settembre 1947: “Nell’acqua cupa e ferma del Cinquale…” dove la donna appare “sola”, come spesso accade nella vita, a “tremare con la stella della sera”.
“Stella sola” è la poesia che dà il titolo alla preziosa silloge a lei dedicata, opera, come scrisse Dario Trento, “che segna il compimento di un tirocinio”. Da questa raccolta, concludeva nella toccante prefazione lo storico dell’arte
“materie e temi vengono riversati nella critica d’arte, avviando la vicenda che avrebbe fatto di Arcangeli l’interprete della vicenda informale italiana”.
E ancora Carlo Emilio Gadda avrebbe collocato Arcangeli tra
“i lirici d’amore con un eloquio de’ più nobili, de’ più autorevoli, con un’immaginativa concreta, corposa (…). Il battito d’amore è oggettivo in un rapporto (magari occasionale) col mondo fisico, il momento del cuore si lega a un momento del giorno…”.
A tratti “petrosa”, a tratti “salutifera”, la poesia, datata febbraio 1945, amara e a sua volta solitaria, scabra, arida, quasi volesse somigliare alla persona a cui si rivolge, presenta una scena della profonda e lunghissima separazione che conduce i due alla rassegnazione finale (“la tua vita, che non mi ama”).
Nel frattempo gli anni trascorrono, Francesco si addentra sempre più profondamente nelle strade dell’arte, antica e contemporanea, visita, quando e come può, musei e mostre su cui scrive, conosce artisti, frequenta colleghi, incontra Lea Colliva – che per questa visita acquista una poltroncina nuova, poi disegnata – Plinio Mandelli, Morandi.
Gabriella percorre faticosamente la strada dell’insegnamento, spesso scontenta o preoccupata, troppo spesso insoddisfatta delle sue vacanze o della malferma salute.
Anno dopo anno, il “fidanzamento tranquillo e borghese” che Momi, non senza una dolorosa ironia, aveva immaginato per loro, si allontana sempre più. Lei voleva un’unione libera e senza figli; lui sembra scalpitare di fronte alle troppe regole, le troppe paure, che, senza dubbio, provano entrambi.
Ma lo scoppio di vita che accompagna le deflagranti dichiarazioni di Arcangeli sembra contrastare con l’uomo che già conosciamo, dagli scritti, dai lavori.
Longhi appare noioso, talvolta; affettuoso, altre; sua moglie Anna Banti in vesti di scrittrice (Lucia Lopresti era il suo nome), altalenante tra una sorta di simpatia ritrosa e una malcelata insofferenza; Morandi, ombra dapprima, distante e ancora tremula, appare e riappare seguendo lo scorrere delle pagine che Arcangeli gli dedica, aumentando quello scontento che ferisce e offende il critico e rende l’artista ottuso e indispettito. E’ il tempo in cui Morandi, che ha chiesto ad Arcangeli uno scritto sul suo lavoro, comincia a dissentire sempre più accanitamente dalle pagine che l’amico critico gli va portando, fino a trasformarlo in un “trauma per la cattiva accoglienza…”.
“Questo Morandi è interminabile” –le confessa nel 1961- “e le difficoltà che ha fatto hanno complicato la situazione (…). Soddisfazioni dirette da lui, che erano le più ambite non c’è da aspettarsene, se non in misura minima”.
Eppure, sono proprio fogli di Morandi che Francesco Arcangeli, in veste dapprima di consulente e di Direttore della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna poi, acquista proprio in questi anni in cui l’iniziale sfinimento si trasforma in una sorta di previsione … ancora una volta amara e sconfortata:
“Ci vuole pazienza; eterna, immutabile pazienza. Ormai nel mio lavoro ho scelto le strade più difficili, non posso aspettarmi anche gli elogi…”.
La sala del MAMbo, allora Galleria d’Arte Moderna, che Arcangeli diresse dall’agosto del 1958 al gennaio di dieci anni dopo, raccoglie oggi, come in una ristretta, privata e intima raccolta, gran parte delle opere che il critico acquistò per le collezioni della città.
E’ una mostra (Tramando. Le acquisizioni di Francesco Arcangeli per la Galleria d’Arte Moderna di Bologna, a cura di U. Zanetti con L. Selleri, fino al 6 gennaio 2025) che, al pari dell’altra tuttora in corso (fino al 1 dicembre 2024) dedicata alla collezione privata di Arcangeli, (Fondazione Carisbo, I pittori di Francesco Arcangeli nella donazione di Rosalba, a cura di A. Mazza, M. Nottoli, B. Basevi), intende concludere la serie di iniziative dedicata al cinquantenario della morte dell’uomo che, in tutte le vesti che indossò, pittore, critico, scrittore, poeta, innamorato, fratello, rivela un complesso ma fervido legame con la sua città.
E se Mandelli e Morlotti, come Rossi e Minguzzi, appaiono nell’una e nell’altra, l’esposizione del Mambo rivela alcune eccentricità da “conoscitore”, alcuni azzardi, alcune sorprese. Così la naturale espansione del suo “ultimo naturalismo” prevede il naturale accostarsi di quegli interpreti ai quali Arcangeli consacra il suo maggiore sforzo di critico, ma altre scelte rivelano un coraggio e un’intraprendenza veramente impensabili. Allora appare un Quinto Ghermandi ancora segnato dall’esempio del maestro Cleto Tomba, che sarà seguito da un altro volto dello stesso Ghermandi, maturo e volitivo, ecco Asger Jorn, una piccola composizione su carta di Wols, una tempera di Fautrier…L’informale americano ed europeo entra in collezione: seguirà un elegantissimo Burri, definito e tagliato come una scultura.
Il proposito di trasformare una raccolta di provincia in un museo “di dignità almeno nazionale” gli fanno ambire a una completezza maggiore. Ecco un piccolo Luigi Bertelli, per completare lo sguardo su un ottocento intravisto e poco trattato dai predecessori e dai colleghi, ecco una Fucilazione di patrioti di Renato Guttuso, quasi a rispondere ai quesiti lasciati eternamente irrisolti dalla misteriosa mostra del 1948 presentata da Palmiro Togliatti.
Gli “ultimi naturalisti” srotolano il loro cuore commisto realmente di natura e di quel che resta di umano in un critico che cercava brandelli del suo sentire nel crogiuolo delle forme. Così Rossi, Bendini, leggero e trasparente, un Mandelli forte ancora dell’umidità della terra, Moreni, un impeccabile Romiti, Leoncillo.
Ma torniamo alle lettere, filigrana dolente di una reale autobiografia.
In una missiva del luglio 1967, che comincia con una dolorosa rassegnata constatazione: “e non cambia niente su questo strano territorio che è diventata la nostra vita”, compare un germoglio nuovo.
La “potenza del passato e delle nostre radici”, da “Wiligelmo a Ludovico Carracci a Crespi”, svela l’origine della maggior mostra che Arcangeli ordinerà, accompagnandola da un testo unico nella storia dell’arte non soltanto bolognese.
“Mi è saltato in testa che forse a questi giovani che vengono a studiare qua, occorrerebbe dare l’idea che Bologna, e l’Emilia, sono state, nel tempo, il luogo di una grande arte originale; tanto perché imparino (…) che esiste anche la potenza del passato e delle nostre radici”.
“Insomma non la Bologna e l’Emilia del Francia e di Guido Reni e del Morandi più sereno, ma quella selvatica e popolare, carne, umore, fantasia, della sua grande tradizione naturalistica ed espressionistica”.
Ecco l’idea da cui nasce l’ancor oggi stupefacente raccolta di capolavori che vennero a comporre la mostra intitolata “Natura ed Espressione nell’arte bolognese – emiliana”, aperta al Palazzo dell’Archiginnasio nell’autunno del 1970.
E le tracce sparse che aveva cominciato a lumeggiare nella lettera a Gabriella diventano un percorso, un solco profondo destinato a spiegare per sempre alcuni caratteri della sua visione, unica e ardita, che, per via dei “tramandi”, conduce davvero da Wiligelmo a Morandi.
Quanto al carteggio e ai personaggi che gli hanno dato l’anima, tutto comincia a ripetersi, quasi per una forma di inerzia talvolta imbarazzante, a disseccarsi fino a un esaurimento finale, fatale, atteso, inesorabile.
Beatrice BUSCAROLI Bologna 17 Novembre 2024