di Francesco DE FEO
Sono ormai 4 le generazioni della mia famiglia che passano le vacanze nella piccola casa di Procida. La progettò mio padre l’architetto Vittorio De Feo (Napoli 7. 7. 1928 – Roma 16. 12. 2002) negli anni ’60. Papà l’isola l’aveva nel cuore perchè fin da ragazzo ci andava a remi da Ischia a prendere il vino con “Luigino” Di Scala il fondatore di una storica trattoria sulla spiaggia di S. Pietro proprio di fronte al lido di Procida.
Per tutti gli anni ’60, finchè da Roma non si trasferì a Massa Carrara, mio padre e Pietro Cascella furono legatissimi, perciò fu proprio con Pietro, che le sue case se le faceva allo stesso modo delle sculture, che papà andò a Procida per scegliere il terreno su cui costruire la nostra. Si trova in via Raja 24 che inoltrandosi verso “Punta Pizzaco” diventa inaccessibile alle macchine e offre una vista impareggiabile sulla Corricella, la Terra Murata, Capo Miseno e il Golfo.
Già allora la piccola isola trascurata dai turisti avrebbe potuto tranquillamente meritare il ruolo di capitale culturale che oggi gli si riconosce all’unanimità. Era infatti un rifugio per artisti e intellettuali come Brandi, Scialoja, Plinio de Martiis, Cosenza, i Pirandello e tanti altri che salpando da Pozzuoli con una delle due storiche motonavi: “Salvatore Marino” e “Raffaele Savarese” in meno di un ora sbarcavano alla “Marina”. Le case in “fitto” per i mesi estivi si trovavano facilmente dai nativi che ne ricavavano il denaro per svernare. Ne serviva molto meno di oggi sia a noi che a loro dato che gli ortaggi e un vino già celebrato nelle canzoni napoletane erano prodotti dagli ex naviganti o contadini che coltivavano con passione piccoli appezzamenti tramandati nelle famiglie.
Le “Parule” (orti) disseminati sui promontori, o come si dice qui sulle “punte”, erano terrazzati e venivano coltivavati su più livelli grazie all’inesauribile generosità della terra flegrea. Ai margini crescevano sorbi, fichi, albicocchi e prugni, le viti erano innalzate e legate ai “ciarravoni”: alti pali di castagno provenienti dalle foreste dell’Irpinia, e accanto si seminavano patate, “cicerchie”, carciofi e pomodori per “le bottiglie” che ogni famiglia si preparava annualmente. All’epoca infatti i giardini con i celebri limoneti, gli orti e i vigneti non erano ancora stati divorati dalla speculazione edilizia e le macchine erano poche e inutili per le brevi distanze e le strade concepite per il transito di qualche carretto.
L’isola è densamente popolata ma date le dimensioni esigue preferivamo girarla a piedi in modo da scoprire gli innumerevoli scorci, le architetture e i giardini sorprendenti e misteriosi.
Oltre al porto principale della “Marina grande” che guarda il costone tufaceo di Monte di Procida ce ne sono due per i “Gozzi”, le “Cianciole” e i pescherecci. Il più piccolo: “La Corricella”, celebre borgo di pescatori incastonato nella baia dominata dal primo centro abitato della “Terra Murata”, è a circa 1 km dal porto e vi si accede salendo a Piazza dei Martiri e discendendo varie rampe di scale, mentre per arrivare alla “Chiaiolella” si devono attraversare tutti e 4 i km di strada principale.
Già negli anni ’60 la “Chiaiolella” (spiaggetta) riusciva ad accogliere più facilmente i villeggianti che potevano anche affittare un gozzo a remi per andare a fare il bagno a Vivara, e fu proprio per chiamarci da una di queste barche che Luciana Pirandello mi insegnò a fischiare alla pecorara; e credo fosse proprio in quel periodo che Cy Twombly regalò a mio padre un disegnetto che lui attaccò al muro di casa con le puntine finché non andò perduto.
Il progetto della casa risale al 1961, ma la costruzione richiese qualche anno, saranno circa una settantina di mq sapientemente distribuiti su due volumi cubici allineati, sfalsati in altezza e divisi da una scala interna, corrispondente a quella esterna, che sale ai due terrazzi dalla splendida vista. Il piano superiore comprende il soggiorno la cucina e la camera dei miei, quello inferiore gli alloggi per noi e gli amici più cari: Giorgio Ciucci, F. Dal Cò, F. Aggarbati, Franca Maj ecc. che ci raggiungevano regolarmente d’estate come d’inverno dato che l’isola è forse anche più bella a Natale e Pasqua.
Intorno al ‘70 (avevo circa 11 anni) papà ci regalò una barchetta di legno da tenere nella baia sotto casa dove anni dopo giunsero a vela Claudio e Maria Grazia Ombuen, ed anche, come narra nel suo bellissimo libro: “I fortunati decenni”, il fratello di lei, l’architetto Pietro Barucci col suo ‘Cormoran’.
Verso il 1980 mio padre scrisse anche il libro “Procida l’isola, il paese, l’architettura” con fotografie di Fabrizio Knight edito da Electa solo nel 1992.
Prima della sua morte il Fondo De Feo che conta circa 7000 tavole, 1800 tra foto lettere e documenti, 23 modelli e una biblioteca di 1700 titoli“per l’estrema importanza nella storia nazionale e internazionale dell’architettura” entrò nelle collezioni del MAXXI di Roma dove si trova quindi anche il progetto di quella che ho già definita “l’ultima casa Procidana” perché conclude nel modo più appropriato ai suoi tempi un discorso architettonico di antica tradizione.
Francesco De FEO 19 dicembre 2021