di Luca CALENNE & Manuela NOCELLA
Due opere inedite e otto tempere ritrovate di Francesco Maria Allegrini
In attesa di uno studio complessivo sul pittore Francesco Maria Allegrini (Napoli, 1623 – Roma, 1684), l’ultimo valido interprete della maniera del Cavalier d’Arpino, ovvero di una monografia che ricostruisca definitivamente la sua biografia – includendo gli ultimi preziosi dati documentari a quelli già noti[1] – e metta ordine al suo folto catalogo (disegni compresi), vogliamo qui presentare un paio di opere inedite, e altre otto di piccolo formato che sono pressoché sconosciute anche agli specialisti del pittore. Si tratta di un gruppetto di otto deliziose tempere su pergamena, oggi in una collezione privata eugubina, che era stato già pubblicato da Caterina Zappia nel 1979, ma di cui poi si erano perse le tracce[2].
La studiosa aveva ipotizzato che queste «storiette» potessero essere «l’unica traccia superstite» della produzione di Anna Angelica Allegrini (Roma, 1626 – 1686), miniaturista sorella di Francesco, della quale tuttavia non si è ancora trovata alcuna opera certa. Sappiamo soltanto che fu tra gli autori – insieme al fratello, al padre Flaminio e a numerosi altri artisti – dello studiolo di straordinaria ricchezza realizzato per l’abate Antonio degli Effetti, erudito orbitante nella cerchia di Francesco Barberini, purtroppo andato perduto e conosciuto solo grazie alla minuziosa descrizione che ci ha lasciato il suo proprietario [3]. La sua menzione più antica si deve al Bellori, che nella sua Nota delli Musei (1664) lo presenta come
«un curiosissimo studiolo, che si apre in una Galeria di pitture picciole ad olio, di miniature e coloretti a guazzo fino al numero di ottanta, colorite da celebri pittori moderni».
Nel nostro caso, però, riteniamo che il gruppetto di tempere conservato a Gubbio vada riferito al solo Francesco, seppure sia sempre difficile dividere la mano del maestro da quella dei numerosi aiutanti della sua bottega, che poteva contare ovviamente pure sull’apporto della sorella.
La produzione di opere in piccolo formato deve essere stata una pratica usuale all’interno della bottega della famiglia Allegrini: i dipinti che qui presentiamo possono infatti essere accostati ai piacevoli «piccoli quadri a olio steso su cartapecora poggiata su tavolette alternate a miniature su pergamena» di due grandi cassettoni con ribaltina nella collezione della Galleria Nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini, studiati da Andrea De Marchi[4].
Le nostre otto tempere – due rettangolari, due ovali e quattro trapezoidali – dovevano certamente far parte anch’esse della decorazione di uno studiolo o un cabinet, e grazie alle somiglianze stilistiche con il ciclo in affresco delle Stanze dei Profeti e dei Re del Palazzo Pamphilj di piazza Navona, in particolare con quelle delle Stanze di David e Salomone (1658-59), riteniamo che si possano datare alla seconda metà degli anni Cinquanta del Seicento.
Sebbene narrino diversi episodi di storia romana, esse sembrano seguire un unico filo conduttore, quello della lealtà verso il proprio popolo. Le tempere più piccole di formato trapezoidale illustrano alcuni celebri fatti dei primordi di Roma, quando, una volta fondata la città sul Palatino, i romani cominciarono a espandersi, venendo a contatto con i vari popoli che erano stanziati nei dintorni.
Secondo Livio, in un primo momento Romolo provò a stringere alleanze con le città vicine così da incrementare la popolazione e costituire eserciti per le sue future guerre di conquista. A tale scopo, il re invitò a stabilirsi in città anche criminali, schiavi fuggiti, esiliati e altri reietti delle città vicine, concedendo loro asilo; si tratta della scena raffigurata nel primo quadretto della nostra serie [fig. 1] dove, per l’appunto, alcuni personaggi dall’aria malconcia scendono da una piccola imbarcazione protendendo le braccia verso Romolo, il quale li accoglie con un gesto plateale.
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Ciò, comunque, non bastava al re di Roma per i suoi propositi espansionistici, poiché ancora scarseggiavano in numero le donne che potevano dare nuovi figli alla città.
Per tale motivo:
«Romolo su consiglio dei Senatori, inviò ambasciatori alle genti vicine per stipulare trattati di alleanza con questi popoli e favorire l’unione di nuovi matrimoni»[5].
Si tratta dell’episodio raffigurato nel secondo quadretto [fig. 2], dove ambasciatori romani, recanti il fascio littorio, incontrano le delegazioni delle città vicine, a cui consegnano simbolicamente la richiesta di alleanza.
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La loro presenza a Roma, però, non era ben vista dagli altri popoli che non vollero concedere le proprie figlie in spose, temendo peraltro, le intenzioni dei romani:
«All’ambasceria non fu dato ascolto da parte di nessun popolo: da una parte provavano disprezzo, dall’altra temevano per loro stessi e per i loro successori, ché in mezzo a loro potesse crescere un simile potere»[6].
A questo punto Livio racconta lo stratagemma ordito da Romolo; egli organizzò dei giochi per attirare in città le popolazioni vicine, e
«quando arrivò il momento stabilito dello spettacolo e tutti erano concentrati sui giochi, come stabilito, scoppiò un tumulto ed i giovani romani si misero a correre per rapire le ragazze. Molte cadevano nelle mani del primo che incontravano»[7].
Si tratta del famoso episodio del ratto delle Sabine, che si vede nel terzo quadretto del nostro ciclo di tempere [fig. 3].
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La presenza di un’imbarcazione farebbe pensare al ratto di Elena piuttosto che a quello delle sabine, ma le due figurine a sinistra sembrano effettivamente una citazione del Ratto delle sabine di Pietro da Cortona (ai Musei Capitolini), il secondo maestro dell’Allegrini, che ne assimilò l’impronta stilistica e l’amalgamò sapientemente a quella del Cesari. Peraltro, è da notare che Romolo protagonista della storia, è riconoscibile in ciascuna di queste tempere, perché raffigurato sempre con tunica azzurra e manto rosso.
Livio racconta che dopo il rapimento delle fanciulle, i loro genitori, impauriti scapparono e accusarono i Romani di aver violato il patto di ospitalità. Il re dei Sabini Tito Tazio ideò, a sua volta, un espediente per vendicare l’affronto subito. Allettò con l’inganno la vergine vestale Tarpea, desiderosa di possedere le armille d’oro che portavano i Sabini al braccio sinistro, per poi dopo ucciderla. In questo contesto si inserisce uno dei due piccoli dipinti di forma circolare [fig. 4], in cui è raffigurato proprio l’episodio in cui la romana Tarpea apre le porte della città ai nemici.
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L’ultimo dipinto di forma trapezoidale raffigura invece l’esito della battaglia che seguì a tali avvenimenti, ovvero quella del lago Curzio, avvenuta fra il 753 e il 751 a.C., che si concluse con un’alleanza tra i due popoli. Alla fine dei combattimenti, Tazio si stabilì con i Sabini sul colle del Quirinale, mentre i romani rimasero sul Palatino e sul Campidoglio. Romolo e Tazio regnarono insieme per alcuni anni, e nel dipinto li vediamo impugnare entrambi l’insegna dell’aquila romana, mentre Romolo indica a Tazio quale sarà il suo territorio di competenza [fig. 5].
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Anche i rimanenti tre dipinti sono dedicati a episodi della storia di Roma in cui sono protagonisti condottieri che si distinsero per la loro fedeltà: Gneo Marcio Coriolano e Attilio Regolo.
Il primo è il generale che contribuì in maniera determinante alla vittoria dell’esercito romano contro i Volsci della città di Corioli, da cui prese il nome. Come è noto, in quegli stessi anni a Roma infiammava il conflitto tra patrizi e plebei; questi ultimi avevano ottenuto, infatti, una rappresentanza giuridica con l’istituzione dei Tribuni della plebe che peroravano le loro cause. I patrizi non avevano mai accettato tale concessione, e Coriolano era tra i più intransigenti oppositori. A causa di un’aspra contesa con i Tribuni della plebe, egli venne citato in giudizio e condannato dal popolo all’esilio, per essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano per i plebei. Coriolano scelse allora di ritirarsi ad Anzio presso Attio Tullio, generale dei Volsci ormai assoggettati ai romani; i sentimenti di rivalsa che entrambi nutrivano nei confronti di Roma li indussero a muovere guerra. Quando però Coriolano si trovò col suo esercito alle porte della città, gli corsero incontro la madre Veturia e la moglie Volumnia, rimaste a Roma dopo il suo esilio, con l’intenzione di dissuaderlo dal distruggere la sua città.
Narra Tito Livio che, nel vederle arrivare
«Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre»[8].
Sembra proprio l’episodio che troviamo raffigurato nel secondo dipinto circolare della serie [fig. 6], dove vediamo un gruppo di donne trepidanti sulla sinistra che si fanno incontro ad alcuni uomini in armi sulla destra.
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Di queste, due sono in primo piano, elegantemente vestite, e quella più avanti – verosimilmente Veturia – stringe la mano a Coriolano – come a volerlo fermare, mentre con l’altra sul petto indica sé stessa.
A questo punto la storia racconta che le donne piangenti implorarono il condottiero di risparmiare la città dalla distruzione; ed è questa la scena che ritroviamo nel primo dei due dipinti rettangolari della raccolta, in cui il generale siede sotto una grande tenda; la madre Veturia, la moglie Volumnia e un nugolo di altre donne invocano clemenza [fig. 7].
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Le figure e le espressioni delle donne, la posizione del soldato in piedi in primo piano a destra, e quella del suo vicino in ginocchio in atteggiamento di interessata attesa, sono puntuali rimandi a figure molte volte proposte da Francesco Allegrini.
Sempre il senso della lealtà condusse a morte Marco Attilio Regolo, console di Roma che, durante la Prima Guerra Punica, dopo aver consentito all’esercito romano di raggiungere l’Africa, con la vittoria di Ecnomo, nel 255 a.C. venne sconfitto e catturato dai cartaginesi a Tunisi. La guerra continuò finché, stremate da anni di battaglie, Roma e Cartagine tentarono di pervenire a un accordo. Per tale motivo Attilio Regolo nel 249 a.C. venne inviato dai Cartaginesi a Roma per convincere i suoi concittadini a chiedere la pace; prima di partire fu costretto a giurare che, in caso di risposta negativa, sarebbe tornato indietro a Cartagine a subire la sua condanna. Il fiero console, invece di tentare la mediazione, rivelò le pessime condizioni in cui versava l’esercito nemico, e incitò i suoi compatrioti romani a continuare a combattere; poi, però, tenendo fede alla parola data, volle riprendere il mare per tornare a Cartagine, nonostante sapesse che vi avrebbe trovato la morte. Il momento della partenza di Attilio Regolo per Cartagine è la scena che vediamo nell’ultimo dipinto, anch’esso di forma rettangolare [fig. 8], dove il generale si sottrae alle suppliche della moglie e dei familiari che vorrebbero trattenerlo, mentre sulla scialuppa a sinistra, un cartaginese lo attende impaziente.
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A Francesco Allegrini spetta pure l’invenzione del frontespizio di un messale pubblicato a Venezia nel 1669, raffigurante una Trinità circondata da una Gloria di Santi che circonda il lungo titolo del libro incorniciato da un tendaggio [fig. 9][9].
Nonostante l’editore sia veneto, il frontespizio è il prodotto della collaborazione di due artisti che erano di stanza nell’Urbe: nel margine inferiore si legge infatti a sinistra Franciscus Allegrinus delineavit e a destra Baronius sculpsit. Se il primo si può identificare senza problemi con il nostro pittore, l’identificazione del secondo presenta qualche difficoltà cronologica. Con ogni probabilità si tratta dell’incisore tolosano Jean Baron, molto attivo a Roma durante i decenni centrali del Seicento, che però risulta essere già morto nel 1660. Quindi è verosimile che per il frontespizio di questo libro sia stata utilizzata (o riutilizzata) una lastra incisa prima del suo decesso. Non si tratta dell’unico caso in cui i disegni tradotti sul rame da Baron furono utilizzati dopo la sua morte: ad esempio alcune delle illustrazioni che corredano il sontuoso Messale di Alessandro VII, dato alle stampe a Roma nel 1662, recano la sua firma, e non può escludersi che questo frontespizio fosse destinato proprio a quel volume, e che sia stato poi scartato quando la regia della decorazione fu affidata a Pietro da Cortona[10].
Come dimostra la sua scarsa diffusione nelle biblioteche italiane, il messale con questo frontespizio deve avere avuto una tiratura piuttosto limitata, tanto che il medesimo stampatore in quello stesso anno ne pubblicò un’altra edizione che fu però completamente illustrata dalla veneziana Suor Isabella Piccini (1644 – 1734). Sempre lo stesso anno ne fece uscire una terza, illustrata sempre dalla Piccinini, ma al testo aggiunse le «Missae propriae de Sanctis […] ad maiorem Celebrantium comoditatem». Come sia giunta la matrice preparata da Allegrini e Baron in laguna rimane per ora un mistero.
La presenza della firma dell’artista ci esonera dal presentare qui una serie di confronti per confermare la paternità dell’opera, ma logicamente tra le figure dei santi che affollano questa pagina, se ne trova più di una che appartiene al suo più consueto repertorio, come ad esempio quella di San Giovanni Evangelista, con il viso che guarda in alto, così simile a quello del San Sebastiano conservato al Museo diocesano di Gubbio, mentre i volti degli Evangelisti si possono accostare a quelli dei Santi raffigurati nei pennacchi della cappella del Ss.mo Sacramento del Duomo della stessa città. L’impostazione del gruppo della Trinità in alto, invece, per il suo carattere arcaicizzante, sembra derivare dalle opere del padre Flaminio, come ad esempio gli affreschi della cappella di Sant’Antonio della Basilica dei SS. Cosma e Damiano di Roma.
Tuttavia, c’è un dettaglio che merita un’attenzione supplementare, ossia la torre merlata che si intravede in basso dietro la figura di San Luca Evangelista, con accanto quella che pare la chioma di un albero. Un paesaggio simile – ma assai più esteso e leggibile, tanto da potere essere riconosciuto come una veduta di Ponte Milvio – si vede in basso al centro in una tela del Museo Capitolare di Atri, della diocesi di Teramo, che rappresenta la Madonna con Gesù Bambino tra San Bernardo di Chiaravalle e San Benedetto da Norcia [fig. 10].
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Dato che su quel ponte passava la via Flaminia, ossia la strada che conduce alla cittadina di Gubbio – nei pressi della quale (a Cantiano) la famiglia Allegrini aveva le sue origini, e dove Francesco tornò molte volte – questo piccolo inserto paesaggistico assume un valore fortemente autobiografico.
La tela di Atri – proveniente dalla locale chiesa cistercense di San Pietro, oggi non più esistente – in passato è stata più volte attribuita al pittore darpinesco Flaminio Allegrini, padre di Francesco, ma deve essere invece restituita al figlio, come aveva già proposto Caterina Zappia [11]. A comprovare tale paternità sarà sufficiente un confronto con un disegno della collezione Ubaldini che è custodito a Urbania, che sembra un primo spunto per la parte sinistra della composizione[12]. Al contrario del frontespizio, il sostrato darpinesco di Francesco è perfettamente visibile in questa opera, che trova un preciso termine di confronto nella Madonna del Carmelo del Museo Comunale di Frontone, firmata e datata 1679. Pur in mancanza di una documentazione precisa, è plausibile ipotizzare che la commissione della tela di Atri sia giunta Francesco attraverso i buoni uffici del cardinale Elpidio Benedetti, agente del cardinale Giulio Mazzarino a Roma. Infatti, non solo il cardinale era di origine abruzzese, ma era pure il titolare della chiesa cistercense dei SS. Vincenzo e Anastasio a Trevi, posta alle pendici del Quirinale, che egli fece ricostruire dal 1644 al 1653, e in cui il fedele Elpidio fece celebrare le pompe funebri del prelato nel 1661. Se si accetta la possibilità che la commissione sia passata attraverso l’entourage del Mazzarino, la tela abruzzese dovrà collocarsi nei due decenni centrali del Seicento, come suggerirebbero pure i colori tersi e una certa solidità delle figure, nonché l’assenza di quella pittura più rapida e sabbiosa che invece è caratteristica di molte opere della tarda maturità dell’artista.
Sempre intorno alla metà del secolo si può collocare un’altra opera inedita di Allegrini, ossia l’Assunzione della Madonna tra San Giacomo e San Gennaro del Santuario di Santa Maria del Colle di Lenola [fig. 11] piccolo centro della provincia di Latina, non lontano da Priverno, dove si conserva un’altra grande pala di altare del pittore, una volta collocata sull’altare della chiesa del convento delle clarisse [fig. 12] [13].
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Anche nel caso del quadro di Lenola, lo stile dell’opera non lascia dubbi sulla sua paternità. Infatti, pure per i personaggi di questa tela si possono trovare numerosi raffronti nella produzione del nostro artista, a cominciare dal viso di profilo dell’apostolo Giacomo, quasi sovrapponibile a quello di San Giovanni Evangelista della citata tela privernate, e come lui inginocchiato, mentre l’Assunta ricalca le fattezze della Madonna che offre Gesù Bambino a Sant’Antonio di Padova, come è raffigurata in un quadro nella chiesa di San Francesco di Gubbio, talvolta attribuito alla sorella Angelica.
È verosimile che la commissione del quadro di Lenola sia giunta a Francesco in virtù dei suoi trascorsi nella bottega del Cavalier d’Arpino, il quale dal 1606 fu coinvolto come progettista nell’edificazione del santuario, seguendone poi fino agli anni Venti la costruzione e la decorazione a distanza per mezzo di alcuni uomini di fiducia (come Matteo Pagani), ma l’opera in esame è palesemente assai più tarda[14].
Da una fonte manoscritta la tela di Lenola in effetti viene datata 1671, però è assegnata a un tale «Carlo Barone milanese», personaggio sconosciuto ai repertori, nel quale forse si dovrà riconoscere un uomo dell’affollata bottega di Allegrini, o magari un errore di identificazione con l’incisore mantovano Carlo Baroni (attivo a Roma tra il 1759 e il 1775), forse indotto proprio dalla firma Baronius presente sul frontespizio del messale di cui abbiamo sopra discusso[15].
Dopo il ritrovamento di questa opera, che si aggiunge a quella di Priverno, viene il legittimo sospetto che l’attività della bottega di Francesco Allegrini nel Lazio Meridionale sia stata piuttosto estesa: future ricerche permetteranno di capirlo.
Luca CALENNE & Manuela NOCELLA Roma
NOTE