di Francesco PETRUCCI
Nel leggere su questa rivista l’equilibrata recensione di Marco Bussagli (Cfr. https://www.aboutartonline.com/il-bernini-di-maria-grazia-bernardini-una-pietra-miliare-negli-studi-sulle-straordinarie-sculture-del-genio-del-barocco/ ) all’importante monografia di Maria Grazia Bernardini, Bernini. Catalogo delle sculture, edita da Allemandi nel dicembre 2021, sono venuto a conoscenza con stupore che nel recente volume Galleria Borghese / Catalogo generale I. Scultura moderna, a cura di Anna Coliva, il famoso gruppo La Capra Amaltea conservato in quel museo è stato perentoriamente cassato dal corpus berniniano, classificandolo lapidariamente come di “Scultore Ignoto” (fig. 1).
Mi sono affrettato quindi a prendere visione della scheda del catalogo in esame, per verificare le ragioni della improvvisa estromissione. La motivazione principale sarebbe che l’opera non è ricordata dalle fonti, mentre nel tardo catalogo di Ennio Quirino Visconti delle sculture di Villa Borghese del 1796 era ritenuta di autore anonimo del XVI secolo.[1]
Ma tutte le opere giovanili del Bernini, escluso il San Lorenzo Strozzi e il San Sebastiano Barberini, sono ignorate dalle fonti! Lo sono anche varie sculture successive, come il busto di Antonio Cepparelli, i busti dei coniugi Roscioli, il busto in bronzo di Urbano VIII della Biblioteca Apostolica Vaticana ed altre ancora. Questa non è quindi condizione necessaria e sufficiente per un rifiuto così categorico.
La scultura in verità era stata segnalata da Joachim von Sandrart, che raccolse nel 1629 a Roma una vasta documentazione poi pubblicata in tedesco nel suo Teutsche Academie del 1675 e in latino nella traduzione del 1683, asserendo riguardo a Giovan Lorenzo Bernini che
“la prima delle sue opere più celebri era una statua di marmo bianco nodoso, nella quale due fanciulli Baccanti suggono il latte da una capra accosciata”, collocandola quindi agli esordi della sua attività pubblica.[2]
Un giudizio molto attendibile, date le alte frequentazioni romane del pittore tedesco, sia a livello di artisti che di grandi famiglie, informato su tutto per i suoi vasti interessi culturali e divenuto poi curatore della collezione Giustiniani (fig. 2). L’ottimo saggio di Sybille Ebert-Schifferer del 1994 ci dà la misura della statura intellettuale dell’artista-scrittore tedesco e della sua affidabilità.[3]
La connessione di tale riferimento con il marmo borghesiano fu colta tuttavia soltanto tre secoli dopo dal solito intuito di Roberto Longhi (1926)[4] e l’attribuzione è stata confermata su basi stilistiche unanimemente da tutti i massimi studiosi del Bernini: da Rudolph Wittkower, a Valentino Martinelli, Italo Faldi, John Pope-Hennessy, Maurizio e Marcello Fagiolo, Antonia Nava Cellini, Irving Lavin e molti altri. Nella recente schedatura di Maria Grazia Bernardini nella sua esaustiva monografia su Bernini scultore, l’attribuzione è confermata e adeguatamente motivata.[5]
Un interessante apporto documentario si deve a Italo Faldi, che pubblicò un pagamento del 18 agosto 1615 per una sontuosa base in noce destinata alla scultura, decorata con mascheroni e stemma del cardinale Scipione Borghese dall’abile intagliatore Giovan Battista Soria:
“piedistallo di noce fatto quadro per mettere sopra capretta et baco […] scorniciato per tutte le facce e riportateci dentro una cornicetta con sue cimose e basi freggi colarini con un arme di sua Sig.ria Ill.ma et due mascheroni per testa monta”.
Una chiara dimostrazione dell’eccezionalità attribuita al pezzo, soprattutto per la giovinezza del suo autore, come giustamente sottolinea Bussagli. Contemporaneamente veniva pagato un secondo basamento per un altro gruppo scultoreo, raffigurante Tre putti addormentati allegoria del “Sonno” (Roma, Galleria Borghese, inv. n. CLXXXIV), da collocare in pendant con quello in esame (fig. 3).[6]
Si trattava di arredi d’alto artigianato purtroppo perduti, ricordati per la loro importanza più volte anche da Alvar González-Palacios, compreso il suo recente basilare volume Il Mobile a Roma dal Rinascimento al Barocco.[7]
Irving Lavin, la cui cronologia dell’attività giovanile di Bernini – con i necessari aggiornamenti per nuove acquisizioni documentarie -, rimane a mio avviso la più coerente e attendibile, ha collocato la scultura attorno al 1609, basandosi sull’esame stilistico e sull’autorevolezza delle fonti in merito al giovanile talento berniniano, valutando la piena attendibilità della testimonianza di Sandrart. Peraltro sempre nel 1609, come pubblicato da Faldi e sottolineato da Lavin per confermare la datazione proposta, era stato acquistato il gruppo dei Tre putti addormentati, con cui il pezzo in esame formava una coppia. Lavin, considerando che il Busto di Giovan Battista Santoni di Santa Prassede sia databile all’inizio del 1610, secondo l’affermazione del primo biografo berniniano Filippo Baldinucci (1682), pone La Capra Amaltea anteriormente, quale vero incipit pubblico del suo autore.[8]
D’altronde il 1615 per le basi è solo un terminus ante quem, perché i due pezzi in precedenza potevano essere posti su tavoli, come oggi. Lo stesso è avvenuto per la base lignea del San Lorenzo, che è successiva rispetto all’esecuzione del marmo.
Per quanto riguarda l’esame stilistico, oltre alle osservazioni di Wittkower che avvicinava il trattamento dei capelli a quello del giovanile busto di Santoni e il vello della capra a quello nella faretra del David, come pure, aggiungo, alla pelliccia che cinge Anchise, se ne possono aggiungere altre.
Osserviamo, tenendo conto della dovuta maturazione per la datazione successiva, un simile profilo del piccolo Giove rispetto al Putto con drago del Getty Museum (1617 ca.): dall’arco sopraccigliare calato, alle palpebre accentuate, al naso piccolo e tondeggiante, alla fronte pronunciata, alle labbra dischiuse (figg. 4, 5).
Quello del satiretto può essere accostato al volto dell’amorino nell’Ares Ludovisi (1622), nella medesima conformazione proporzionale di naso, bocca e occhi, le palpebre ben disegnate a rilievo (figg. 6, 7).
L’anatomia di Giove bambino anticipa quella tozza degli altri putti berniniani degli anni successivi, nella proporzione caricata che accentua la lunghezza del busto sugli arti inferiori, compresa la torsione della figura che diverrà caratteristica delle opere mature (figg. 8, 9).
Il trattamento a piccole ciocche distinte dei capelli dei putti e del vello della capra, precorre un modo caratteristico di descrivere le capigliature. La roccia della base sagomata a scogliera – pietra che imita sé stessa, simulando una roccia naturale -, pur nella sua essenzialità e schematicità, precede un motivo che diverrà caratteristico del linguaggio del suo autore, culminando nelle sculture per fontane della piena maturità (fig. 10).
Le espressioni maliziose e sensuali dei due putti, che preludono all’invariante della bocca aperta della successiva scultura berniniana – evocativa di stupore, piacere, parola, urlo soffocato, estasi, enfasi vitalistica, etc. -, rientrano appieno nella “poetica degli affetti” di cultura carraccesca, che sappiamo essere stata basilare per il talentuoso giovane. Una emotività riecheggiata persino dalla capra!
A riguardo Marcello Fagiolo coglie nell’espressione dell’animale un “intenso mugolio di dolore-piacere” che la umanizza, osservando peraltro, sulla scia di Rudolf Preimesberger, come il ramo di vite sul capo del putto-Zeus farebbe pensare più a un Bacchino infante che al piccolo padre degli dei. Un’osservazione pertinente che accentua l’ambiguità iconografica dell’opera, già rilevata più volte da Preimesberger, ma non tocca la pertinenza dell’attribuzione.[9]
L’ideazione da parte di Pietro Bernini di composizioni a soggetto bacchico-dionisiaco o con giochi di putti, come la
“statua di marmo attaccata con un albero con un puttino sopra nome del bacco che fa il moto di spremere l’uva”,
pagata nel maggio 1589[10], o il Satiro con pantera di Berlino (1595-98)[11], sino al Fauno molestato da putti del Metropolitan Museum of Art, conferma un suo ruolo primario nell’affermazione di un genere che diverrà tipico dell’arte barocca.
Tale gruppo omogeneo di marmi, come ho accennato su questa stessa rivista,[12] può essere considerato un precoce sentore di quella corrente formativa del Barocco romano che Roberto Longhi (1916) definì “movimento neoveneziano del decennio 1625-35”, avente nei temi bacchici una costante iconografica, partendo dai famosi Baccanali Aldobrandini-Ludovisi.[13]
Pietro Bernini fu in effetti precursore di un genere intrinseco alla pittura barocca, maturato probabilmente tramite la sua formazione fiorentina, a contatto con sculture classiche e opere moderne come il Bacco di Michelangelo, confluito nelle collezioni medicee nel 1571-72, facendo rivivere originalmente un gusto neoellenistico.
A questa tipologia di realizzazioni, cui partecipò singolarmente o in collaborazione con Pietro anche il giovane Giovan Lorenzo, si connette con straordinaria e capziosa innovazione iconografica La Capra Amaltea, il cui tema fu probabilmente suggerito al figlio dal padre.
A riguardo, come ha giustamente osservato Maria Grazia Bernardini, un precedente iconografico sono gli affreschi degli Zuccari nel Palazzo Farnese di Caprarola. Tale riferimento, assieme ad altri, era stato elencato in precedenza da Preimesberger, senza tuttavia attribuirgli particolare importanza nella genesi dell’opera berniniana.
Proprio in relazione a tale ciclo pittorico possiamo tuttavia suggerire in questa sede un nesso non trascurabile: infatti Pietro Bernini secondo la testimonianza del Baglione:
“Dilettossi anche di dipingere, e nel Pontificato di Gregorio XIII andò con Antonio Tempesta a con altri Pittori di que’ tempi al servitio d’Alessandro Cardinal Farnese in Caprarola; & ivi una estate dimorando, varie cose per quel principe dipinse”.[14]
Non sappiamo quali fossero tali pitture, ma sicuramente l’artista fiorentino prese visione dalla Sala di Giove decorata dagli Zuccari nella dimora farnesiana (1561-66), che è una vera apoteosi della Capra Amaltea, suggerendo al cardinal Borghese e al giovanissimo figlio la traduzione in scultura di questo raro soggetto (figg. 11, 12, 13).
Anzi, la curiosa posa della capra borghesiana in Giove allatta la Capra Amaltea , con la zampa con la zampa sinistra avanzata e quella destra piegata e per metà nascosta, sembra ispirata proprio all’affresco degli Zuccari (fig. 14).[15]
L’equivoco di fondo, che in conseguenza ha reso in qualche modo problematica l’attribuzione, è spostare in avanti tutta la cronologia giovanile dell’artista, comprimendola in pochi anni. Dire semplicemente che l’opera è prossima al 1615, cioè alla data del pagamento della perduta base, rende l’analisi ambigua e fuorviante.[16]
La recente tendenza a posticipare in blocco la datazione delle prime opere negando la precocità riportata dalle fonti, emersa anche nel catalogo della mostra su Bernini del 2017 alla Galleria Borghese, ha portato a condensare una repentina e formidabile maturazione nel giro ristretto di tre o quattro anni.[17]
Questa compressione temporale viene motivata dal rifiuto dell’attendibilità storica del precoce genio berniniano. Come ho scritto più volte, si deve a Cesare D’Onofrio la sistematica contestazione di quanto riportato dalle fonti seicentesche, in particolare dalle biografie di Filippo Baldinucci e Domenico Bernini, ma persino dallo stesso artista nelle dichiarazioni rilasciate a monsieur de Chantelou durante il viaggio in Francia, arrivando a sostenere la “più completa inconsistenza storica di un Gian Lorenzo bambino-scultore”, dietro l’idea preconcetta di “favolosa precocità” e “fiabesca tradizione”.[18]
Ma se Leonardo da Vinci, Wolfgang Amadeus Mozart, Carl Gauss, Karl Witte, Pablo Picasso e tanti altri noti personaggi della storia sono stati enfant prodige, perché non avrebbe dovuto esserlo il genio artistico che dominò con la sua enorme personalità un intero secolo, condizionando buona parte del successivo fino alla comparsa di Canova?
Se nello studio della storia dell’arte si esclude l’attendibilità delle fonti, si rischia di cadere in una indeterminatezza ondivaga, dando spazio all’arbitrio interpretativo individuale e alla più incondizionata soggettività.
Nel caso specifico, collocando invece La Capra Amaltea nella produzione aurorale berniniana, tenendo fede alle testimonianze storiche e ai tempi necessari per una maturazione stilistica, allora la piccola scultura diventa in effetti una prova superlativa, giustificando l’entusiasmo di Preimesberger che nell’approfondita scheda-saggio del catalogo della mostra su Bernini tenuta alla Galleria Borghese nel 1998, parlava di “precoce e spettacolare capolavoro” e di “enigmatico pezzo di bravura”.[19]
L’eccezionalità del pezzo sicuramente era data al tempo proprio dalla giovinezza del suo autore, come esemplare stupefacente della manualità di un fenomeno emergente, un adolescente campione di barocca “maraviglia”, tanto da giustificare il pregio della base commissionata al Soria.
Peraltro Domenico Bernini, figlio del sommo artista di cui ebbe modo di registrare memorie e pensieri, parla di “picciole Statue, che gli permetteva l’età, di cui era di dieci anni”, tra cui sicuramente era compresa quella in esame, che furono in parte viste e ammirate da Annibale Carracci prima della sua prematura scomparsa avvenuta il 15 luglio 1609.[20]
D’altronde nel volume sulla tecnica esecutiva del Bernini curato meritoriamente da Anna Coliva nel 2002, era proprio messo in risalto, assieme al carattere acerbo della scultura, tipico di un giovane inesperto come era l’artista napoletano agli esordi, la presenza di parti non finite, “primo segno di un modo di scolpire che poi diventerà prassi e segno di distinzione in molte opere del Bernini” (Maria Grazia Chilosi). Venivano inoltre rilevati aspetti tecnici in anticipo sulla maturità, come l’uso accentuato della subbia, di strumenti differenti per ottenere diverse finiture delle superfici, oltre all’estrema libertà di lasciare parti non finite (Peter Rockwell).[21]
Mi auguro quindi che alla Galleria Borghese non venga cambiata la didascalia del pezzo, ulteriore fonte di attrazione, assieme a tanti supremi capolavori, per turisti e appassionati d’arte che vengono a visitarla da tutto il mondo.
Francesco PETRUCCI Ariccia, 12 marzo 2023
NOTE