di Massimo PULINI
Si chiude con questo terzo saggio la rivisitazione della figura e dell’opera di Pier Francesco Cittadini (Milano 1616 c.– Bologna 1681) che il Prof. Massimo Pulini – riconosciuto come uno dei massimi esperti della pittura antica emiliana- ha delineato con grande competenza e con osservazioni sempre molto ben argomentate, che gettano nuova luce sull’artista -con novità sorprendenti- e che sono destinate ad apportare notevoli mutamenti al catalogo delle opere del “Milanese” che appare ora meglio inserito nell’ambito della grande cultura artistica secentesca, dove si propone come uno dei massimi esponenti. Ringraziamo il Prof. Pulini per aver scelto di pubblicare su About Art questi tre interventi (che certamente anticipano la realizzazione di una monografia) che riproporremo più avanti con un numero speciale dedicato ai suoi preziosi contributi.
Pier Francesco Cittadini Il Fare grande e il sacro (capitolo III)
a Francesco Petrucci
Con questo terzo testo intendo concludere il diario di viaggio e di studio sulle opere di Pier Francesco Cittadini (Milano 1616 c.– Bologna 1681), dopo aver raccolto un ideale catalogo condividendolo in rete. Un lavoro partito da una drastica e necessaria decurtazione della presunta, ma mai accertata, attività ritrattistica del pittore. Le prime due uscite, per utilità di contrasto, hanno indagato le parti più distanti dalle forme del ritratto, parlando di Nature Morte ( cfr. https://www.aboutartonline.com/fine-di-un-equivoco-pier-francesco-cittadini-non-fu-ritrattista-ma-grande-pittore-di-natura-morta-e-novita-sul-fratello-carlo/ e di Paesaggi con piccole figure ( cfr.https://www.aboutartonline.com/pierfrancesco-cittadini-paesaggista-le-novita-e-gli-errori-da-chiarire-nel-secondo-saggio-di-massimo-pulini/ )
In questo ulteriore atto si completa l’organico dell’orchestra pittorica di Cittadini per restituirne la gamma sinfonica delle espressioni, insieme al multiforme ingegno dell’artista.Anche in questa occasione viene preferita la scansione tematica, perché quella cronologica risulterebbe troppo intricata da comporre e soprattutto da seguire nel racconto.
La Presa di Castro
Dallo scorso capitolo ho volutamente lasciato da parte un’opera che vi apparteneva, la scelta è motivata dalla complessità delle vicende che la videro nascere e dall’altrettanto elaborata esecuzione.
Si tratta di un dipinto unico, che illustra e allo stesso tempo commenta, l’epilogo della cosiddetta Presa di Castro (Roma, Galleria Doria Pamphilj)[1] (Foto 1 e 2), una guerra dichiarata da papa Urbano VIII Barberini contro i Farnese, proseguita e vinta nel 1649 da Innocenzo X.
Il grande dipinto è visibilmente costruito attraverso tre generi differenti di specializzazione artistica.
La parte più bassa è una vera e propria battaglia, occupa tutta la fascia di proscenio e si alza per circa un terzo della superfice (cm. 188 x 275). La striscia centrale può dirsi invece una classica veduta a volo d’uccello di Castro, una cittadella laziale di proprietà Farnese, che in seguito alla vittoria delle truppe papaline verrà rasa al suolo, quale estrema punizione inflitta agli sconfitti. Infine la parte celeste, ricca di nubi tempestose e squarci di sereno, è abitata da un drappello di figure volanti che replicano, in forma teatrale e metaforica, i concetti della guerra, visti dalla parte della Chiesa romana. Mentre a terra impazza lo scontro degli eserciti e il popolo fugge (Foto 3), la Giustizia, la Fortezza e la Prudenza cacciano dal cielo l’eretica Invidia e l’Arroganza. Di quest’ultima si vedono le orecchie d’asino che rimandano al concetto della stoltezza mentre il pavone che tiene sotto braccio è simbolo di vana gloria.
Entro questo mirabile connubio di cultura fiamminga, espressa nella minuziosa visione aerea e di rappresentazione allegorica all’italiana, è proprio quest’ultima parte che intesta il dipinto ad avermi fatto pensare al nome di Pier Francesco Cittadini. Nel catalogo della prestigiosa galleria Doria Pamphilj, curato da Andrea G, De Marchi l’opera porta una doppia nominazione a Jacques Courtois detto il Borgognone (1621 – 1675), a cui viene riferita tutta la metà inferiore del quadro e a Carlo Maratti che sin dal Tonci veniva considerato l’autore della restante fascia superiore[2].
Ritengo invece che nessuno dei due nomi corrisponda alla realtà degli stili che il quadro palesa, perché questi parlano linguaggi molto lontani dalle inconfondibili maniere dei due celebrati artisti.
La luminosità, la stesura pittorica, così come la grazia e le fisionomie delle figure che agiscono sulle nuvole, sono a mio avviso di chiaro ambito reniano e da ricondurre al genio di Cittadini, nel suo momento di migliore felicità espressiva, collocabile proprio nel lungo soggiorno romano che tutte le fonti coeve ricordano[3].
Dal 1645 e forse fino al 1652 si iscrive un lungo periodo passato nell’Urbe che farà fiorire tutti i talenti di Pier Francesco, ponendolo a contatto con le più elevate menti artistiche d’Europa. Ma le antiche testimonianze ricordano che il viaggio a Roma il “Milanese” lo fece assieme a un fiammingo col quale collaborava, tale “Monsù de’ Paesi”, di cui purtroppo rimane ancora misteriosa l’identità, forse lo stesso che ancora nel 1660 lavorava assieme al Cittadini e veniva citato in una lettera di Francesco Gazzini al duca di Novellara[4].
Pur non riuscendo a contrapporre al momento un’alternativa nominale, escludo che la mano della battaglia sia quella del Borgognone, tuttavia va tenuta in considerazione che la parte paesaggistica possa riferirsi a questo misterioso Fiamengo di cui per l’appunto parlano Malvasia e Gazzini. Lo stesso termine Monsù de’ Paesi si riferisce di certo a una specializzazione in pitture di vedute e di città. Il contesto entro il quale iscrivo questa importantissima commissione, di certo voluta intorno al 1650 dallo stesso Innocenzo X, il papa di Velázquez per intenderci, mi costringe a rimandare ulteriori e necessari approfondimenti ad altra occasione. La mia proposta attributiva valga al momento come pista segnata per prossime ricerche a migliore comprensione del soggiorno romano del Cittadini, che di lì a poco i documenti attestano nuovamente a Bologna, dove nel 1653 si sposa, per poi farne centro stabile della propria vita.
Le figure al naturale
Le allegorie presenti nella Presa di Castro costituiscono, per dimensione e stile, una via di mezzo tra i piccoli personaggi dei tanti dipinti già pubblicati e le figure a proporzione naturale delle quali si parla in questa sede. Inizio allora da un dipinto che ha segnato la mia personale ricostruzione di questo capitolo del Cittadini.
Un adolescente San Giovanni Battista nel deserto conservato alla National Gallery of Ireland di Dublino (Foto 4), già attribuito a Simone Cantarini e che in passato ritenevo di Michele Desubleo, è utile a comprendere due chiari punti di riferimento che il Cittadini scelse entro la bottega di Guido Reni.
Se in precedenza ho accennato alla sintonia con Francesco Gessi, uscito da tempo dalla protezione del maestro, Cantarini e Desubleo costituiscono gli altri due estremi di un triangolo equilatero entro il quale il nostro giovane pittore decise di collocarsi poco dopo essere giunto a Bologna da Milano, vale a dire verso la metà degli anni Trenta. A quella scelta e allo sguardo pittorico che ne derivò, Pier Francesco rimarrà sostanzialmente fedele per tutto il resto della sua vita.
Ma quel predicatore adolescente di Dublino, che punta il dito allo zenith, non serve solo da bussola di orientamento e di stile, segna anche un vertice che merita di essere raccontato. Il suo torso, teso dai muscoli e rilevato da una luce tagliente, sembra vibrare e si staglia attraverso un deciso rincalzo d’ombra che ne rende scultorea le figura. Non potevano essere più corvini di così i capelli mossi in ciocche larghe e lunghe. Risultano intensi come lo sguardo pensante e quasi preoccupato che il giovane ci restituisce. Anche l’espressione della bocca, socchiusa e parlante, si rivolge direttamente a noi. Lo sbalzo della figura è energico e nitido, l’incarnato pallido e le sue decise ombre contrastano col ceruleo sfumato dell’orizzonte, lo stesso che ritroviamo in molti paesaggi di Pier Francesco. Il mantello rosso poggiato sulle gambe diviene una canoa di panno che serve ad altri contrasti, per far rilevare il muso dell’agnello, che guarda Giovanni con la fedeltà di un cane. Una grande qualità pittorica dunque unita a una intensità sentimentale che colloca il quadro nella migliore antologia del secolo.
Il quaderno che pubblicai alla fine del 2008 per il Museo di Palazzo Chigi di Ariccia partiva dal ritrovamento di una bellissima mezza figura di Sant’Orsola, già riferita a Francesco Gessi e di collezione privata londinese (Foto 5). Le preziosità e la stesura che caratterizzano le vesti di questa giovane non corrispondono allo stile liquido e corsivo del Gessi e anche le tipologie delle mani o la rotondità del viso spingono in altra direzione e fu possibile sciogliere l’enigma attributivo solo accostando il dipinto a quelle poche opere di Cittadini che hanno medesime proporzioni. Anche le nubi diagonali dietro alle spalle della martire hanno toni e stesure simili al dipinto irlandese. Divenne poi conseguente il riscontro documentario che attestava in antico una Sant’Orsola del “Milanese” presso i Celestini di Santo Stefano a Bologna, in serie con altre tele superstiti, conservate presso la Pinacoteca Nazionale. L’Oretti ricordava, nella stanza dell’Abate, un quartetto di santi: “Sant’Agnese, Sant’Orsola, San Pier Celestino e Santa Caterina” e le tre tele giunte a noi sono di formato “imperatore” e di misure identiche[5].
Il San Pietro Celestino (Bologna, Pinacoteca Nazionale) (Foto 6), che grazie agli studi di Gian Pietro Cammarota è divenuto uno dei punti fermi del Cittadini, si attesta come un saggio di raffinata resa e restituisce tutta la malinconica riflessione del primo papa che rinunciò al supremo incarico per tornare alla vita monastica. Lo sguardo contemplativo verso il teschio e le mani che reggono una tiara tempestata di perle e cesellata d’oro, dicono tutto quel che è necessario intendere sulle ragioni volute dalla committenza dell’Abate. Il resto lo esprime una pittura tonale e sensibile al massimo grado, che tiene in perfetta tensione anche i dettagli più tenui posti nel secondo piano.
Proprio sullo sfondo è curioso notare il riaffiorare di un dipinto sottostante che, con un buon sondaggio radiografico, potrebbe rilevare un’altra figura eseguita dall’artista e magari, per ironia del destino, rivelarci il primo ritratto certo del nostro artista[6].
L’altro dipinto di questo eccezionale e fondativo gruppo è la Sant’Agnese (Foto 7) sempre giunto alle gallerie statali di Bologna in seguito alle soppressioni napoleoniche[7].Dolcissima e mesta come l’agnello che abbraccia, la giovane è descritta con un fraseggio formale e pittorico che assume toni di elegia. Qualche tempo fa è riemersa una seconda versione, conservata in un Centro Comunale di Massa Lombarda (Foto 8) che, pur nella minore tensione esecutiva, mantiene buona memoria dell’originale.
Avevo associato alla Sant’Orsola e alla Sant’Agnese altre due sorelle martiri già transitate sul mercato come opere di Gessi e di Giovanni Andrea Sirani. Intendo una Santa Cecilia (già Milano, mercato antiquario) (Foto 9) e una Santa Lucia della Galleria milanese di Giorgio Baratti (Foto 10) che già ebbi modo di esporre nel 2012 in una mostra dedicata a Simone Cantarini[8].
Qualche anno fa inserii nel mio libro dedicato a Ginevra Cantofoli un dipinto raffigurante un San Giovanni Battista con l’agnello (Foto 11 e 12), che era transitato sul mercato come opera di Cantarini[9].
Alla luce dei recenti studi ritengo possa ora venir ricondotto alla mano di Pier Francesco Cittadini, assieme a una variante riemersa da una collezione privata. Due sono anche le versioni di un San Gregorio Magno (Foto 13 e 14) purtroppo l’esemplare migliore, finora attribuito a Giacomo Cavedoni e conservato presso la Chiswick House di Londra, ha subìto assorbimenti della superficie pittorica e non si riesce ad apprezzare nella sua interezza, mentre la seconda redazione della Biblioteca Ambrosiana appartiene alla mano più ingenua del fratello Carlo[10].
Sia il San Pietro Celestino che il San Gregorio Magno hanno bisogno di un tavolo per appoggiare gli oggetti delle proprie meditazioni, ma in qualche misura anche Sant’Agnese e Santa Cecilia. Nelle mezze figure Cittadini ricorre a mensole, ripiani e tavoli per descrivere ancor più da vicino gli attributi dei santi e questo diviene pretesto per allestire passaggi di nature in posa.
Questa formula compositiva è spinta al massimo livello di valore in due dei dipinti con personaggi al naturale che ho anticipato nel primo capitolo: la Vivandiera intenta alla preparazione di un festino di collezione privata milanese (Foto 15)
e la Natura morta con frutti, fiori e un paggio che raccoglie uva, già My Studios Art Gallery (Foto 16). Ma l’uso del tavolo nella sua accezione naturale lo ritroviamo nell’Antonio e Cleopatra (Foto 17) che ebbi modo di pubblicare nel 2008 rintracciandone una provenienza dalla prestigiosa collezione Zambeccari di Bologna[11].
Questo magnifico dipinto può dirsi uno dei risultati in assoluto più alti di Pier Francesco ed esprime un nitido scandaglio delle materie e dei costumi, così come se ne apprezza la sapienza scenica e il colto controllo delle luci. Il quadro è modulato da chiaroscuri variabili, che vanno dal candore abbacinante dei panni sulla tovaglia al nero più intenso delle chiome, il nostro sguardo si inoltra nella penombra di mezzo a leggere un soldato di guardia posto in sordina, fino al nuovo rischiararsi della corte esterna e toccare infine il bianco pungente dei cirri e dei nembi nel cielo alto.
Le pale d’altare
Un artista bolognese che cercasse rispetto nell’ambiente cittadino doveva anche cimentarsi in opere pubbliche e Pier Francesco iniziò precocemente a scalare questa carriera. Del 1637 è la Lapidazione di Santo Stefanotuttora esistente e conservata nella sede originaria della basilica di Santo Stefano (Foto 18, 18a e 18b).
Tutti i commentatori la considerano un omaggio alle proprie origini lombarde, ma a mio avviso l’opera dimostra un già riuscito innesto nella cultura bolognese[12]. A circa ventun’anni sono perfettamente espresse tutte le propensioni dell’artista, riscontrabili soprattutto nel trattamento delle figure che circondano il martire. La loro curiosità e il loro stupore lo ritroveremo altre volte nelle rappresentazioni di miracoli e di episodi evangelici.
Quasi neo ludovichiana ci appare invece la Conversione di San Paolo che è collocabile intorno al 1641 (Foto 19) e si deve ammettere che senza il riscontro delle fonti non sarebbe stato facile riconoscerla al Cittadini, cupa com’è e retorica, nel puntuale recupero di formule della tarda maniera[13].
Torna tutto lo spirito terso e addolcito di Pier Francesco nella bella pala della parrocchiale di San Benedetto a Val di Sambro, sull’appennino bolognese, raffigura un’Assunzione che vola su di una sacra conversazione di tre santi[14] (Foto 20).
Festosa e aperta è giostrata su un doppio registro di luci; quella più alta è dorata evoca l’empireo al quale accede la Vergine, mentre l’altra, più fredda e argentea, è destinata alla terra, dove i santi si trovano circondati da un’aria mattutina che fa squillare in forma vivida i colori delle vesti.
Pur non avendolo visto dal vero e senza conoscerne le misure, credo si possa apporre il nome di Pier Francesco Cittadini a un dipinto conservato alla Galleria Nazionale di Yerevan in Armenia[15] e lì giudicato opera di Giacomo Cavedoni. Rappresenta una Incoronazione della Vergine con due santi (Foto 21) e dalla foto che ho a disposizione è impossibile comprendere di quale vescovo si tratti e chi sia la bella martire inginocchiata assieme a lui, ma si può stare certi che fu modello per una pala d’altare e di quella già ne anticipa lo spirito.
Allo stesso modo credo costituisca un’idea per un dipinto di grandi dimensioni anche la raffinatissima Annunciazione (Foto 22) che nel 1987 è transitata alla Christie’s di New York con una indebita attribuzione a Benedetto Gennari[16]. Impostata per corredare un altare sembra anche la Visitazione (Foto 23) di collezione privata, che ho anticipato nello scorso intervento.
Mentre dovettero nascere per una devozione più intima operette come l’Incontro alla porta aurea[17] (Foto 24) i due Sant’Antonio da Padova col Bambino[18] (Foto 25 e 26),
la Cacciata dal Paradiso terrestre (Foto 27) del Castello Sforzesco di Milano
e la Madonna col Bambino e due santi diaconi della chiesa di Santa Maria di Galliera (Foto 28)[19].
Tra le opere già rese note dal Riccomini figurava anche una Santa Elisabetta d’Ungheria nella stessa chiesa bolognese (Foto 29) che è un dipinto corsivo e trattato da Pier Francesco alla maniera dei suoi raccontini di paese, mentre tra le operine di una sacralità portatile di recente è riemersa una tenera Santa Barbara (Foto 30) presso la Galleria Fondantico di Bologna[20], vero crocevia contemporaneo dei dipinti di Cittadini.
Analoghe riflessioni valgono per due inediti rametti di collezione privata raffiguranti un’Adultera (Foto 31) e una Resurrezione di Lazzaro (Foto 32) che qualche anno fa mi vennero mostrati come opere di Francesco Gessi[21].
Mancano all’appello varie opere che le antiche fonti bolognesi ricordano nelle chiese della città. In un contesto artistico così concorrenziale come quello felsineo alla metà del Seicento, va ritenuto un notevole segno di considerazione che Pier Francesco avesse ricevuto commissione per diversi altari. Tra tutte le pale eseguite va almeno menzionata quella per la chiesa madre, la cattedrale di San Petronio, con un San Bernardino eseguito nel 1667 e purtroppo non più rintracciabile.
Rispetto alle nutrite sezioni delle Nature morte e dei Paesaggi istoriati risulta ancora in gran parte da recuperare la produzione chiesastica e quel cosiddetto fare grande, ma opere come il San Giovanni Battista di Dublino, la Sant’Agnese e il San Pier Celestino di Bologna o la Sant’Orsola e l’Antonio e Cleopatra di Londra fanno comprendere che fosse stata un’applicazione estremamente felice, non certo occasionale.
I disegni
Il mio contributo alla ricostruzione della nuova identità di Pier Francesco Cittadini non poteva eludere una componente originaria come quella del disegno. Non sarà possibile includere tutti i fogli conosciuti in questa rassegna di immagini, ma ritengo sia importante farne almeno cenno. Anche qui preferisco costruire gruppi distinti in base agli argomenti trattati dall’artista.
La serie del Figliol prodigo
Quasi in continuità con i due rametti ora attribuiti, accosto le sei pagine di un’antesignana graphic novel dedicata alle vicende bibliche del Figliol prodigo (Foto 33, 34, 35, 36, 37 e 38), sono sei fogli conservati a Londra, presso la Royal Collection Trust[22]. La sequenza diviene cinetica e accompagna tutti i momenti cruciali dell’episodio che, da lezione morale, diviene sapida occasione aneddotica.
L’autore di queste scenette non poteva cercare posizione più lontana dall’aulico e dal sacro. Il taglio fortemente orizzontale, il campo lungo, che allontana tutto il racconto nel secondo e nel terzo piano, lo svolgimento dinamico di ogni visione e la riduzione dei personaggi a essenziali figurine, sono tutte scelte programmatiche che sembrano intonarsi al genere buffo, prestandoci una versione inedita dell’antica e dottrinale storia. Sembra quasi lo stesso atteggiamento col quale, agli inizi del Novecento, il tema di una paludata opera lirica veniva tradotto in operetta.
Pur non sconfinando mai nel sarcasmo o nel grottesco la propensione grafica di Pier Francesco è memore di prove che stavano al limite della caricatura, penso a precedenti bolognesi dei Carracci, di Giovanni Maria Tamburini per giungere fino alla bonaria e acutissima cronaca di Guercino. Ma la penna di Cittadini anticipa certe soluzioni che il Mitelli porterà a una più estesa fortuna, grazie alla divulgazione incisoria di quei disegni pauperistici.
I bellissimi fogli di Pier Francesco Cittadini, che partono da un segno fine e dettagliato, ma che spesso incontrano l’acqua di un pennello che lo stempera, rimangono invece produzione intima, repertorio di bottega entro il quale annotare scenari naturali o semplici vicende di viaggio.
Paesaggi con figure
Sempre nelle Collezioni Reali britanniche si trovano vari fogli dell’artista a tema paesaggistico, alcuni dei quali contengono aforismi popolari simili a quelli che abbiamo già visto nei dipinti. Un Paesaggio con poveri e viandanti (Foto 39) un altro con un’Osteria all’aperto e giocatori di carte (Foto 40), una Scena boschiva con famiglia in viaggio (Foto 41), delle Lavandaie che ritornano dal bucato (Foto 42), alcune Radure con pastori (Foto 43, 44 e 45),
ma soprattutto Viandanti a piedi e a cavallo (Foto 46, 47 e 48)[23].
Anche il museo di Rennes conserva un Paesaggio in riva a un fiume con cavalieri che lo attraversano (Foto 49) di Pier Francesco Cittadini, bellissimo e quasi interamente eseguito a guazzo d’acquerello. Faceva parte della importante raccolta di Pierre Crozat[24] (Tolosa, marzo 1661 – Parigi, 23 maggio 1740), che un tempo ne possedeva ben 74 e nella scheda in catalogo alla mostra Le génie de Bologne veniva auspicato che il numero 51 appuntato da quel mitico collezionista e ancora visibile in basso all’estrema destra del disegno, si potesse ritrovare anche in altri fogli.
Due di quei numeri li ho scoperti e credo infatti siano riconducibili alla medesima collezione le prove grafiche che qui riconduco al Milanese. Uno di questi disegni raffigura una Sant’Irene che cura San Sebastiano in un paesaggio (Foto 50),
trattato anch’esso come un fatto occorso a dei viandanti, quasi fosse un ‘buon samaritano’, è transitato a Milano il 12 marzo 1963 presso la Finarte, come opera di scuola emiliana. L’altro è un Paesaggio fluviale con pescatori (Foto 51) che nella raccolta del Louvre risulta assegnato a Carlo del Cane (inv. 6269). I numeri 43 nel primo e 37 nel secondo sono leggibili e posizionati nello stesso punto del foglio di Rennes[25].
La pesca è, comprensibilmente, un altro dei temi che ricorre quale corredo d’azione in queste raffinate vedute fluviali. Nei musei di Mosca e di Francoforte[26] si trovano due prove dedicate a tale antico connubio tra uomo e natura (Foto 52 e 53).
Le vedute
A Copenhagen è stato battuto all’asta Bruun Rasmussen un disegno di Cittadini che pur non rinunciando alla descrizione di una carovana in viaggio ha il sapore di una Veduta con rovine e borgo di case (Foto 54). Il 20 luglio 2010 è passato in asta a Londra un grande foglio con la Veduta di una città fortificata circondata da un fiume[27] (Foto 55) mentre ritrae uno scorcio di valli nei pressi di Bologna il disegno con la Veduta di San Michele in Bosco (Foto 56), conservato a Londra, nelle collezioni reali e che al margine porta l’antica dicitura “Del Milanese”.
Stessa grafia e medesima scritta[28] è presente in una pura Veduta appenninica (Foto 57)
e sembra ritrarre un luogo preciso anche un Paesaggio fluviale con cascina e ponte (Foto 58) del Museo di Belle Arti di Besançon. Chiude questo capitolo dedicato alle vedute uno Scorcio di giardino con fontana (Foto 59), delle collezioni madrilene del Prado[29].
Paesaggi con storie sacre
Gli ultimi paesaggi che mostro appartengono sempre al Royal Collection Trust del Regno Unito[30] e sono legati ad argomenti evangelici. In questi casi lo scenario naturale risulta d’invenzione e modula una formula ormai collaudata, con quinte d’alberi e balze di valli nelle quali si iscrive l’episodio sacro.
Si succedono un Paesaggio con Tobiolo e l’angelo (Foto 60) e una Fuga in Egitto (Foto 61) e sarà questo stile più minuto e sobrio, quasi privo di acquerello, che verrà ammirato e continuato da altri bolognesi della generazione successiva, come Donato Creti e Domenico Maria Fratta.
Infine e a chiusura di questo lungo percorso dedicato a Pier Francesco Cittadini presento due disegni inediti, o meglio già editi sotto altro nome, un Paesaggio con scena dionisiaca (Foto 62) passato come opera di Bartolomeo Biscaino e un Banchetto all’aperto (Foto 63) che nelle collezioni del Louvre è tuttora classificato per opera di Giovanni Andrea Sirani[31].
Anche nel disegno, come in tutti gli altri campi di applicazione, Pier Francesco Cittadini si dimostra limpido nello stile e chiaro nei caratteri che permettono di riconoscerlo. In ognuno di questi settori, dalla natura morta al paesaggio, dalle mezze figure alle pale d’altare, dai disegni di vedute alle graphic novel, l’artista aggiunge, alla tradizione dalla quale deriva, novità intrinseche e aperture compositive che serviranno a molti pittori delle generazioni successive.
Massimo PULINI Giugno 2020
- S.