di Nica FIORI
La Resurrezione di Piero della Francesca a Sansepolcro (AR)
A Sansepolcro, la cittadina toscana che ha dato i natali a Piero della Francesca, sembra quasi di respirare ancora l’atmosfera luminosa e cristallina che caratterizza le opere del grande maestro del Rinascimento. Immerso nell’alta Valle Tiberina con le sue colline argillose chiazzate di verde, l’antico borgo conserva parte della cinta muraria, le chiese dai caratteristici campanili a cuspide e le sue nobili case d’impronta fiorentina. Nella sua città Piero non poteva non raffigurare quel sepolcro di Cristo così profondamente legato all’identità stessa del luogo: lo ha fatto nel celebre dipinto murale della Resurrezione di Cristo, risalente agli anni ‘60 del Quattrocento e ritenuto da Giorgio Vasari il capolavoro dell’artista.
Lo scrittore inglese Aldous Huxley lo definì alla metà degli anni ’20 del Novecento “la più bella pittura del mondo” e, proprio in virtù di questa definizione, si racconta che nel 1944 la cittadina non venne bombardata dall’artiglieria britannica. Il capitano Anthony Clarke, in effetti, scrisse nel suo diario che, dopo aver ordinato il cannoneggiamento della città, interruppe il fuoco dopo essersi ricordato delle parole di Huxley.
Nel dipinto di Piero, che ha affascinato per secoli intellettuali e artisti, la scena è incorniciata da due colonne corinzie scanalate, un architrave e un basamento con resti di lettere solo in minima parte leggibili, che formavano la frase OMNE HUMANUM GENUS MORTE DAMNATUM EST, tratta da una lettera di Seneca a Lucilio.
È uno spazio architettonico reale che ospita al suo interno un evento soprannaturale. Mentre quattro soldati romani dormono, Cristo si leva dal sepolcro nella luce mattutina con un luminoso vestito di porpora e uno sguardo severo, quasi “terribile”, perché è disceso agli Inferi dove ha giudicato i morti. Il suo corpo, che Huxley ha definito “atletico”, rispecchia una serena bellezza. È l’uomo-Dio vittorioso e come tale ha in mano il vessillo della vittoria, bianco con una croce rossa.
La sua figura ieratica è al vertice di un triangolo immaginario e divide il paesaggio in due parti: quello a sinistra ancora spoglio, nella desolazione dell’inverno, e quello a destra estivo e rigoglioso a simboleggiare la rinascita della natura. Tra i soldati addormentati la tradizione vuole che ci sia anche l’autoritratto di Piero (in quello con la testa leggermente reclinata sul sepolcro).
È un volto che sogna, inconsapevole del mistero che si sta compiendo. Eppure, seduto com’è ai piedi del sarcofago, in corrispondenza dell’asta del vessillo con la croce, sembra aspirare a un contatto diretto con la divinità.
Nella solennità della scena, Piero della Francesca impianta la sua composizione suddividendola in due zone prospetticamente e simbolicamente distinte, quella inferiore terrestre e quella superiore celeste. La parte inferiore è dipinta secondo un punto di fuga abbassato, che rasenta il piano del sarcofago. Questo accorgimento è usato di frequente da Piero che, tendendo a spostare il punto di fuga più in basso rispetto, ad esempio, alle indicazioni teoriche di Leon Battista Alberti – il quale prescriveva l’altezza al livello degli occhi delle figure – ottiene l’effetto di far apparire i suoi personaggi, visti così leggermente di scorcio, più imponenti e monumentali.
Al di sopra dei soldati addormentati la figura del Cristo, invece, non è visto più dal basso, ma in perfetta e sacrale frontalità.
La Resurrezione è rinata a nuova vita nel Museo Civico di Sansepolcro, dopo un complesso e importante restauro che ha agito sulle cause di degrado e sui materiali sovrapposti all’originale, che ne offuscavano la leggibilità, e ha anche permesso di acquisire importanti risultati conoscitivi sulla complessa storia del capolavoro, sulla sua tecnica di esecuzione e sulle vicende che hanno portato alla commissione dell’opera. Per avviare il restauro e coprirne una buona parte delle spese è stato fondamentale il generoso contributo di Aldo Osti, mecenate e finanziatore, che in passato aveva vissuto a lungo a Sansepolcro, esercitando la sua attività di manager all’interno dell’industria della Buitoni. Giunge quindi quanto mai dolorosa la notizia che Aldo Osti è morto proprio in questi giorni, segnati dall’emergenza per il coronavirus, e quindi senza quel funerale che in qualche modo avrebbe permesso un doveroso omaggio alla sua figura.
L’intervento di restauro, preceduto da anni di indagini diagnostiche non invasive, è stato effettuato dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e dalla Soprintendenza di Arezzo dal marzo 2015 al marzo 2018, ed è stato presentato due anni fa in occasione della Pasqua. L’esigenza di intervenire sulla pittura murale (che non è un affresco, ma una tecnica mista) era dovuta allo stato di degrado della materia pittorica e alla necessità di approfondire le indagini sulla parete che la ospita e mettere in sicurezza l’intero edificio. Il restauro è consistito in tre operazioni fondamentali, che sono il consolidamento, la pulitura e il ritocco finale.
Nel corso della pulitura, volta a eliminare i materiali di accumulo depositati sull’opera nel corso dei secoli, ci si è resi conto che lo stato di degrado non era solo dovuto al passare del tempo, ma anche a precedenti interventi di restauro non documentati. In particolare un intervento, risalente probabilmente all’Ottocento, aveva aggredito con una pulitura indiscriminata l’opera, incidendo in gran parte sulle finiture a secco (a tempera o a olio) di cui Piero della Francesca era maestro e attraverso le quali apportava sottigliezze pittoriche alle sue pitture murali, per ottenere effetti più simili alla pittura su tavola. I danni di questo intervento sono particolarmente evidenti sul paesaggio, che ha perso le modulazioni in verderame che conferivano rilievo e profondità alla descrizione delle colline dietro il Cristo risorto. Il restauro ha evidenziato tra le architetture dipinte (un castello e una città murata) alcuni piccoli edifici, che prima non si distinguevano.
Riguardo alla realizzazione del dipinto, del quale non ci sono pervenuti i disegni preparatori, sono state evidenziate 19 giornate di lavoro. Piero usava, oltre alla tempera e all’olio, altri materiali, come il carboncino, per caratterizzare l’espressione dei volti, e questo è particolarmente evidente nel suo presunto autoritratto, dove la fisionomia è più individualizzata rispetto a quella degli altri soldati.
Durante l’intero periodo del restauro la Resurrezione è rimasta visibile al pubblico, grazie a un cantiere innovativo e funzionale che ha consentito ai visitatori del museo di seguire i lavori e ammirare, nel work-in-progress, il capolavoro di Piero. In concomitanza con il restauro, il Museo Civico di Sansepolcro ha proposto nel 2016 un confronto sul tema della resurrezione nella mostra “Indagini sulla Resurrezione”, curata da Paola Refice, indagando sulle soluzioni iconografiche adottate tra Trecento e Cinquecento da Pietro Lorenzetti, Marcantonio Aquili (figlio di Antoniazzo Romano) e Giorgio Vasari, per cercare di comprendere l’originalità della Resurrezione di Piero della Francesca.
L’iconografo francese Louis Réau nel 1957 elencava le diverse posture assunte dal Risorto in altrettante varianti iconografiche: “in sepulchro” (in piedi, all’interno); con un piede sul bordo; in atto di scavalcare il bordo; “extra sepulchrum” (in piedi, davanti al sepolcro); “supra sepulchrum” (in piedi sul coperchio). Altri fattori, quali il paesaggio, o il ruolo delle guardie ai piedi del sepolcro, caratterizzano rappresentazioni con le quali la Resurrezione di Piero presenta indubbie assonanze, senza mai, peraltro, giungere a un’adesione totale nei temi e nei motivi. Eugenio Battisti, uno studioso dell’opera di Piero della Francesca, definiva nel 1971 la Resurrezione di Sansepolcro come “un’opera iconograficamente obbligata, e nei suoi particolari non innovatrice”. Ma l’obbligo di cui parla non è affatto scontato.
Se sembra dimostrato che il Sepolcro di Cristo rappresentasse già prima del secolo XV l’emblema eponimo della cittadina, e nonostante gli evidenti riferimenti al precedente costituito dal Polittico di Niccolò di Segna, conservato nella Cattedrale di Sansepolcro, la Resurrezione di Piero costituisce un’opera del tutto originale, e in qualche misura diversa rispetto a qualunque tradizione precedente. Piero è l’unico, secondo il professor Claudio Bertelli, che “riesce a conciliare perfettamente le due nature di Cristo, quella divina e quella di uomo”. Secondo Paola Refice, attuale Soprintendente per l’archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Frosinone, Latina e Rieti, “La differenza principale fra le opere è immediata ed è individuabile nel sepolcro. La Resurrezione è quasi sempre caratterizzata dal coperchio aperto o quasi aperto a dimostrare che il Cristo ne è uscito. L’unico che non si attarda a scoprirlo è Piero: il contenuto teologico dell’opera è immenso, anche se il significato civico ha il sopravvento. La Resurrezione di Piero della Francesca è infatti al contempo l’opera più civile di tutto il Rinascimento europeo.” Il soggetto della Resurrezione, pur religioso, rimanda alla città stessa di Borgo Sansepolcro, poiché, secondo la leggenda della fondazione, questa sarebbe avvenuta in seguito all’arrivo di alcune reliquie del sepolcro di Cristo portate dalla Terra Santa dai santi pellegrini Arcano ed Egidio. Ed è proprio il Cristo risorto di Piero che diventa il simbolo identitario della città, presente nel Gonfalone cittadino.
La Resurrezione di Piero rimane, comunque, ancora abbastanza misteriosa: non ha una datazione precisa; questa ha oscillato, nelle considerazioni degli studiosi fra il 1450 e il 1465. Nuove ricerche documentarie svolte in occasione del restauro hanno proposto anche una datazione più tarda, dopo il 1466, legata ad avvenimenti politici della città di Sansepolcro e al dominio fiorentino e mediceo su di essa. Nel tempo, inoltre, si era più volte posto il dubbio circa l’originale collocazione dell’opera. Ora sappiamo con certezza che l’attuale collocazione non è quella originaria: il muro che la ospita, infatti, risale al 1518 (come risulta da un documento archivistico), molto dopo la morte di Piero.
La campagna diagnostica ha confermato che la Resurrezione costituisce una delle più antiche e monumentali operazioni di “trasporto a massello” della storia del restauro; ossia di taglio e trasporto di tutto il muro che ospita l’affresco, da una parete all’altra. La collocazione originaria non è nota in maniera certa, ma si ipotizza, in seguito a ricerche sulle murature del Palazzo della Residenza (oggi Museo Civico di Sansepolcro), che l’opera potesse essere stata dipinta sulla facciata, in esterno, su quello che si definiva “l’arengario”, e cioè un terrazzamento rialzato da cui le magistrature parlavano al popolo.
Ricordiamo che il Museo Civico di Sansepolcro possiede anche il Polittico della Misericordia di Piero della Francesca, con al centro la Madonna della Misericordia, che si ispira al motivo iconografico della Madre che protegge i fedeli accogliendoli sotto il suo manto.
Il suo culto nasce nell’alto Medioevo (anche se il termine è più antico) ed è legato alle confraternite che recavano assistenza ai bisognosi. La tradizione vuole che l’immagine della Madonna del Manto sia legata a una visione di San Bonaventura da Bagnoregio e che sia stata utilizzata per la prima volta dalla confraternita dei Raccomandati (fondata forse nel 1246), ma in realtà la si trova già prima nel mondo orientale bizantino. Nel dipinto di Piero i fedeli sono suddivisi tra uomini, a sinistra, e donne, a destra. Tra gli uomini si è voluto vedere un autoritratto di Piero, effettivamente simile a quello che gli viene attribuito nella Resurrezione.
Nica FIORI Roma 12 aprile 2020