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Abbiamo incontrato Pierre Rosenberg qualche tempo fa nel suo studio al centro di Parigi per una chiacchierata sull’arte e sulle prospettive della disciplina che con suo sommo rincrescimento non viene insegnata nelle scuole francesi; ne è nata l’idea di una intervista a pieno campo che abbiamo realizzato a Venezia qualche giorno fa nello splendido Palazzo Giustiniani a Ca’ Foscari, che divide con la sua Signora, M.me Béatrice Juliette Ruth, Baronessa de Rothschild, quando viene in Italia. Tutti conoscono Pierre Rosenberg e quello che significano i suoi studi e la sua figura di studioso per la Storia dell’Arte internazionale. Per i nostri lettori, soprattutto per i più giovani, ma in genere anche per tutti gli altri, si tratta dunque – e lo diciamo senza alcun malinteso senso di deferenza- di una vera e propria lezione da trarre dalle sue considerazioni che investono la disciplina che ama da sempre, il modo di approcciarsi alle opere, la metodologia dell’osservazione, l’importanza dei confronti. Buona parte della conversazione ovviamente è stata dedicata ai suoi studi sull’artista che giudica il più grande tra quelli nati in Francia, cioè Nicolas Poussin, che ha rappresentato, insieme alla direzione del Louvre, durata dal 1994 al 2001, l’impegno più imortante e determinate di tutta la sua vita. About Art è particolarmente onorata di pubblicare l’intervista che con estrema disponibilità ci ha rilasciato.
– Professor Rosenberg, intanto la ringrazio a nome di tutta la redazione di About Art per averci concesso questo incontro. Inizierei la nostra conversazione con alcune note di carattere personale; innanzitutto mi piacerebbe sapere come è nata questa passione per l’arte e per lo studio della storia dell’arte.
R: Le rispondo subito che non è nata grazie alla scuola, come ci si potrebbe attendere, perché in Francia, come forse sa, questa disciplina non è nei programmi di studio, ed è una battaglia che ho sempre sostenuto ma che mi ha visto perdente; dunque sono stati i miei che mi hanno iniziato se posso dire così all’amore per l’arte; da bambino infatti ero spesso con loro nei musei ad ammirare i pittori e i loro capolavori e ricordo perfino che questa così giovanile passione si manifestò anche sul versante del collezionismo: infatti avrò avuto si e no dieci anni quando feci il primo acquisto, ossia una stampa d’autore che non so dove sia ma dovrei ritrovare in casa prima o poi. Dopo di questo, la mia passione accelerava con il passare del tempo fin quando all’Università studiai Storia dell’Arte ed anche Diritto, per cui si può dire che sono anche un avvocato.
-Lei è anche noto per essere un collezionista di animali in vetro; ricordo una grande mostra a questo riguardo.
R: E’ vero ma questa passione collezionistica è nata più tardi, in pratica a Venezia quando ebbi modo di visitare Murano che fortunatamente a quanto ne so pare che sia in ripresa dopo anni di difficoltà e crisi.
-E anche questa collezione finirà come il resto della sua grande raccolta di quadri disegni e testi al museo chiamato del Grand Siècle che è in via di realizzazione? Ecco, mi vuole chiarire cosa e come sarà il museo del Grand Siècle?
R: Effettivamente già da un paio d’anni ho dato la mia collezione di 694 quadri e 3500 disegni, ed anche i numerosissimi vetri (680), la mia biblioteca e la mia documentazione per questo museo che, a dire il vero, è costituito da due musei: il museo del Grand Siècle e il museo dei collezionisti, che apriranno le porte alla fine del 2026. I lavori sono in corso da tempo, i finanziamenti ci sono per un totale di circa 100 milioni di euro e mi pare che tutto stia andando per il meglio. Il progetto museale, nella sua globalità, è stato custodito ad Alexandre Gady, grande specialista esperto dell’architettura francese del ‘600, che oggi ci lavora con una ventina di personne.
Il nome di museo del Grand Siècle non è stato dato a caso visto che definisce uno dei periodi più prosperi della storia della Francia, il Seicento. Si tratterà di una istituzione completamente dedicata all’arte francese dal punto di vista storico ma tengo a dire soprattutto culturale a largo raggio, un vero museo della civiltà, proprio perché la mancanza dell’insegnamento di questa disciplina nelle scuole fa si che di questa epoca, di quanto accadde, delle lotte religiose e delle guerre fra stati, di come si viveva allora, della figura e del ruolo che ebbe Luigi XIV, della ricchezza degli aristocratici della miseria delle masse popolari, e di come la pittura che si sviluppò allora testimoniasse in larga parte queste situazioni, pochi francesi e solo intellettuali hanno conoscenza. Naturalmente i dipinti del ‘600 della mia collezione faranno parte del museo del Grand Siècle. Invece, i dipinti del ‘700 fino al XX° secolo saranno presentati in un’altra parte del museo, il museo dei collezionisti. I disegni verrano custoditi nel gabinetto dei disegni in un palazzo che accogliera pure il Centro di ricerca Nicolas Poussin, con la mia biblioteca e la documentazione raccolta nel corso di questi decenni di studi e ricerche, cioè appunti, foto, cataloghi di aste; tutta roba che verrà digitalizzata come già si sta facendo, così da poterla mettere a disposizione di chiunque.
-In poche parole lei ha idea di comporre un quadro della Francia in quegli anni con le sue luci e le sue ombre valendosi delle opere d’arte realizzate in quel secolo, è così?
R: Esattamente questo; senza voler scimmiottare il ‘Secolo d’oro’ della pittura olandese, o della pittura napoletana, e così via, questo museo avrà caratteristiche uniche, potrei dire che per la prima volta un museo nasce con l’intento di educare alla civiltà di una nazione.
–E’ un po’ come è accaduto con la donazione delle raccolte di Federico Zeri …
R: Beh devo dire che certo quello è stato un po’ il nostro punto di riferimento ma detto questo la fototeca Zeri per la sua straordinaria ricchezza non è paragonabile a nessun’altra; tuttavia l’idea di mettere tutto a disposizione del pubblico è l’intento che ha mosso anche noi. In ogni caso, come le dicevo, il museo nascerà a Saint-Cloud, a due passi da Parigi, anche se l’idea iniziale era che nascesse a Les Andelys, la città natale di Poussin, e a dire la verità eravamo vicini a realizzare questa prima idea. Il progetto aveva in effetti interessato un politico, Patrick Devedjian, grande ammiratore di Poussin, tant’è vero che alla mostra del ’94 veniva all’esposizione due vote alla settimana, posso dire che fosse del tutto sotto l’influenza di Poussin; poi però è accaduto che a causa di gravi problemi cardiaci è deceduto; era il periodo orrendo del covid; ho avuto il timore che il progetto si arenasse invece fortunatamente i successori hanno proseguito con l’idea iniziale ma la paura che tutto si fermasse è stata grande. Ora però posso confermare che alla fine del 2026 apriremo i battenti; naturalmente mi aspetto un buon battage anche dalla sua bella rivista online.
–Ci può contare professore. Mi faccia però fare una osservazione che riguarda questo fatto che dopo tante ricerche, studi e non ultimo dopo tanto impegno economico una collezione di così notevole rilievo venga donata ad un museo, sia pure con le migliori intenzioni, visto che sarà a disposizione di un pubblico assai vasto; è un po’ quello che ha fatto anche un noto collezionista romano che lei conosce bene perché è un suo grande amico, cioè l’avvocato Fabrizio Lemme che poi però ha di nuovo riempito le pareti con tantissimi dipinti; ecco non trova un po’ strano che si ricominci a collezionare dopo aver ceduto tutto; capita anche a lei? E come si può chiamare: la sindrome della parete vuota?
R: Confesso che come l’amico Fabrizio anch’io ho ripreso a collezionare dipinti ed ho già una stanza di nuovo piena; lei la chiama sindrome, ma credo più precisamente che sia un desiderio di bellezza che ci accompagnerà sempre; aggiungo però che il vero collezionista dovrebbe essere colui che riesce a dedicarsi a questa passione a tempo pieno, troppe infatti sono le variabili, i rischi, le stranezze che si debbono superare.
-Senta professore abbiamo nominato Federico Zeri, è stato davvero un grande personaggio e mi pare che lei sia stato un suo grande amico, giusto?
R: Si assolutamente; Federico aveva una personalità strabordante; negli ultimi tempi veniva a Parigi almeno una volta al mese anche per incontrarsi con l’editore Dino Fabbri, di cui era ospite; ogni volta pranzavamo assieme da Fabbri e si facevano discussioni sempre molto intriganti; è stato un uomo di grande personalità che riusciva a suggestionare le persone con il suo carisma e forse per questo tuttavia fu molto avversato in Italia; a me fece l’offerta di lavorare assieme quando venne ingaggiato dal Getty Museum di Malibù, ma non me la sentii di accettare anche perché dovetti occuparmi del Louvre.
–Ecco, parliamo di questa esperienza che mi pare sia stata la più importante della sua vita e dell’intera sua carriera di storico dell’arte.
R: Si senza dubbio è così; sono stato al Louvre per 40 anni e ne potrei parlare per ore; vi entrai dapprima come assistente poi arrivai all’apice del museo; trovai una struttura veramente vecchia, pensi che non c’erano neppure le toilette per lavarsi le mani; di questa situazione di vero degrado soffrivano principalmente quanti vi lavoravano, a cominciare dai curatori, fino all’ultimo degli impiegati, tant’è che quando si aprì la strada per rinnovare completamente il Louvre una vera e propria ondata di entusiasmo contagiò tutti a tutti i livelli, e devo dire che senza questo grande entusiasmo non credo che avremmo raggiunto i risultati che ci ripromettevamo e che oggi fanno del Louvre uno dei massimi siti museali del mondo. Naturalmente furono essenziali le scelte fatte a livello politico, dato che i finanziamenti da stanziare non erano uno scherzo, e certamente non mancarono polemiche e scontri su come procedere; ad esempio le polemiche investirono l’ordine dei lavori, cioè se la Piramide Pei (dal nome dell’architetto Ieoh Ming Pei autore del progetto, ndA) fortemente voluta dal Presidente François Mitterrand dovesse essere realizzata prima della ristrutturazione delle stanze museali o dopo; io ero di questa opinione temendo che la Piramide avrebbe finito col distrarre i fondi necessari per il museo; invece prevalse l’altra idea e devo riconoscere che mi ero sbagliato, perché poi si fece tutto ed oggi la Piramide Pei è un’attrattiva ulteriore riconosciuta in tutto il mondo.
-Adesso come funziona il Louvre amministrativamente?
R: Innanzitutto c’è un Presidente – Direttore, cioè un’unica figura che unisce due mansioni, e poi ci sono i capi dei vari Dipartimenti; il fatto principale è che questa figura di Presidente Direttore gode di larga autonomia giuridica e finanziaria, ed è quindi in grado di fare scelte rapide quando appare necessario, gode anche di una certa autonomia rispetto al potere politico, e quindi eventuali cambiamenti di governo non ne compromettono la funzione. Inoltre, non l’ho detto ma è essenziale, il Presidente Direttore è uno storico dell’arte, non un amministrativo.
-La sua carriera professor Rosenberg è costellata di prestigiosi riconoscimenti, non solo in Francia, ma anche in Italia e in Germania ha ottenuto onorificenze di straordinario rilievo; posso dire però che lei non ha mai ostentato questa realtà, forse perché il suo carattere è un po’ schivo?
R: No non direi per questo; diciamo che non sono un buon mediatico, mettiamola così; ovviamente ricevere attestazioni ed onori fa molto piacere è normale; in Italia ad esempio sono molto onorato di far parte dell’Accademia dei Lincei e dell’Accademia di San Luca, cioè una doppia carica di cui sono estremamente felice. Certo è che la onorificenza che mi dà maggior soddisfazione è essere membro dell’Académie française.
-A questo proposito ricordo di aver letto in un articolo de la Repubblica del periodo in cui lei fu nominato accademico un titolo che più o meno diceva ‘Rosenberg tra gli Immortali’ …
R: Immortali in effetti sono i membri dell’Accademia; siamo 40 in tutto in una istituzione che si riunisce dal 1635 ed è la più famosa ed aggiungo la più potente in Francia per il prestigio di cui gode, il che mi consente nelle riunioni di avere la possibilità di far sentire la voce ed esporre le ragioni della storia dell’arte che nel nostro paese è colpevolmente piuttosto sottovalutata a differenza che da voi; a dire il vero l’istituzione è più per gli scrittori che per gli storici dell’arte che sono pochissimi, ma posso sfruttare anche questa condizione per difendere il Francese come lingua che ormai ha perso l’importanza che aveva; quando sono in Italia mi accorgo che il Francese è molto poco utilizzato, lo capiscono e lo parlano in pochi a differenza di quando accadeva neppure molti anni fa; lo vedo bene qui a Venezia dove addirittura lo Spagnolo è più conosciuto e parlato del Francese, per non dire ovviamente dell’Inglese che ormai è lingua straconosciuta.
–Volevo ora sapere da lei che ha una così lunga esperienza cosa dovrebbero imparare a fare i giovani appassionati d’arte e cosa invece dovrebbero trascurare o evitare di fare.
R: La risposta è facile; io sono sempre stato uno strenuo difensore dell’opera d’arte in se stessa e quindi sostengo che la cosa più importante da fare sia andare nei musei, ma anche frequentare le case d’asta, parlare coi mercanti e perfino se del caso rischiare personalmente qualche acquisto, fare insomma ogni tipo di esperienza perché l’esperienza, l’occhio come si usa dire, si educa in questo modo, con il contatto diretto con le opere d’arte. Zeri di cui parlavamo poco fa anche in questo è stato un maestro, egli sosteneva ad esempio che la capacità attributiva dipendesse in massima istanza dall’occhio e anch’io sono di questo parere. Si tratta fondamentalmente del modo di concepire l’arte che era tipico di Roberto Longhi che ho conosciuto bene e che è stato determinate nel far si che l’Italia assumesse un ruolo trainante nella critica d’arte per molti anni; devo dire che c’è stata tutta una generazione di studiosi nel vostro paese che ha svolto un ruolo basilare tanto nelle università che nella conduzione dei musei, penso a Mina Gregori che ha festeggiato da poco i 100 anni, ma poi a Cesare Gnudi, ad Arcangeli, ad Argan, Andrea Emiliani, Raffaello Causa, Oreste Ferrari e così via, personalità di livello internazionale; oggi mi pare invece che la tendenza principale tra gli storici dell’arte si concentri più che sull’opera in sé sulla sua interpretazione; tuttavia l’Italia resta pur sempre un grande faro in questo campo. Le faccio un esempio: lei è venuto in treno da Roma a Venezia, giusto?
-Si sono venuto in treno.
R: Ecco, anch’io spesso quando sono in Italia mi muovo in treno e non sempre in prima classe e mi è capitato più volte di ascoltare conversazioni che riguardavano Caravaggio, cosa completamente impensabile in Francia; come pure ho sentito parlare di Giotto, ma anche di contemporanei come Morandi, che peraltro è un artista che io amo perché amava molto un pittore francese che posso definire come il mio secondo amore – il primo è Poussin naturalmente- e cioè Jean-Siméon Chardin.
-In effetti lei oltre al Seicento francese ha rivolto le sue ricerche anche su grandi artisti settecenteschi come appunto Chardin, Watteau o Fragonard o David e altri ancora …
R: Si è così, e devo dire che sono rimasto davvero soddisfatto quando in queste ultime settimane il Louvre ha potuto acquisire un capolavoro di Chardin, che avevo voluto fortemente in copertina nel catalogo della mostra del 1979, un capolavoro raffigurante Fragole, acqua e garofani costato oltre 20 milioni di euro, e che è stato comprato anche grazie alla legge del nostro paese che consente uno sgravio del 90% sulle tasse.
–A proposito di acquisti di quadri, lei professore è noto, come abbiamo già detto, anche come importante collezionista; mi può dire quale è stato il ‘colpo’ più grosso che ha portato a compimento?
R: Non saprei, lei sa che per un collezionista tutti i quadri sono importanti; se devo citarne uno però allora un ‘colpo’ è stato senz’altro l’acquisto di un vero Simon Vouet trovato a Parigi anni fa in un mercatino delle pulci. Tuttavia voglio dirle una cosa che vale per tutti i collezionisti; nessuno le dirà mai che ha comprato un’opera al suo giusto prezzo: o l’ha trovata per caso in un mercatino come nel caso del Vouet, oppure al contrario le dirà che l’ha pagata anche troppo ma perché la voleva a tutti i costi; non c’è una via di mezzo, però per stimolarla le dico che si possono fare ancora dei bei colpi per caso, quindi non lo trascuri.
–D’accordo seguirò il suo consiglio, mi dica però dopo il grande ‘colpo’ quale è stato, se c’è stato, l’acquisto che l’ha deluso, di cui si è pentito.
R: Si, ne ricordo in particolare uno, cioè l’acquisto di un’acquaforte rivelatasi poi un modestissimo fac simile di nessun valore; a mia scusante posso però aggiungere che era sotto vetro …
-Lei poco fa ha fatto cenno a studiosi di grande levatura, come giudica la condizione degli studi, oggi?
R: Credo molto nei giovani che vedo partecipare a concorsi per i Musei o per l’Università e sono piuttosto ottimista in questo senso, certo però che la situazione in cui viviamo tanto drammatica e particolare anche per l’Europa in qualche modo potrebbe essere condizionante quanto meno a livello psicologico a causa dei pericoli che si possono intravedere; ciò nonostante mi pare di poter dire, almeno da quanto vedo, che le nuove generazioni, parlo di studiosi sui trent’anni o poco oltre, mostrano attenzione e rispetto per le opere d’arte, cosa che non avrei detto qualche anno fa; vero è che rispetto ai tempi passati si ha a disposizione tutta una serie di strumenti tecnologici che prima non c’erano e che senza dubbio aiutano molto nella ricerca e nello studio; insomma vedo una crescita intellettuale tra i giovani che fa ben sperare; al contrario non posso che condannare quei giovani che hanno deciso di farsi notare imbrattando monumenti e quadri: non è così che si portano avanti battaglie pure importanti come quelle del clima, è un modo deprecabile.
–Prima ha fatto cenno alla tendenza attuale di molti studiosi a privilegiare lo studio più che dell’opera d’arte in sé della sua interpretazione; mi può illustrare meglio il suo punto di vista su questo tema che investe la critica d’arte?
R: Il principio da cui partire secondo me è che innanzitutto occorre porsi davanti all’opera d’arte; nessuna descrizione, per quanto accurata, nessuna narrazione può fornire la sensazione che dà essere davanti all’originale ed osservarlo a lungo. Pensi a Gianbattista Marino per rimanere nel Seicento che scrisse la Galleria, un’opera formidabile per ampiezza e molto affascinante per contenuto che com’è noto descrive quadri dell’epoca assai importanti; tuttavia pur riconoscendone la validità e in qualche modo la genialità non esiste paragone possibile tra l’opera come viene descritta e l’opera come viene vista.
-Quindi si può riassumere che per lei in primo luogo vale l’occhio, ma i documenti? Che ruolo hanno?
R: Sono una stampella dell’occhio, ovviamente sono importanti e valgono molto; i documenti frutto della ricerca d’archivio, come pure le esposizioni, sono le stampelle su cui poggia l’occhio; la ricerca archivistica in Italia in verità non ha sempre brillato, devo riconoscere però che ultimamente con studiosi di nuova generazione che hanno fatto scoperte fondamentali, la situazione è cambiata; pensiamo a quanto è emerso sulla vita di Caravaggio, anche se c’è ancora molta ombra, dove certe acquisizioni documentarie sono state eccezionali nel riscrivere passi importanti della sua vicenda umana e artistica; allo stesso modo sono importanti le esposizioni soprattutto laddove è possibile mettere a confronto opere che magari si contendono l’autografia di un autore e dove non di rado si arriva a determinare quale è originale e quale è copia.
-Ed ora passiamo a quella che certamente è stata ed è la sua grande passione cioè Nicolas Poussin; le confesso che ho aspettato un po’ per entrare in questo argomento perché da tempo mi ha fatto riflettere una frase scritta in un libro di Claudio Strinati di qualche anno fa e che dice questo:
“Certo è che per interpretare un quadro di Poussin occorre una tale dottrina che forse non basta una vita intera di studi per spiegare che cosa vogliano significare le architetture da lui dipinte e i simboli continuamente inseriti nelle sue opere”.
Ecco, mi sono detto, se questo è vero, si spiega perchè il professor Rosenberg stia da anni studiando questo pittore e perché non abbia ancora dato alle stampe la monografia completa.
R: Conosco molto bene Claudio Strinati, un collega che stimo molto, non conosco però la pubblicazione da cui lei ha preso la frase che comunque grosso modo condivido; condivido soprattutto che Poussin sia un artista difficile, difficile da capire e perfino da approcciare, come pure è difficile venire a capo completamente della visione poetica che lo ispira, perché bisognerebbe avere conoscenze approfondite di filosofia, di iconografia ecc : posso dire però che conosco molto bene quale fosse la sua aspirazione che posso riassumere nella ambizione a primeggiare che in lui era assai più radicata che in altri pittori di genio; abbiamo fatto cenno a Caravaggio, le sue opere sono straordinarie e però facilmente comprensibili, dal momento che la sua arte è più diretta, arriva subito, impatta sullo spettatore in modo totale, pensiamo poi allo stesso Rubens che Zeri riteneva il più grande artista del XVII secolo e che nelle sue opere trasmette una sensazione di meraviglia, di gioia per la pittura, per non dire di Rembrandt con quel modo di metter in dubbio in primo luogo se stesso e poi Velasquez un autentico gigante. Insomma parliamo di geni straordinari e però Poussin, che si accosta bene a questi eccezionali talenti, rispetto a loro è unico perché, come dicevo, si avvale di un’ambizione a primeggiare assai più potente e determinante; la sua arte consiste nel mettere a fuoco i grandi momenti e le grandi emozioni della esistenza: la gioventù, l’amore, la morte e soprattutto la Provvidenza: pensiamo a Eliezer e Rebecca al pozzo : cosa intende in realtà con quella rappresentazione? Che da lì discende tutta la cristianità ed è dunque proprio in ragione di questa sua caratteristica che si esplicita la sua arte che quindi lo rende pittore difficile, complicato, ma unico. E mi piace aggiungere due cose, cioè che Poussin è sempre stato ammirato dagli altri pittori fino ai giorni nostri oltre che ovviamente dagli studiosi e in genere dagli addetti ai lavori, ma non così dal grande pubblico al quale proprio perché è un artista complicato, infine rimane ostico.
-E’ anche vero che criticò l’arte di Caravaggio e che anche lui stesso venne criticato; sono noti i rilievi di Delacroix che in un articolo a lui dedicato sul “Moniteur Universel” del giugno 1853 gli imputava di non aver saputo usare il colore …
R: Certo, per primo va detto che Caravaggio era all’opposto delle sue idee, e poi certamente comunque anche Poussin subì delle critiche, ma posso dirle, al contrario di Delacroix, che Poussin era un ottimo colorista. Le critiche più grandi però le ebbe quando – già molto affermato come grande artista- chiamato a Parigi da Luigi XIII e Richelieu per dirigere la Grande Galerie del Louvre fu ostacolato in tutti i modi dalla cerchia degli amici di Vouet che non lo amava affatto, tant’è che decise poi di ritornare a Roma, siamo negli anni ’40 del Seicento, e si dimostra vero il detto che nessuno è profeta in patria.
-Lei prima ha fatto cenno a Giambattista Marino che sicuramente Poussin ebbe modo di conoscere quando il poeta napoletano venne chiamato in Francia.
R: Si fu un incontro determinante. Marino ebbe un ruolo assolutamente fondamentale per la formazione mentale e culturale di Poussin, che era allora un pittore semisconosciuto, anche se aveva dipinto gli affreschi per un collegio religioso. Marino lo volle conoscere. C’era una notevole differenza di età tra i due, dal momento che Marino era del 1569 e Poussin del ’94 e tuttavia si stabilì un grande rapporto; Marino capì il genio di Poussin ed al suo rientrò in Italia desiderava portarlo con sé, ma Poussin rimase a Parigi, sicuramente perché aveva ricevuto la committenza per La Morte della Vergine per Notre-Dame; quando poi potè recarsi a Roma nel 1624 Marino era già ritornato a Napoli dove di lì a poco morì, nel 1625.
A Roma Poussin si ritrovò piuttosto isolato nei primi tempi, dal momento che Marino – che pure gli aveva aperto le porte delle amicizie nell’ambito barberiniano – non c’era più come dicevo, e soprattutto perché il cardinale Francesco Barberini – che qualche anno dopo sarà il committente del capolavoro La Morte di Germanico– era in giro per l’Europa in missioni politiche e diplomatiche e quindi Poussin non aveva punti di riferimento. Addirittura pare che subì una grave crisi economica che lo costrinse a disfarsi per cifre modestissime di una serie di dipinti.
-In effetti non si sa molto dei suoi primi anni romani.
R: E’ vero si sa poco e quello che sappiamo lo sappiamo grazie alle note di due biografi come il Felibién e soprattutto il Bellori; ma entrambi scrivono in pratica quello che Poussin voleva si scrivesse mentre la verità è che ebbe momenti difficili; quando poi due anni dopo dal suo arrivo ebbe la committenza per realizzare la Morte di Germanico quasi da un giorno all’altro divenne uno dei pittori più affermati a Roma, che allora, non dimentichiamolo, era il vero centro internazionale delle arti; in effetti dipinse un capolavoro che per la città degli artisti fu una vera e propria rivoluzione.
-Perché è considerata una sorta di rivoluzione?
R: Occorre guardare bene l’opera e se avrà modo di osservarla, a Minneapolis dove oggi si trova …
-La vedo dura professore …
R: Si, la capisco.
–In ogni caso il dipinto è stato esposto a Roma fino a pochi mesi fa nella mostra sui Barberini, certamente è stata una delle attrazioni della esposizione, un autentico capolavoro.
R: Appunto, in ogni caso al tempo della sua realizzazione si capì subito che Poussin aveva concepito qualcosa di straordinario, dove il tema della morte dell’eroe (conosciamo la storia, venne adottato da Tiberio e poi probabilmente morì avvelenato) si concentra negli sguardi e nel dolore di alcuni personaggi, cui si sovrappone se posso dire così il tema della ripresa e della rinascita, con un centurione, se non ricordo male, che indica il cielo con un dito come ammonimento o più probabilmente come indizio della gloria divina che lo aspetta, mentre Germanico stesso ormai morente indica la sua famiglia che affida ai suoi compagni. Insomma quei personaggi per lo più attoniti ci danno la netta sensazione di vivere in un preciso tempo dove si svolge un fondamentale capitolo dell’esistenza umana facendoci assistere ad una cosa mai vista, cioè al passaggio all’interno di un dipinto di una disposizione ideale interiore che è quella trasmessa dall’artista; per tornare al discorso di prima, avere l’occhio, guardare l’opera che si ha di fronte ci consente di riconoscerne la genialità e l’unicità, laddove la storia fa parte integrante dell’io dell’artista e della collettività.
-In questo senso le frequentazioni romane di Poussin, tanto con altri artisti, quanto con intellettuali e nobili, e altrettanto con i monumenti e le antiche rovine furono decisivi.
R: Ma sicuramente, abbiamo detto quanto sia stata cruciale l’influenza di Marino, ma poi come dice lei i contatti romani, i resti delle antiche costruzioni, le rovine dell’antichità, gli affreschi, i dipinti che potè studiare, in primis quelli di Raffaello; se pensiamo che tutto ciò ancora oggi stupisce il visitatore immaginiamoci a quei tempi.
-Dunque, professore, a questo punto possiamo definire, come fanno in molti, Poussin un ‘pittore romano’? O resta un pittore francese? così chiudiamo questa polemica che si trascina da tempo.
R: A me è sempre apparsa una polemica inutile e magari di tipo politico a dirle la verità; Poussin non avrebbe potuto vivere ed operare in nessun’altra città che non fosse Roma, per quello che rappresentava ai suoi tempi, cioè la città della cultura anzi la capitale mondiale della cultura, la città delle antichità, delle testimonianze del mondo passato ma sempre attuale per quelle che erano le idee di Poussin sull’arte; per questo la contesa che come ho detto definirei politica, soprattutto tra studiosi inglesi –Denis Mahon fra gli altri- e francesi – che hanno sempre insistito per Poussin francese- non ha senso; è come se volessimo definire Picasso francese o spagnolo: è del tutto ovvio che Picasso era spagnolo e tuttavia è altrettanto ovvio che non avrebbe fatto ciò che ha fatto in nessun altro posto del mondo che non fosse Parigi agli inizi del ‘900, con strade piene di gallerie, di ritrovi, di intellettuali e artisti che s’incrociavano dovunque, la capitale delle arti e delle mode proprio come lo era stata Roma tre secoli prima. E’ qui a Roma dunque che Poussin ebbe la formazione decisiva, se possiamo dire così, anche se arriva in città a 30 anni, un’età che nel Seicento era di persona matura e che ci fa ritenere che una formazione culturale comunque l’avesse acquisita; si pensa in effetti che abbia avuto una educazione dai gesuiti di Rouen ma restano molti dubbi sugli anni trascorsi in Francia; e tuttavia è un fatto che nel ’22, prima di scendere in Italia abbia dipinto un quadro non certo trascurabile come La Morte di Chione, soggetto quanto mai raro, comprato nel 2016 dal Museo di Lione, il che ci fa capire che sapeva dipingere;
poi Roma è assolutamente determinante, e non è un caso che si staccherà con molto fastidio dalla città quando viene chiamato a Parigi dal Re e dal cardinale Richelieu, infatti vi rimase poco per ritornare subito nella città eterna, dove poteva contare su amicizie importanti, dove conduceva la vita che voleva, a contatto con gli intellettuali, coi nobili, con le rovine e con tutto quello che poteva quotidianamente ammirare. Abbiamo già fatto cenno all’importanza fondamentale che ebbe per Poussin l’incontro e l’amicizia con Giambattista Marino, una personalità assolutamente cruciale per lo studio della sua opera e della sua stessa figura di uomo e artista di quel tempo considerando poi quanto il poeta napoletano fosse allora all’apice della sua fama, e sono anche convinto che ci sarebbe ancora da indagare su questo tema del rapporto tra i due; sono però anche del parere che ci sia un altro nome da tenere in considerazione parlando degli influssi culturali e letterari di cui Poussin risentì in quegli anni, cioè il nome di Montaigne, anche lui autore oggi poco popolare e che non si nomina spesso quando si parla della educazione culturale di Poussin, il quale leggeva Montaigne certo uno scrittore difficile e non so dire effettivamente quanto lui potesse capirlo perfettamente, ma credo che certe riflessioni di Montaigne sull’uomo furono motivo di riflessione per Poussin, cosa che anche in questo caso non si può dire di tutti gli altri geniali artisti di cui si è fatto cenno.
-Bisognerebbe anche dire che negli anni romani Poussin si trovo di fronte all’emergere di un altro grande genio, Gian Lorenzo Bernini.
R: Ah è verissimo, ecco un altro punto fondamentale da sottolineare: Bernini fu completamente conquistato dall’arte di Poussin; diceva che monsieur Poussin era “un pittore che lavora di là”, facendo vedere la sua fronte; ovviamente i due artisti in larga misura divergono, l’uno dentro la classicità antica, l’altro nel vortice del movimento, e tuttavia entrambi, furono attratti dai rispettivi lavori. Non va dimenticato che Poussin a Roma potè ammirare quel capolavoro che è l’Apollo e Dafne scolpito proprio a ridosso del suo arrivo nella città e certo ne rimase colpito; in effetti quello che mi rende triste è notare come nelle lettere di Poussin manchi completamente qualsiasi cenno di riconoscenza verso Bernini.
-Perché, secondo lei ?
R: Mah, effettivamente Poussin non era un carattere facile; forse provava un po’ di invidia per un talento così precoce ma così eccezionalmente dotato e poi non era un generoso.
-Torniamo al suo libro. Professore. Quanti dipinti classificherà come autentici nel catalogo che sta preparando?
R: Il nostro “catalogue raisonné” – più di 10 milioni di battute, 4 volumi – verrà pubblicato l’anno prossimo. Per ora abbiamo classificato 293 dipinti. Sono quadri che per lo più sono ora in musei e collezioni private; in Italia c’è molto poco di Poussin e sembra paradossale se consideriamo quante opere dipinse nel vostro paese; il fatto è che gli italiani li hanno man mano venduti; era già iniziato nel corso del ‘600 che i suoi dipinti uscissero dall’Italia per andare soprattutto in Francia; poi nel ‘700 presero invece la via dell’Inghilterra, dove non per caso è stato straordinariamente apprezzato e studiato da grandi esperti; penso in primo luogo ad Anthony Blunt probabilmente il più grande conoscitore di Poussin.
-Dopo di lei, professore …
R: Ah ah, beh può darsi, se me lo dice lei …
-Ne sono convinto; e se le chiedessi quale opera o opere tra le tante che ha studiato, pubblicato ed ora catalogato l’ha colpita di più, cosa direbbe?
R: Difficile dirlo così su due piedi; probabilmente però sceglierei le Quattro Stagioni realizzate tra il 1660 e il ’64, ovvero i cosiddetti Baccanali Richelieu ordinati non dal cardinale, ma dal suo nipote il duca di Richelieu, dove mi pare raggiunga un apice con quell’idea di collegare i vari momenti dell’esistenza umana, ovvero le varie età dell’uomo, alla rappresentazione delle stagioni, Primavera, Estate, Autunno, e che si conclude con l’Inverno, il diluvio; dunque un tema che si conclude tragicamente con l’inevitabilità della morte e dove però si apre una speranza laddove appaiono due serpenti che iconograficamente assumono il valore di polo negativo e polo positivo. Sono opere magnifiche che ebbero subito un grande successo.
–Se invece adesso le chiedessi al contrario quante opere sono state rifiutate?
R: Effettivamente c’è una lunga lista di refusées, quadri dati a Poussin che non sono suoi; si tratta di oltre 319 quadri, del resto è ben noto che Poussin è stato tra i pittori più copiati e molto imitato; in effetti i problemi che si pongono sono di due ordini da questo punto di vista, cioè quadri dati a Poussin e che non sono suoi, e quadri che oggi si riconoscono essere copie ma di cui manca l’originale.
-E Poussin era solito fare bozzetti o modelli delle sue opere, oltre che i disegni?
R: Si è capitato che li facesse ma in misura molto ridotta; era solito invece fare disegni preparatori, e tuttavia voleva essere giudicato non sui disegni o sui bozzetti ma sulle opere finite. D’altra parte come ho detto nonostante si sappia poco della sua esistenza a Roma è comunque noto che furono determinate opere del primo periodo romano a dargli la giusta fama.
–Ma perché si sa poco Professore? e perché i biografi scrissero la sua biografia come sotto dettatura, come lei ha affermato? Forse c’è qualche cosa che l’artista voleva evitare si sapesse?
R: Si probabilmente è così e questo andrà collegato a mio parere alla sua condizione esistenziale; ancora a Parigi infatti aveva contratto la sifilide e di questo soffrì continuamente; peraltro questa malattia a quei tempi era micidiale, difficilissima da curare e dura da sopportare e non è sbagliato credere che Poussin ne soffrì sia fisicamente che psicologicamente. A Roma venne curato da una coppia di pasticceri, marito e moglie di origine francese, i Dughet; questi avevano figli e figlie e una di queste, Anne Marie, Poussin la volle sposare, credo come segno di generosità; tra i figli invece vi era Gaspard che divenne un ottimo paesaggista. C’è un punto interessante da considerare, cioè che Poussin e sua moglie non riuscirono a mettere al mondo dei figli e credo proprio che il motivo di ciò fosse dovuto alla sua malattia.
-E forse questo influì pure sul suo carattere come si faceva cenno prima …
R: Si non si deve escludere.
-Professor Rosenberg siamo giunti alla conclusione di questa lunga e interessante conversazione, ma prima di congedarmi le chiedo un’ultima cosa quale futuro intravede per la disciplina per la quale lei ha dedicato tutta la sua esistenza?
R: Mi chiede una cosa di cui sono fermamente convinto, cioè che il futuro appartiene a chi sa mettersi sempre dalla parte della vita, e questo significa ricercare la bellezza, le cose belle dell’esistenza, e allora insegnare arte e trasmettere cultura è la chiave per arrivarci; dunque c’è ancora molto da fare ma sono fermamente convinto che il futuro appartenga proprio agli storici dell’arte che si metterano al servizio delle opere, e non a quelli che faranno uso delle opere.
P d L Venezia Marzo 2024