di Massimo FRANCUCCI
Sarà stato il continuo tentativo di inseguire l’antico, proprio del Rinascimento, o piuttosto l’ambizione di perfezionare una tecnica che desse maggiori garanzie di durata rispetto a quelle note, fatto sta che la pittura su pietra riscontrò un sempre maggiore successo a partire dal secondo quarto del Cinquecento, probabilmente per merito di Sebastiano del Piombo che tutti gli indizi additano quale precursore della tecnica.
Solo un paio di secoli più tardi le parole di Plinio il Vecchio, che rappresentava la fonte più autorevole al riguardo, avrebbero trovato riscontro ‘archeologico’ grazie alla riscoperta in area vesuviana di alcuni esempi di pittura su marmo – il più noto forse è il dipinto dedicato alle Niobidi che giocano con gli astragali, firmato da Alexandros Athenaios e scavato a Ercolano (Napoli, MANN) – a loro volta ispirati a modelli più antichi, risalenti almeno al V a.C., ma anche senza avere sotto mano tali esempi lo sperimentare cinquecentesco sarebbe arrivato a risultati ottimali in maniera dunque del tutto indipendente. L’esempio più celebre sarà senz’altro la pala per la cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, dove ai marmi imposti da Raffaello se ne aggiungeranno altri fino agli interventi berniniani. Qui il già citato Sebastiano del Piombo ha fatto ricorso alla nuova tecnica, dipingendo la Nascita della Vergine su ardesia, ultimata come si sa da Francesco Salviati.
Delle sperimentazioni del pittore è testimonianza una lettera di Vittore Soranzo a Pietro Bembo del giugno 1530 in cui si descrive con la vivida forza di una testimonianza diretta e contemporanea, la riuscita di “Sebastianello” il quale ha
“trovato un segreto di pingere in marmo a olio bellissimo, il quale farà la pittura poco meno che eterna. I colori subito che sono asciutti, si uniscono col marmo di maniera che quasi impietriscono, et ha fatto ogni prova et è durevole”.
Di lì a poco sarebbe dunque giunta la richiesta esplicita della famiglia senese per la grande pala su ardesia. Del successo e del clamore che accompagnarono il risultato di Sebastiano è ulteriore sintomo una lettera scritta a Michelangelo in cui si cita con malcelato orgoglio un ritratto che lo stesso Clemente VII aveva voluto realizzato su pietra.
Questa aura di eternità della pittura su marmo sarebbe però tramontata agli inizi del Seicento allorché apparirono chiari i problemi della sua conservazione, sia per la fragilità del supporto, sia per l’instabilità della superficie che risentiva ancor di più dei danni dell’umidità. Chissà se fu anche in considerazione di questi problemi che Guido Reni, in cerca anche lui di un materiale più affidabile della semplice tela, realizzò alcune delle sue pitture più importanti su seta, dopo aver assistito, dice Malvasia, durante dei lavori in San Domenico, al disfacimento del corpo di Alessandro Tartagni (1424 – 1477) assieme alla sua camiciola di lino, mentre la toga con cui pure era stato sepolto, essendo di seta, rimase intatta. Fu proprio in seguito alla presa di coscienza che la prospettata eternità della pittura su marmo fosse un miraggio, che tale tecnica si andò per lo più mantenendo solo in formati ridotti che cercavano di giovarsi delle decorazioni naturali delle pietre usate di volta in volta e abbandonando in tal modo gli altari per rifugiarsi nel chiuso delle collezioni private.
Tra queste non poteva mancare la raccolta di Scipione Borghese dove rimangono ancora oggi alcuni degli esempi più pregevoli di questo genere e la cui galleria si presta dunque a ospitare una mostra dedicata a questa specifica maniera di dipingere e volta ad analizzarne i vari profili nonché ricercarne i suoi significati più o meno reconditi e nascosti. Il marmo, d’altra parte, continuava a mantenere quell’aura di pregio e ricchezza che giungeva ancora una volta dall’antichità e dalle rovine poi proveniva buona parte di ciò che si andava utilizzando ancora al tempo del cardinale Borghese.
La mostra si apre nel salone di Mariano Rossi con alcuni esemplari di grande impatto e fascino, anche se rimane un po’ in disparte lo splendido dipinto di Francesco Albani, una Madonna col Bambino affiancata da due angeli, usualmente alla Pinacoteca Capitolina, dov’era giunto con la collezione Sacchetti.
Di grandi dimensioni, ma comunque mobile, quest’opera testimonia la versatilità del pittore bolognese, ma sta soprattutto a evocare quelle grandi pale d’altare cinquecentesche che per ovvi motivi in mostra non possono essere. Notevole ritorno è il cosiddetto Stipo Borghese-Windsor, risalente all’epoca di Scipione, ma passato per le collezioni di famiglia solo al tempo di Marcantonio IV e poi a lungo nelle raccolte reali inglesi prima di essere venduto per volontà di Elisabetta II ed entrato infine nelle collezioni del Getty Museum. Tutti i singoli pezzi che compongono questa meravigliosa architettura marmorea hanno viaggiato separatamente per essere ricomposti in sede.
Di casa, ma sempre meritevole d’attenzione è il marmo belga che Alessandro Algardi ha tramutato nell’Allegoria del sonno e che continua a stupire come l’artista voleva che facesse, destinato a rispondere alle critiche di coloro che lo ritenevano capace solo di lavorare la terracotta, almeno secondo il racconto forse un po’ troppo fantasioso di Giovan Battista Passeri. Al piano superiore, quello della ‘pinacoteca’, si fa la conoscenza di una lunga serie di esempi di pittura su pietra, utile a comprendere gli svariati modi con cui gli artisti hanno affrontato i diversi tipi di materiale, risolvendone le difficoltà e sfruttandone le peculiarità. A proprio agio con questi supporti fu sicuramente Antonio Tempesta, capace di esaltare le decorazioni naturali del marmo, assecondando la natura pittrice, ineguagliabile. È in particolare la pietra paesina, oltre all’alabastro, a fornire più degli altri tali spunti, e ad alimentare la fervida inventiva del pittore fiorentino, i cui modelli, soprattutto quelli incisi, forniranno materiale utile a molti colleghi.
Si veda a tal proposito la Presa di Gerusalemme Borghese, sottolineando i modi in cui il paesaggio e l’architettura si giovano del naturale andamento della pietra.
Su breccia rossa è invece il Passaggio del Mar Rosso di Budapest, altra presenza eccezionale in mostra, splendido così come lo sono le due cacce su pietra dendritica, che spedite nel primo decennio del Seicento a Praga, per arricchire la collezione dell’imperatore Rodolfo II, sono di conseguenza al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Merita certamente una menzione Filippo Napoletano, ma è Tempesta il miglior interprete della pittura miniaturistica, non senza però essere capace di dare ottime prove con le figure di proporzioni leggermente più grandi, accostabili in qualche modo a simili esempi del Cavalier d’Arpino.
Si confrontino le loro versioni di Perseo e Andromeda, un soggetto molto diffuso nella pittura su marmo forse a causa di Ovidio che paragonava il corpo della donna a una statua di marmo. Quella realizzata dal pittore fiorentino su una preziosa quanto sottile lastra di lapislazzulo, che ospita sul verso Venere e Adone, è per molti versi stupefacente, potendosi giovare di una luminosità senza uguali e di colori allo stesso modo esaltati: presente nella collezione Borghese almeno dal 1693, non avendo fatto parte del fidecommisso, è entrata nelle collezioni museali solo di recente.
Ma sono stati senza dubbio i pittori veronesi a donare maggiore monumentalità alle figure su pietra, bilanciando con estrema cura i due poli del classicismo e del naturalismo che caratterizzano la loro pittura. Ci si riferisce a Pasquale Ottino, a Marcantonio Bassetti e, soprattutto, ad Alessandro Turchi, l’Orbetto, tanto avvezzi alla tecnica da essersi visti assegnare nel tempo molti dipinti non pertinenti solo perché realizzati con questa tecnica.
Sono al contrario attentamente selezionate le opere in mostra, tra le quali sembra giusto segnalare la personificazione di Volontà, Intelletto e Memoria che fino ad una decina di anni fa era nota solo tramite una fotografia alla Witt Library di Londra, dove peraltro era riferita erroneamente all’ambito di Guido Reni, per essere poi proposta da Sotheby’s. Un capolavoro in collezione privata, che la mostra ci concede di ammirare da vicino, così da apprezzarne la riuscita cromatica, la maestria nel delineare i bei torsi nudi che un lume sapiente fa emergere dal fondo nero e lucido.
Qualche anno prima aveva fatto ricorso alla pittura su pietra, con lo stesso proposito di fissare così la fuggevole bellezza femminile, il pistoiese Leonardo di Grazia, le cui figure muliebri, per lo più poco vestite, sono raggruppate nella sala della Danae a testimoniare l’eleganza sofisticata della prima maniera cinquecentesca. Lascio a voi scoprire gli altri capolavori presenti in mostra, ma mi preme menzionare il più piccolo di essi, un ritrattino realizzato su marmo africano da Francesco Salviati a effigiare Roberto di Filippo Strozzi che, esiliato da Firenze, condusse i propri affari e i propri interessi collezionistici a Roma. Il marmo scelto per il prezioso dipinto è tra i più ricercati materiali antiquari, e ne è chiaramente fiero Roberto che ci guarda sfoggiando orgoglioso la sua barba rossiccia: costretto dalla mostra a stare al cospetto della Deposizione Baglioni, non ne è per nulla intimorito, ma la osserva con un accenno di bramosia, rimanendo al contempo sempre vivido e per nulla impietrito.
Massimo FRANCUCCI Roma, 29 ottobre 2022