di Massimo PULINI
Il sogno a colori di Pietro Damini
Alla memoria di Maurizio Balena
C’è sempre un’atmosfera fiabesca entro i dipinti di Pietro Damini, vi si respira l’aria di un racconto fatto in sogno e anche quando il tema, per compito, investe il dramma o la più ieratica sacralità, ci si ritrova in un giorno di fiera, tra giostre di quintana e festosi apparati utili a celebrare un patrono del paese.
Squillano infatti come gli ottoni di una banda i timbri del colore nelle vesti, nel cielo e nelle architetture, che tra loro si intarsiano e giocano di contrasto, al pari di un commesso marmoreo.
Una geometria felice che allestisce la scena per incanti collettivi, gremiti, portati a sintesi leggera proprio da un impianto grafico che talvolta anticipa certe illustrazioni del XX secolo.
Ci vorrebbe la prosa di Francesco Arcangeli, il cantore supremo della poetica periferica, di quella provincia artistica del Seicento che seppe dare smacchi di sincerità alla retorica delle capitali barocche.
In fondo Pietro Damini è un petit-maître molto simile, nella sincerità e nello spirito, al Centino di Arcangeli[1], un tenero pittore riminese che ispirò la definizione di ‘piccola Siviglia nostrana’, nella cui trasposizione geografica avrebbe svolto la parte di un Zurbarán romagnolo.
Ma il nostro pittore di Castelfranco Veneto, nato una generazione prima, nel 1592 e morto a Padova di peste a soli trentanove anni, giunge ad analoghi esiti di verità senza pagar pegno al naturalismo, senza dipendere da Caravaggio nemmeno per sbaglio. La sua anima scavalca all’indietro anche l’ultima maniera trovando posizione e sostanza in un ‘preraffaellismo’ tutto suo, che sembra semmai guardare i ferraresi di un secolo prima e ripercorrere ogni cerimonia veneziana di Carpaccio.
Un’assenza assoluta di ostentazione traspare dalle tele di Damini che, liberate anche dalla retorica del nuovo, si fanno carico di restituire una personale cronaca in quella festa sociale che le vite dei santi e le prediche dei profeti offrivano alla fantasia. Pietro inventa una narrazione che è insieme antica e veggente, di certo neo medioevale, ma che giunge ad esiti modernissimi, quasi paragonabili a cartoni animati ante litteram.
Basterebbe guardare le quattro tele di Vigonovo, che narrano le Vicende di Santa Francesca Romana, per comprendere la forza evocativa e la dolcezza d’animo che muovono il suo pennello.
Provengono dalla chiesa di San Benedetto Novello di Padova e in origine erano sei le immagini legate ai miracoli di Francesca Bussa de’ Leoni Ponziani (1384-1440).
L’episodio del Miracolo dell’uva (Foto 1) che vede la Santa nobile già nelle vesti della congregazione di Oblate benedettine da lei stessa fondata, sembra a prima vista un quadro uscito dal realismo magico di primo Novecento. Potrebbe appartenere a Cagnaccio di San Pietro o a Donghi, nella fusione tra verismo e metafisica che compostamente allestisce.
Più ieratiche sono le due pale nelle quali la santa si trova al cospetto del divino, quando incontra il figlio scomparso (Foto 2) e quando bacia il costato di Cristo (Foto 3), ma ugualmente risultano immerse nell’incanto, in uno stupore che ha sintassi quattrocentesca e poi i Funerali di Santa Francesca Romana (Foto 4), che sono costruiti come un ex voto, dove scalini di corpi marcano linee orizzontali e inducono a un effetto di levitazione verticale.
Ha misure quasi identiche alle quattro tele e credo appartenga alla medesima serie, l’unica opera che del ciclo benedettino si è conservata a Padova, mi riferisco al Miracolo della messa in cui Santa Francesca Romana riceve il Bambino dalla Vergine[2] (Foto 5). Tenerissimo è il ruolo svolto dagli angeli sia nell’assistere la santa che nel sorreggere il velo della Madonna.
Non sembra esistere severità nel mondo di questo pittore, nemmeno nel martirio, che è trattato con dolcezza di sguardo perfino nei volti degli sgherri
Lo dimostra un dipinto di Motta d’Este (PD), sostanzialmente sconosciuto, che usa l’arcaico doppio registro da cantastorie, per raffigurare un Martirio di San Lorenzo con tre santi in gloria[3] (Foto 6).
Sant’Urbano papa, San Bovo e Santa Apollonia, sembrerebbero ignari dell’atroce tortura inflitta al diacono Lorenzo e mostrano una serenità analoga a quella degli aguzzini, come se l’autore fosse a conoscenza dei dipinti di Hans Memling, che fanno della più delicata impassibilità una sublime poetica.
Pietro Damini sembra trovarsi meglio quando le scene risultano affollate oltre misura e di fronte a quelle domande iconografiche che avrebbero preoccupato anche un Paolo Veronese, escogita sempre soluzioni nuove e angolazioni aggiornate alla cronaca dell’evento.
Il Sant’Agostino che battezza un devoto (Foto 7) dell’Accademia Tadini di Lovere, attraverso una prospettiva cromatica e una geometria di corpi, raggiunge la colta maestria di Federico Zuccari che a Venezia aveva lasciato un esempio delle sue più alte doti compositive (Foto 8), in occasionale agone col Veronese.
Ma Damini riesce, dalla maniera del disegno e da un mestiere quasi teatrale, a distillare una verità lirica. In questo modo cronaca, aneddotica e metafisica si fondono in opere che narrano la vicenda di un cavallo imbizzarrito entro il Miracolo di San Domenico che resuscita Napoleone Orsini[4] (Foto 9), costruito anch’esso come un grande ex voto che guarda al passato mettendo in campo uno storicismo intimo che l’Ottocento non riuscirà più a raggiungere.
Ho avuto modo di identificare, come opera di Pietro Damini, un Ritrovamento di Mosé (Foto 10), transitato a Londra presso un’asta della Sotheby[5] nella quale era attribuito alla scuola ferrarese del Seicento. Non possono essere che di Damini le Matrioske agghindate a festa, che in cima alla scalinata attendono con sufficienza le serve appena giunte dal Nilo.
La ricercatezza dei costumi si ritrova quasi in ogni opera del pittore di Castelfranco e dipinti come quello dedicato alla Beata Giacoma che scopre il pozzo dei martiri[6] (Foto 11) esplicitano meglio di ogni altro la differenza tra la massa nera delle tuniche religiose, dagli abiti colorati e squillanti dei fedeli che assistono all’evento miracoloso.
Un identico fraseggio compositivo, fatto di incastri cromatici tra le vesti, di studiate luci di scena e di sapienti controluce, si può riscontrare in un dipinto di piccole dimensioni, curiosamente conservato in una chiesa di Senigallia. Raffigura una Resurrezione di Lazzaro[7] (Foto 12) e credo costituisca una eccezione territoriale che lascia sperare in ulteriori scoperte.
Tuttavia conosciamo davvero tanto di un artista che morì così giovane, nella peste ‘manzoniana’ assieme a Giorgio Damini, uno dei fratelli che lo aiutava fedelmente in bottega. Della triade operativa familiare resterà solo Damina, la sorella pittrice a continuare il lavoro e a produrre opere almeno fino al 1648.
Difficile dire allora se il dipinto con la Madonna col Bambino e i santi Niccolò e Vito (Foto 13), che conosco solo da una foto e si trova in una chiesa della diocesi di Pordenone[8], possa appartenere alla sorella o a una fase giovanile di Pietro. Non mi è possibile condurre ora delle ricerche più approfondite[9], ma è un fatto che il tipo di composizione e gli sgargianti costumi da parata del giovane santo siano in perfetta sintonia con le opere di Pietro, oltre ad evocare al pari di un omaggio, certe pitture di Lorenzo Lotto (Foto 13a).
Sicuramente di Pietro e di certo facenti parte della sua formazione patavina e di committenza domenicana sono una Nascita della Vergine [10] (Foto 14) e una Madonna col Bambino e i santi Domenico e Caterina conservato nella diocesi di Udine[11] (Foto 15). Vi si scorgono marcate influenze del Varotari e una più vaga ascendenza da Palma il Giovane. Ma gli angeli di Pietro Damini sono inconfondibili, coi loro riccioletti dorati e una disposizione affettuosa di singolare dolcezza.
Lo dimostrano le glorie di angeli presenti nelle parti alte di molte tele d’altare, come nella Consegna delle Chiavi della chiesa padovana di San Clemente (Foto 16), ma li si ritrova anche in una piccola ardesia, nel Cristo che versa il sangue nel calice assistito da due angioletti (Foto 17) di collezione privata ravennate[12], che ebbi modo di scoprire quando era ancora in mano all’amico e grande antiquario riminese Maurizio Balena, alla cui memoria è dedicato questo articolo.
Recentemente Davide Banzato[13], che ne fu curatore assieme a Pier Luigi Fantelli, giustamente si è rammaricato che a quasi vent’anni dalla mostra di Padova il nome di Damini stenti ad entrare negli argomenti abituali delle ricerche storiche. Non si è ancora compreso, anche a mio avviso, il portato innovativo della sua dolcissima poetica, anticipatrice di una linea purista che solo dopo la sua morte si svilupperà a Roma, tra gli allievi di Domenichino, penso al Sassoferrato (Foto 18), al Cerrini (Foto 19), ma anche a Mattia da Farnese (Foto 20) e a Luigi Gentile[14] (Foto 21).
Eppure Pietro Damini, molto meglio di altri pittori ben più celebrati, rappresenta un passaggio epocale per la controriforma cattolica, una iniezione di gioia e di candore che la pittura veneta aveva smarrito da più di un secolo.
Ma sappiamo per esperienza che le note felici della pittura hanno riscosso sempre minore fortuna di quelle drammatiche e grevi, soprattutto nel corso del Novecento si è teso a sottovalutare quelle pitture secentesche che trattavano in forma delicata tematiche di cronaca, preferendo a queste il grottesco o il pauperismo bambocciante.
Non rientrando in tali schemi Damini è rimasto tagliato fuori dalla critica di un’arte sociale che ha finito per privilegiare il ‘contro’, bollando come encomiastiche certe serenità rappresentative.
Concludo questo mio contributo, alla conoscenza di un raffinatissimo quanto sfortunato artista, con una serie di figure singole e di ritratti, un genere meno noto, ma abitualmente trattato dalla bottega di Pietro, Giorgio e Damina Damini. Proprio da quest’ultima tematica ritengo potranno invece venire prossime novità a migliore percezione della duttilità professionale di questa famiglia di pittori.
A Lubiana, presso la Galleria Nazionale della Slovenia è conservato, senza nome, un David con la testa di Golia (Foto 22),
che credo possa essere una preziosa aggiunta al catalogo di Pietro Damini, quasi una via di mezzo tra Caletti e Forabosco, risulta vicino al Buon Samaritano della collezione Papafava di Padova (Foto 23).
Si scorge la tenerezza di Pietro anche in un Sant’Antonio da Padova (Foto 24) inedito e sempre collocato in una chiesa di Padova[15], mentre a Verona ho ritrovato un Beato Girolamo Polfranceschi[16] (Foto 25),
che ha l’aria di una ripresa dal vero, vicina al bellissimo e già noto Ritratto di Cesare Cremonini della collezione Luigi Cremonini di Castelvetro (Foto 26), del quale esiste una redazione conservata presso la Pinacoteca di Cento e una variante più frontale a Padova, presso il Palazzo del Bo (Foto 27).
Troviamo in questi frangenti un artista che, avendo il soggetto in posa, si comporta in modo analogo ai pittori che aderivano al naturalismo, al punto che la redazione della Collezione Cremonini ha certi passaggi pittorici di un Tanzio da Varallo.
Ma risulta prossimo anche a un Ritratto di condottiero veneziano[17] (Foto 28), a sua volta vicino alla serie conosciuta dei Ritratti ideali della Famiglia Tiso da Camposampiero (Foto 29). Quando Pietro può inventare, come in codesti ritratti storici post mortem, ritroviamo intatta una cifra stilistica più sognata[18] (Foto 30-31).
Infine segnalo, pur nel precario stato di conservazione, anche un’ultima pala d’altare conservata in una chiesa della diocesi di Bergamo. Una complessa sacra conversazione con la Madonna col Bambino e santi (Foto 32), nuovamente gremita di figure, ma alterata da assorbimenti dell’imprimitura, quasi fosse stata contaminata dall’incipiente peste.
Anche da opere di questa natura è curioso constatare che del suo più illustre conterraneo, il Giorgione, non abbia raccolto più di tanto ed è semmai Paolo Piazza (Foto 33), il frate folle, che a tratti faceva suonare le trombe del Paradiso con azzardate invenzioni e caleidoscopie cromatiche, a suggerirgli qualche preziosa nota compositiva.
Il sogno a colori del nostro artista si infranse troppo presto, tra il 1630 e il 1631 tutto il Veneto era invaso dalla peste, ma Padova registrava una quantità impressionante di decessi, molti benestanti scapparono verso Venezia, dove esistevano presidi sanitari più rigorosi e avanzati, anche a Pietro e alla sua famiglia venne offerta una via di fuga ma scelse di rimane in città dove purtroppo, il 28 luglio del 1631, la cronaca del Tomasino lo registra tra i deceduti, assieme al fratello Giorgio.
Se gli artisti milanesi che morirono in quella pandemia avevano affinità cromatiche e turbate assonanze con la peste, la pittura di Pietro Damini non aveva preannunciato nulla di mortuario, di quella macerata cupezza e se la Storia fosse stata coerente con l’arte avrebbe dovuto raggiungerlo a Padova uno dei suoi angeli ragazzini a salvarlo o almeno a indicargli la via, come nel quadro da lui dipinto per la chiesa padovana di Sant’Agostino e che ora si trova nel Museo Civico di Treviso[19] (Foto 34).
Massimo PULINI Montiano, 9 agosto 2020
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