di Fabio OBERTELLI
Il presente, breve, saggio vuole porre una questione attributiva di carattere iconografico rispetto alla coppia di dipinti di mano di Pietro Novelli, conservati presso la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis in Palermo, raffiguranti una coppia di Santi Martiri (n. Inv. 165-166). Di formato pressoché identico, i due oli su tela suggeriscono fin da subito, dal primo approccio, una comune e condivisa natalità ideativa e creativa. Il taglio compositivo, il volto scorciato in un ascendente sguardo d’intenti, la mano destra rivolta verso il petto a stringere idealmente la crescente carica patetica di un martirio dalle connotazioni paraestatiche sono linguaggi espressivi riflettenti l’adesione ad uno specifico milieu culturale.
Questa matrice compositiva riscosse poi, nel secolo successivo, un’adesione amplissima anche grazie all’influenza esercitata da grandi artisti, innovatori, pellegrini indomiti che seppero contagiare, con le loro soluzioni inventive, aree geografiche differenti, anche apparentemente incomunicanti. Nella presente fattispecie si evidenzia come il moto rivoluzionario di Anthony Van Dyck, nella nostra penisola, abbia comportato un rimescolamento delle tradizioni stilistiche pittoriche regionali. Se da un lato è palese il rimando alla preziosità cromatica veneta, dall’altro è altresì importante l’afflusso portato dalle scuole lombarda e emiliana. Nella produzione di questo carattere, di questa tipologia iconografica, che si può riassumere nel San Francesco in Estasi del Kunsthistorisches viennese, accorrono idee, discussioni figurative attraversanti la penisola italica.
Nella presentazione del Santo d’Assisi, il Van Dyck attinge ad incisioni che dal senese Francesco Vanni passano attraverso quelle dell’emiliano Agostino Carracci. Risente altresì delle invenzioni lombarde d’epoca borromaica, evidenziando assonanze con le medesime produzioni del Cerano e del Morazzone (si vedano le versioni conservate alla Pinacoteca di Brera). Esiti che poi si innesteranno in area ligure negli ottenimenti borzoneschi, asseretiani e deferrariani. La sintesi vandyckiana offre interessanti spunti, dunque, per un’analisi del coacervo ensemble artistico in oggetto. La pittura del Novelli muta sostanzialmente con l’avvento del soggiorno del pittore d’Anversa nella città di Palermo. Diventa un’emulazione, mai di maniera e sempre viva, degli stilemi lasciati dal Van Dyck nella città siciliana, prima fra tutti La Madonna del Rosario. Novelli ne reinterpreta l’essenza, pur rimanendo ancorato al paradigma vandyckiano: e qua le tele, sempre conservate oggi a Palazzo Abatellis, come l’Annunciazione e la Madonna di Santa Maria delle Grazie al Ponticello, dove si legge Van Dyck nelle fisionomie, nella preziosa luminosità corporea, nella tripartizione cromatica veneta del vestiario della Vergine, nella suadente pennellata sinuosa. Alter ego napoletano del Novelli, Andrea Vaccaro, palesa anche lui il suo discepolato, il suo debito inventivo nei confronti del maestro d’Anversa.
Nella medesima sala di Palazzo Abatellis si possono scorgere e confrontare le sovrapponibili ideazioni del Novelli e del Vaccaro, in queste tele da cavalletto, preziosi frutti per una devozione privata: santi carismatici dai volti espressivamente colti nel climax ascetico. Innegabile, parimenti, il ruolo del Ribera nella diffusione del presente carattere e nella strutturazione dello stile e della cultura figurativa italica meridionale. Entrando nel vivo della questione, le due tele di Pietro Novelli si inseriscono pienamente nel panorama sopra menzionato. Prescindendo le evidenti istanze attributive che hanno permesso l’entrata delle due opere nel catalogo del Novelli, è doveroso trattare la questione iconografica che, finora, ha lasciato importanti lacune e vuoti.
Ad oggi, infatti, non ci sono identificazioni dei due sacri soggetti rappresentati, tanto che nelle rispettive schede non viene nemmeno citato l’ordine religioso d’appartenenza dei due presenti chierici. Lo status di martire è evidente e nella presenza di strumenti martirizzanti e nella spinta patetica della composizione. Entrambi i martiri presentano chiare simmetrie: il sacro abbigliamento, la croce pettorale gigliata e il libro trattenuto nella mano sinistra. L’analisi dei primi due aspetti ci permette di individuare, innanzitutto, l’ordine religioso di appartenenza dei chierici. La tonaca bianca, la cappa nera e la croce gigliata sono i tre punti chiave per la ricostruzione dell’origine dell’ordine.
Questi infatti sono tutti attributi impiegati dall’ordine mendicante dei frati domenicani, frati predicatori ai quali venne assegnato particolare ruolo, a partire dal pontificato di Gregorio IX all’interno della politica di repressione delle eresie nel corso del Medioevo e che si fecero abili gestori dei tribunali inquisitori ecclesiastici nel corso dei secoli fino alla progressiva soppressione dei medesimi nel corso del XIX e XX secolo. Proprio questo radicale orientamento alla divulgazione, all’evangelizzazione spiega il ruolo dei due soggetti ritratti nelle presenti tele novelliane.
Risulta pertanto importante evidenziare la presenza, nella mano sinistra di entrambi, di un volume, tendenzialmente un testo sacro, il mezzo e la sorgente per un vigoroso proselitismo. Per quanto concerne gli strumenti di martirio e le relative ferite presenti sui due corpi si sottolinea come entrambi abbiano il petto trafitto da un pugnale. Else differenti, trafiggenti, però, la medesima porzione toracica, verosimilmente nei pressi del cuore. Ed è, difatti, nell’area dello stesso in cui si posano le rispettive mani destre, in questo accorato gesto di devozione. Elemento aggiuntivo, di differenza, risulta essere la ferita presente sul cranio del Santo (n. Inv. 165). Una ferita sanguinante, i cui rivoli scendono per tutta la nuca fino a lambire la parte superiore della nera cappa.
Analizzati tutti gli attributi, possibili elementi d’attribuzione iconografica, la ricerca deve spostarsi sull’interpretazione degli stessi per cercare di cogliere la giusta traduzione dei segni, simboli raffigurati. Grazie agli Acta Sanctorum dei bollandisti e alla magistrale trattazione della Bibliotheca Sanctorum, ritengo di aver individuato l’identità dei due generici martiri in questione. La mia ipotesi attributiva verte verso l’identificazione del Santo (n. Inv. 166) con il Beato Pietro Cambiani e del Santo (n. Inv. 165) con il Beato Antonio Pavoni. Più propriamente bisognerebbe parlare di Beati martiri, considerando anche la sottolineatura presente, ovvero l’assenza dell’aureola.
Pietro Cambiani, di nobili origini, divenne frate domenicano presso il convento di Savigliano e grazie alle sue eccellenti qualità oratorie e alla sua acutezza conoscitiva in materia dottrinale proseguì la carriera ecclesiastica divenendo, nel 1351, per atto del pontefice Innocenzo VI, Inquisitore Generale del Piemonte e della Liguria. Incarico, quest’ultimo, mantenuto fino alla morte avvenuta nel 1365, all’età di quarantacinque anni, a Susa per mano degli eretici valdesi. Il Cambiani si era recato appositamente a Susa, presso un ricovero francescano, con il preciso intento di “bonificare” l’area alpina piemontese dall’eresia valdese che, in quegli anni, imperversava tutta l’area. Ucciso a pugnalate da un gruppo di eretici che gli si avvicinarono al termine della celebrazione del 2 febbraio, il culto, la devozione dei fedeli verso questo martire della cristianità crebbe costantemente negli anni seguenti. La “venerazione” verso il Cambiani era cosa talmente nota e insita all’interno del substrato sociale che lo stesso San Vincenzo Ferreri, in una lettera al Generale dell’Ordine Domenicano, datata 17 dicembre 1403, scrisse a proposito della santità di questo martire domenicano, descrivendo la stessa come “cosa notissima”. Prestigio rafforzatosi con la traslazione delle spoglie, nel 1516, da Susa a Torino presso la chiesa cittadina di San Domenico.
La figura del Cambiani si lega indissolubilmente con quella di un altro martire domenicano, il Beato Antonio Pavoni.
Le storie sono tra loro sovrapponibili, bisogna considerare infatti che lo stesso Pavoni proveniva da una nobile famiglia, che anche lui decise di intraprendere la strada del monachesimo domenicano entrando presso il monastero di Savigliano e diventando Inquisitore Generale del Piemonte e della Liguria succedendo al defunto Pietro Cambiani. Nove anni dopo aver ottenuto l’incarico anche lo stesso Pavoni venne aggredito da un gruppo di valdesi nella piazza di Bricherasio, il 9 aprile 1374, ucciso e trucidato da una massa di eretici. Del Pavoni ci viene inoltre trasmessa una precisa raffigurazione pittorica.
Nella navata sinistra della Chiesa di Santa Maria delle Grazie in Milano, all’interno del ciclo realizzato da Bernardino Butinone e rappresentante i Santi e i Beati dell’ordine domenicano, è possibile rintracciare il ritratto, a figura intera, del Beato Antonio Pavoni. L’esattezza degli elementi, attributi iconografici avvalora ulteriormente la tesi posta per le tele novelliane. Il beato viene difatti rappresentato, con tonaca bianca e cappa nera, reggente nella mano destra la palma del martirio e nella sinistra un testo sacro. Un pugnale gli trafigge il petto mentre un fiotto vivo di sangue percola dal cranio martoriato.
Più che assonanze, quelle in comune con le tele del Novelli in esame sono vere e proprie sovrapposizioni iconografiche. Tutti questi elementi, fino a qua presentati, saldano il legame presente tra la coppia di dipinti di Palazzo Abatellis, legame che tra le due figure martiri venne ufficialmente sancito attraverso la beatificazione di entrambi il medesimo anno, 1856, per volere di papa Pio IX. Permane però il vuoto relativo alla committenza di queste opere. Se da un lato è vero che la fama dei due martiri era molto elevata, dall’altro è altrettanto vero che gli stessi non erano figure particolarmente usuali all’interno della devozione privata committente, soprattuto nell’area sicula.
Si potrebbe ripercorrere la strada dell’influenza, dell’ingerenza piemontese e ligure all’interno della capitale vicereale cercando di giustificare, attraverso la stessa, il passaggio cultuale verso i due martiri domenicani, di origini cuneesi. Oppure se non l’influenza introducente nuove figure carismatiche, un soggetto, singolo o collettivo, legato all’area piemontese ligure. È necessario ricordare che fu viceré di Sicilia Emanuele Filiberto di Savoia, nipote per parte materna del sovrano Filippo II di Spagna. Nel contempo fu Vescovo della città di Palermo il genovese Giovanni Doria.
Gli intrecci tra Spagna (e quindi di riflesso Palermo), Liguria e Piemonte erano assai vasti e diversificati, con la presenza in questi territori di importanti figure politiche ed artistiche in continuo interscambio tra queste aree. Citiamo ad esempio la persona di Ambrogio Spinola, generale genovese eccellentissimo presso la corona spagnola, oppure Maurizio di Savoia, cardinale che ottenne l’arcivescovato di Monreale, il cui padre, Carlo Emanuele I di Savoia, sposò la figlia del re di Spagna Filippo II e morì a Savigliano dove sia il Cambiani che il Pavoni entrarono in convento.
Fabio OBERTELLI Bologna 22 febbraio 2020