“… pingendo,& ponendo sotto gl’occhi l’affettione degli animi; & i loro effetti”. Leggere Caravaggio XVIII. I moti dell’animo e del corpo

di Michele FRAZZI

Un altro degli elementi principali che distingue l’individualità pittorica di un artista risiede nella gestualità che anima i personaggi dei suoi dipinti.

La capacità delle figure di esprimere le proprie emozioni in maniera verosimile è un’altra delle caratteristiche indispensabili e basilari per poter dare alla scena il massimo livello di realismo. Questa attitudine  rappresenta un aspetto fondamentale che distingue la pittura del Caravaggio e la separa da quella dei suoi contemporanei. In concreto  stiamo parlando della sua capacità di riuscire ad esprimere  i sentimenti che attraversano l’animo di un personaggio per mezzo dei suoi atteggiamenti. Questo permette allo spettatore di comprenderne con esattezza il pensiero e di immedesimarsi nelle emozioni provate dalla figura, in questo modo l’espressione delle emozioni dalla rappresentazione dipinta si trasmettono per empatia al suo animo, colpendolo e coinvolgendolo nel racconto.

Questo transfert emotivo, questa traslazione di sentimenti si attua per mezzo delle  espressioni dei volti, dei gesti, delle posture dei corpi, che nei quadri del Caravaggio con estremo realismo riflettono con precisione la disposizione dell’animo. La coerenza delle espressioni emotive in relazione al fatto che si sta rappresentando è tutto sommato un assunto logico abbastanza scontato e non costituisce di per sé una novità (30). La caratteristica che differenzia il Merisi dagli altri pittori però è di riuscire a rappresentare i moti interiori ed esteriori delle figure con un grado di veridicità mai raggiunto prima di allora, questa dunque è senza dubbio un’altra delle innovazioni fondamentali che ha portato in pittura.

Se osserviamo i dipinti dei manieristi, come ad esempio il Martirio di San Matteo di Gerolamo Muziano (Fig.1) (e probabilmente vide anch’egli l’affresco del Pordenone) noteremo che gli atteggiamenti delle sue figure, seppure coerenti con la scena raffigurata, appaiono artificiose ed irreali, sia nelle loro espressioni che nei movimenti;

Figura 1 Girolamo Muziano, Martirio di San Matteo, Roma, Santa Maria in Ara Coeli

si tratta di pose stereotipate, solo immaginarie, che non potremmo mai incontrare dal vero, mentre all’opposto nella analoga realizzazione del Caravaggio (Fig. 2) i moti e le espressioni sono estremamente realistici e sono esattamente come quelli che potremmo vedere nella realtà.

Caravaggio, Martirio di San matteo; Roma, Santa Maria del Popolo, Cappella Contarelli

Lo stesso discorso vale per la gamma dei colori e anche per l’orchestrazione della luce, questi due aspetti nei manieristi sono il frutto della loro fantasia, mentre in Caravaggio sono realistici. Come abbiamo avuto già modo di anticipare l’attenzioni ai moti dell’animo è particolarmente sviluppata in terra di Lombardia fin dai tempi della permanenza di Leonardo a Milano, egli era molto sensibile a questo tema, una caratteristica della sua arte che si mostra con tutta la sua evidenza nell’affresco con l’Ultima cena in Santa Maria delle Grazie.

Riguardo alla trattazione dei Moti dell’animo sono ancora una volta molto importanti i precetti del Lomazzo, che dedica un intero libro a questo tema, ed in attuazione del suo fermo proposito di osservare in maniera accurata il dato naturale, raccomandava che  le figure dipinte mostrassero chiaramente le passioni e i sentimenti che le animavano. Nel passo introduttivo al Terzo libro dopo aver lodato la pittura realistica dei lombardi, come quella del Mantegna che dipinse una mosca, del Bramantino o di Cesare da Sesto, e fra gli antichi quella di Zeusi, Parrasio ed Apelle, scrive che la pittura

Ne solamente esprime nelle figure le cose come sono, ma mostra ancora alcuni moti interior quasi pingendo,& ponendo sotto gl’occhi l’affettione degli animi ; & i loro effetti”.

Il suo Secondo Libro è interamente dedicato allo studio di come si devono rappresentare i moti dell’animo, e qui appunto afferma chiaramente che la loro rappresentazione è una componente fondamentale del realismo pittorico: (pag.165):

Et questi non sono di minore necessità de gli altri a chiunque desidera procedere con ragione ne le sue pitture, e imitar il vero della natura come suo modello, e essempio”.

Questa raccomandazione non è da intendersi  solo per quanto riguarda le espressioni del viso ma anche per ciò che concerne gli atteggiamenti del corpo (pag. 118):

Le passioni dell’animo mutano ancora il corpo per la virtù ch’ha l’animo humano appassionato di trasmutare il corpo”.

Lomazzo quindi in maniera molto accurata passa a distinguere gli 11 tipi di passioni fondamentali che eccitano gli uomini e si trasmettono di conseguenza ai loro moti,  esse devono essere rappresentate in maniera chiara e realistica:

Da quello discorso ne resta chiaro che si trovano undici passioni, ò vogliam dire affetti nell’animo nominati, Amore, odio, desiderio, orrore, allegrezza, dolore, speranza, disperazione, audacia, timore, ira. Dalle quali per ordine nascono quanti moti per tutta l’arte nostra si possono introdurre nei corpi. Perciò è necessario avvertir bene ai moti; che si rappresentino in modo tale, che non oscuramente s’acccennino le radici da dove vengono”( pag. 113; sottolineature dell’A).

Caravaggio deve aver letto accuratamente questo passo dato che nei suoi dipinti accoglie le indicazioni relativi agli 11 sentimenti fondamentali elencati dal Lomazzo, infatti nell’opera di nessun altro artista prima di lui c’è mai stata una così acuta attenzione al vasto panorama dei sentimenti umani, che nei suoi dipinti si ritrovano perfettamente raffigurati nella loro molteplicità e varietà espressiva; questo  dimostra la profonda capacità di introspezione di cui era dotato il pittore, una attitudine imprescindibile e necessaria per raggiungere il massimo grado di realismo. Possiamo dunque trovare nei suoi dipinti precisamente rappresentati, il dolore  (nel Ragazzo morso dal ramarro), il desiderio e l’inganno (ne La buona ventura), l’orrore misto al dolore, al ribrezzo e all’’odio che animano i volti della Giuditta, di Oloferne e della serva), l’orrore (nella Medusa), il timore ne Il Sacrificio di Isacco e nel Martirio di San Matteo), la sorpresa (nella Cena in Emmaus), l’allegrezza (nel San Giovanni Battista capitolino e nell‘ Amor  vincitore), la disperazione (nella Morte della Vergine e nella Deposizione), la pietà (nel Davide e Golia della Galleria Borghese), la tenerezza (nella Madonna col bambino della Fuga in Egitto), l’odio, l’ira, il timore, la sorpresa e l’audacia (nel Martirio di San Matteo) (vedi Fig.2).

Insomma l’attenzione alla resa realistica dei sentimenti umani costituisce il cuore della sua narrazione, e queste passioni si mostrano nella sua opera in una maniera così rilevante e con una ampiezza di sfumature come non era mai avvenuta prima, mai con la stessa profonda coscienza e direi quasi comprensione dell’animo umano. Viene così scopertamente alla luce l’empatia per i propri simili e la  sensibilità che nascostamente dimoravano in lui, due doti senza le quali i risultati che egli ottiene sono impossibili.

Continuando ad esaminare le indicazioni del Trattato di Lomazzo si scopre che egli dà ulteriori precise indicazioni sui modelli da prendere ad esempio per raffigurare le passioni. Ad esempio per la Melanconia scrive:

Si faranno gli occhi dimessi, affisati in terra, con la testa chinata col gomito sopra il ginocchio, e la mano sotto le gote, e assisi in loco conveniente … e ivi tutta dolente se ne stava piangendosi, e lagnandosi col capo chino.. e così andrebbe espressa l’adultera”;

e così infatti troviamo la Maddalena raffigurata sia nel quadro Vittrici che soprattutto nella morte della Vergine (Fig. 3), anche gli altri apostoli che sono attorno a lei sono dotati delle stesse manifestazioni espressive.

Caravaggio, Morte della Vergine, Parigi, Louvre (part.)

Oppure quando descrive la Malignità che

non lascia far moti liberi, ma…pieni di pensiero nè quali non si scorge nessuna sodisfatione e contento, con lo sguardo tristo e movimenti dubbi… come s’ha da mostrare… in Giuda traditore quando lo bacia”,

una complessità di passioni che si leggono sul volto del turbato di Giuda della Presa di Cristo. Oppure nel caso si debba rappresentare l’Ansietà:

“che fà gli atti rincrescevoli, noiosi,… si come pregare, adulare, lusingare, fastidiare importunare con diversi gestie  inchini, senza gratia alcuna colui da cui s’attenda qualche beneficio non intermettendo  mai di chiedere, nè avendo rispetto alcuno, o considerazione d’opportunità di luogo, o di tempo”,

come si vede raffigurata nei postulanti della Madonna del Rosario. Quindi la Fortezza:

dell’animo propria dote d’Abram…fa gli atti robusti, possenti, invitti… ond’è che si veggono negli uomoni forti, ben quadrati, con i passi fermi, posati, terribili”,

come si vede appunto nel volto deciso e risoluto del suo Abramo e Isacco ( Fig.4).

Caravaggio, Il sacrifico di Isacco, Firenze, Uffizi

L‘audacia:

fa i moti temerari, prosontuosi, arroganti e pertinaci, come non curarsi d’altrui, e volersi far temere da tutti, sprezzando ciascuno con gesti terribili, minacciosi, insolentiLa robustezza fà gli atti gagliardi, duri e rigidi, come guardar fieramante e posar forte su le gambeLa Ferocità fa il sembiante conforme al resto de’ suoi moti, superbo, terribile, selvaggio, crudele, severo”. (sottolineature dell’A.)

Tutte queste espressioni che vengono descritte insieme nel capitolo XI° sono caratteristiche che si trovano riunite tutte insieme nel Carnefice del Martirio Di San Matteo (vedi Fig.2).

La Fede:

Così imaginarsi potiamo degli atti creduli e continenti di Tobia il giovane di continuo per tre giorni con la sposa  inginocchione, de tre fanciulli nella fornace ardente, di Margherita nell’oglio, di Caterina nella ruota,

e la  Santa Caterina  viene appunto dipinta dal Merisi dipinta in ginocchio accanto alla ruota.

La Paura:

Inoltre non lascia pigliar modo gagliardo di difendersi, ma fà con atti debboli, e volti solamente allo schermo e alla fuga rivolger le spalle, o piegarsi non potendo fuggir di non essere offeso”,

una serie di atteggiamente che vengono assunti dagli spettatori del Martirio di San Matteo e dal San Matteo stesso.

La Patienza:

Fa gli atti umili privi di difesa, e in somma, per non estendermi dove non fà mestiero, tali e quali  si vedono espressi nella passione di Cristo”.

Una caratteristica quella della pazienza che contraddistingue tutti i suoi quadri col Cristo ma che è soprattutto evidente nella Presa nell’orto come acutamente nota il Bellori:

Il marchese Asdrubale Mattei gli fece dipingere la Presa di Cristo all’orto, parimente in mezze figure. Tiene Giuda la mano alla spalla del Maestro, dopo il bacio; intanto un soldato tutto armato stende il braccio e la mano di ferro al petto del Signore, il quale si arresta paziente ed umile con le mani incrocicchiate avanti, fuggendo dietro San Giovanni con le braccia aperte”.

La Meraviglia invece:

“Fa l’huomo attento, e fiso immobil come pietra ad ascoltar strano, e non più udito  avvenimento”;

una caratteristica che per il Lomazzo si esprime attraverso questa postura:“sguardi fissi ed allargar di braccia” ( pag.167) come notiamo rappresentati nell’apostolo della Cena in Emmaus o negli spettatori del Martirio di San Matteo.

Abbiamo poi già fatto cenno nelle schede relative a questi dipinti ad altre espressioni anch’esse puntualmente precisate dal Lomazzo nel suo testo: il Dolore nel Ragazzo morso dal ramarro, la Malitia nel caso della Zingara, e la Gherminella durante l’analisi dei Bari. Appare dunque ora piuttosto chiaro come la raffigurazione dei moti dell’animo rappresenti un pilastro fondamentale dell’ arte del Caravaggio ed anche quanto il Secondo Libro del Trattato di Lomazzo gli abbia potuto fornire un insostituibile supporto a questo riguardo, dato che quando dipinge le figure animate da queste passioni le dota proprio delle espressioni che il Lomazzo dice essere loro caratteristiche. Nessun artista prima di lui è mai riuscito a rendere con altrettanta intensità e realismo la multiforme gamma delle diverse manifestazioni esteriori dei sentimenti umani.

Per averne una immediata e tangibile riprova di quello che stiamo dicendo basta confrontare i dipinti del Caravaggio con quelli di analogo soggetto di stampo manierista, ad esempio quelli da cui ha tratto ispirazione per le sue realizzazioni e di cui abbiamo dato conto nel corso di questa nostra analisi. Questa sua dote deriva dalla sua capacità di immedesimarsi nel personaggio rappresentato, facendo ricorso a emozioni da lui stesso provate: una facoltà che in definitiva sarebbe stata impossibile se non avesse avuto dentro di sè la stessa ampiezza d’animo che troviamo nella quasi illimitata gamma espressiva contenuta nelle sue opere, che si avvalgono di  una estensione mai raggiunta prima in pittura. In ultima analisi i sentimenti mostrati dai suoi personaggi non sono nient’altro che lo specchio più veritiero della sua profondità interiore.

A questa sua capacità di rappresentare i sentimenti dell’animo attraverso la gestualità possono aver contribuito anche le raccomandazioni di studiare i gesti degli oratori che sono contenute nei Trattati sulla Pittura; infatti era era una dote determinante per un oratore sapersi immedesimare nella scena che stava descrivendo in modo da saper esprimere e trasmettere al pubblico le emozioni provate attraverso i movimenti del proprio corpo, questo gli permetteva di coinvolgerlo emotivamente nel proprio discorso.

Per questo motivo il Caravaggio mostra una particolare attenzione anche per la gestualità delle mani che rappresenta una sorta di vero e proprio al linguaggio non verbale, e che è una peculiarità dell’arte oratoria ( 31). Lo studio di quest’arte viene  proposta dall’Alberti nella sue massima 42 e 43:

E piacemi sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere, o con viso cruccioso e con gli occhi turbati minacci che niuno verso loro vada, o dimostri qualche pericolo o cosa ivi maravigliosa, o te inviti a piagnere con loro insieme o a ridere … E farassi per loro dilettarsi de’ poeti e degli oratori. Questi hanno molti ornamenti comuni col pittore; e copiosi di notizia di molte cose, molto gioveranno a bello componere l’istoria”.

Questa pratica di immedesimarsi od addirittura mimare  le espressioni emotive non era affatto ignota ai pittori dell’epoca ed anzi era ritenuta da loro uno strumento del tutto necessario alla abilità di un pittore. Possiamo leggere la descrizione di questa attitudine  nelle parole del Bellori quando delinea il comportamento del Domenichino che mima gli atteggiamenti dei suoi personaggi prima di dipingerli, o in quello di Nicolas Poussin, che così rispondeva a Jaques Stella che gli chiedeva un Salita al Calvario:

Non ho più salute e serenità sufficienti per impegnarmi in soggetti tristi. La Crocifissione mi ha fatto ammalare, e mi sono molto affannato, ma un Portacroce finirebbe con l’uccidermi. Non potrei resistere ai pensieri dolorosi e seri di cui è necessario riempire lo spirito e il cuore per riuscire in tali soggetti così tristi e lugubri in sè stessi. Dispensatemi dunque, per piacere”.

Sempre del Poussin è anche questa riflessione sui moti che sembra riprendere le stesse idee del Lomazzo:

”Come le 24 lettere dell’alfabeto servono a formare le parole ed a esprimere direttamente le passioni dell’animo, così i lineamenti del corpo umano servono per esprimere le diverse passioni dell’animo per fare apparire fuori ciò che è nell’animo(32).

Insomma immedesimarsi e provare le stesse emozioni dei personaggi che si sta rappresentando era una dote fondamentale per un abile pittore un pò come avviene nel caso di un attore. Quello che è fuori dalla norma nella pittura di Caravaggio è la sua capacità di rappresentarli in una maniera assolutamente realistica.

Il Merisi a questa maniera pone al centro del suo discorso un principio rivoluzionario che d’ora in avanti sarà fondamentale per la pittura e cioè che la forza dell’espressività e l’intensa gestualità  dei personaggi diventeranno d’ora in poi gli strumenti fondamentalie necessari per catturare l’attenzione dello spettatore, sono quindi obiettivi importanti da perseguire. La forte intensità dei moti dell’animo rappresenta un aspetto  che si impone risolutamente sulla ricerca della bellezza estetica o di un moderato  equilibrio, che invece sono i principi cardine che guidano la composizione classica. Questa sua idea e la conseguente modalità di rappresentare, sarà destinata in futuro a prendere il sopravvento  sul pilatro imprescindibile del decoro classico che con le sue regole aveva fino ad allora guidato il gusto, la attività e le scelte degli artisti; uno sconvolgimento di paradigmi che aveva ben compreso e fu descritto da Giovan Battista Marino. Come ha poi acutamente  osservato Freedberg ( 33)  Caravaggio sfida apertamente ed infrange i canoni dell’idealismo:

Caravaggio seems indeed to have  selected his model in defiance of the requirements of idealism, and he has willed  to present him physically and psychologically in a way that make him in the most extreme degree actual-immediate, literally whitout any intermediary between the mode-image and ourselves …; what is meaningful comes instead from the relationship established  initially between the artist and the model and then, as we are the surrogate for the painter when he look at the picture, between the model-image and ourselves.”.

Tutto quanto abbiamo descritto finora va proprio nella direzione indicata da Freedberg, e cioè conferma  che  le sue immagini  sono state costruite in modo da apparire tangibili e presenti  all’osservatore, per emozionarlo e colpirlo emotivamente.

Questo risultato viene ottenuto attraverso l’azione di diversi fattori: il  perfetto realismo e la accentuata e resa dei loro volumi che conferisce alle figure un forte senso di immanenenza fisica, a questo si aggiunge una accorta gestione del rapporto tra luce ed ombra, e da ultimo l’intensità espressiva dei gesti e dei volti che spesso, come suggeriva anche l’Alberti, fissano direttamente negli occhi l’osservatore in maniera da fargli sentire l’illusione di essere a tu per tu, oltre alla scala naturale delle loro dimensioni. Questo intento  si traduce nei fatti anche nel realismo dei volti ed in quello degli abbigliamenti: usati, sdruciti, imperfetti, cioè come sono nella realtà, tutto è approntato per far si che allo spettatore sembri di trovarsi davanti ad una scena reale (34). Caravaggio infatti anche nel caso che voglia rappresentare un fatto di tipo storico veste spesso i suoi personaggi con abiti contemporanei, del ‘600, proprio per dare l’illusione di trovarsi davanti ad una immagine del tutto presente, attuale.

La violenza espressiva

La violenza fisica che si trova nei suoi dipinti è senza dubbio un’altro degli strumenti di cui si è servito il Caravaggio per sconvolgere il paradigma che la pittura dovesse avere come fine l’equilibrio emotivo caratteristico dell’idealismo classico.

Caravaggio, Davide e Golia, Roma, Galleria Borghese

L’assoluta brutalità e crudezza del suo stile narrativo è un attributo che col passare del tempo acquisterà sempre più forza e si ripresenterà con  sempre più frequenza,  questo è  un’altro degli strumenti fondamentali con cui il pittore riesce a catalizzare l’attenzione dello spettatore. Nella sua cifra stilistica possiamo notare in particolare la frequente espressione di due sentimenti: si tratta dell’orrore e della pietà,  che vediamo perfettamente uniti nel David e Golia della Borghese ( Fig.5).

Queste due emozioni erano  ritenute da Aristotele i pilastri della poetica tragica, poiché questi due sentimenti se vengono vissute dallo spettatore in forma traslata, ad esempio di fronte ad una rappresentazione pittorica, sono in grado di condurlo  al fenomeno della catarsi, cioè alla liberazione dalle paure. Da questo punto di vista si rivela uno strumento prezioso la capacità sviluppata dal Caravaggio di dipingere personaggi che sono in grado di mostrare  realisticamente i moti dell’animo, cioè di esprimere le proprie emozioni in modo perfettamente distinguibile, ottenendo così l’obiettivo che l’osservatore possa percepirle e  di conseguenza le provi lui stesso; in questo modo provoca l’immedesimazione che è un attributo fondamentale per raggiungere un grado di profonda catarsi.

Questo è uno dei motivi per cui la sua pittura è capace di destare il nostro interesse: il popolo di Roma, così come anche noi oggi, veniva catturato dalla brutalità della messinscena. La novità di questo aspetto brutale così realisticamente espresso, finì per far parlare dei suoi dipinti rendendoli famosi, ed il Caravaggio comprendeva benissimo questo meccanismo. Vi sono però casi in cui la scena rappresentata non permette l’utilizzo della violenza, per cui il Merisi allo scopo di continuare a suscitare il sensazionalismo che si era creato e diffuso attorno ai suoi dipinti, dal 1602 in avanti decise di aggiungere, in una maniera volutamente studiata, alcuni particolari ritenuti scandalosi e proprio per questo motivo, per la mancanza del necessario “decoro”(quello che fino ad allora aveva guidato la pittura convenzionale) le sue tele furono rifiutate: in definitiva l’inclusione di particolari scabrosi non è altro che un ulteriore uno strumento che si può utilizzare per fare parlare di sè.

Fu proprio in forza dell’ampio clamore che i suoi  dipinti suscitarono nel pubblico romano che egli divenne così famoso, ed i suoi biografi compresero benissimo questo stratagemma, come ci conferma il Baglione nella cronaca che riguarda la Madonna dei Pellegrini:

”…due pellegrini, uno co’ piedi fangosi, e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia, e per queste leggerezze in riguardo delle parti, che una gran pittura haver dee, da popolani ne fu fatto estremo schiamazzo”.

Sempre Baglione comprende anche che proprio a questa sua caratteristica si deve il suo successo fra il popolo:

Nondimeno acquistò gran credito, e più si pagano le sue tele che l’altrui historie, tanto importa l’aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma guarda con le orecchie“.

Non possiamo pensare che il Caravaggio fosse tanto ingenuo da non sapere che se includeva particolari scabrosi o volti riconoscibili di prostitute nei quadri  esposti al pubblico, questo non  avrebbe generato scalpore, ma le critiche non gli nuocevano anzi al contrario non facevano altro che aumentare la sua fama, come perfettamente capì e fu costretto ad ammettere anche il Bellori:

…senza decoro e senz’arte, coloriva tutte le sue figure ad un lume e sopra un piano senza degradarle: le quali accuse però non rallentavano il volo alla sua fama”.

Dunque in ultim analissi la brutalità dell’azione o gli elementi  sconci come i piedi sporchi od i volti brutti, venivano inseriti per colpire e fare parlare di sè come risultava chiaro anche al grande Bernard Berenson, che nel suo saggio sul Caravaggio scrive:

Si intuisce che lo divertiva il dare brividi alla gente e fare parlare di sè (pag. 48-9)… dobbiamo concludere che egli amava l’incongruenza anzi che deliberatamente puntava su di essa...egli inseriva di proposito elementi  incongrui nei soggetti sacri e glorificanti. Tutto quello style noble, quella grandiosità, quell’idealizzare ad ogni costo, aveva finito per stancare…”( pag. 53-4, sottolineature dell’A ).

Anche il cardinal Paleotti all’epoca aveva compreso che il crudo realismo dei dipinti non era nient’altro che un mezzo utilizzato dagli artisti per diventare famosi e questo stratagemma non sfuggì alla sua censura:

”Laonde è grandemente da deplorare l’abuso che corre così gagliardamente per l’opere della maggior parte dei pittori, che, intenti solo al magnificare sé stessi et al desiderio della propria eccellenza, pigliano nelle imagini sacre tutte le occasioni che possono di mostrare l’industria et artificio suo, non si curando punto di pensare se ciò fa a proposito di colui c’ha da riguardare essa imagine, o al luogo dove ella va posta, che è tempio d’Iddio, o al fine per che fu instituito il formare le imagini sacre…Ma da questa loro ingordigia di laude propria e desiderio di farsi celebri al mondo scorrono in un altro errore grandissimo e totalmente contrario alla professione dell’arte,peccando notabilmente nella imitazione” ( Cfr. Discorso intorno allle immagini sacre e profane, sottolineature dell’A).

Si tratta della stessa conclusione a cui era giunto Dorian Gray, il fantastico personaggio del romanzo di Oscar Wilde :“Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”.

La violenza ed i particolari scabrosi sono dunque anch’essi elementi fondamentali del suo stile narrativo, della maniera in cui egli racconta la scena che si sta svolgendo, il realismo dei personaggi, degli ambienti, della luce, la crudezza, servono a  rafforzare il vigore dell’opera ed a impressionare il pubblico in modo che essa lasci un segno indelebile nella memoria dell’osservatore.

A ben vedere Caravaggio in realtà nella sua pittura si avvaleva di due registri e parlava due linguaggi, uno colto e raffinato quando doveva produrre opere per committenti di alto livello ed intellettualmente progrediti, si trattava in questo caso di dipinti con un contenuto molto sofisticato, che aveva bisogno di notevoli conoscenze per poter essere compreso, in sintesi erano quadri fatti per le élite culturali. Nel caso invece dei quadri destinati all’ampio ed eterogeno pubblico romano, parlava il linguaggio che abbiamo appena descritto, cercando di colpire la curiosità popolare rafforzandola continuamente, per fare parlare di sé allo scopo di aumentare la sua fama nella città eterna, Caravaggio dava a ciascuno ciò che desiderava, insomma era un eccellente comunicatore, e questo è anche il motivo che mi ha spinto a raggruppare  i suoi quadri in due capitoli: quello dedicato alla committenza pubblica e quello relativo alla commitenza privata.

L’importanza della operazione di  scardinamento espressivo ottenuto per mezzo della violenza della rappresentazione venne immediatamente rilevato dalla intelligenza del Marino che così la descrive:

Plutarco istesso nel libro De audiendis poetis dice che alcuno rappresenterà cose spiacevoli agli occhi e apporterà gusto, mentre imiterà bene, adducendo gli esempi di Timomaco che descrisse Medea omicida de’ propri figli, di Teone che rappresentò Oreste uccidente sua madre, di Parrasio che dipinse Ulisse pazzo”.

Il Marino ribadirà ulteriormente questo concetto in un testo interamente dedicato alla Medusa del Caravaggio e  infine lo sigillerà definitivamente nell’altro suo componimento: Lo Strage degli Innocenti  dove questa idea viene fissata indelebilmente in un verso che nella sua sintetica semplicità è bruciante e definitivo:”contro  furor che val bellezza?”

L’azione e la sua sospensione nel momento cruciale

Un altro elemento distintivo estremamente rilevante consiste nel fatto che i dipinti del Caravaggio non sono mai statici, i suoi personaggi sono sempre raffigurati in movimento, intenti nello svolgimento di un atto cruciale ai fini della rappresentazione, Caravaggio sceglie proprio il momento topico per fissarli sulla tela e così rimangono sospesi per sempre in quell’attimo fondamentale (35). E’ quel tipo di tensione drammatica che noi oggi chiamiamo con un termine cinematografico: suspense, e che Bellori probabilmente aveva già compreso quando riguardo alla sua pittura usava il termine “istoria affatto senza attione”.  Si percepisce che l’istante fissato sulla tela dal pittore è un equilibrio precario e lo spettatore è  cosciente del fatto che qualcosa accadrà appena dopo il momento che sta osservando, l’azione fugacemente sospesa riprenderà il suo corso e così verrà irrimediabilmente mutato il momento in cui è stata congelata la rappresentazione.

Accortamente Caravaggio sospende la scena al momento del suo culmine drammatico, facendo in questo modo percepire tutta la solennità dell’istante; questo blocco dell’immagine all’ apice espressivo dell’azione mantiene l’animo dello spettatore in uno stato di tensione drammatica perdurante, nell’acme della passione, tutta la sua attenzione resta catturata ed imprigionata in questo istante che non finisce mai, creando attraverso lo stato d’ansia emotivo una reiterata e continua persistenza della scena nella sua memoria.

Così il Moir descrive questa caratteristica della modalità di rappresentazione del pittore: “l’ azione in Caravaggio è sempre sospesa” (pag.  55), e rende chiaro questo aspetto attraverso l’esempio delle tele Contarelli. Nella Chiamata di San Matteo:

La drammaticità della rappresentazione risiede nel fatto che in quell’attimo nessuno si muove. L’apparizione di cristo è giunta totalmente inattesa e il suo gesto ha tanta autorità, che l’azione si interrompe per un’istante sconvolgente, prima che la reazione possa avere luogo… Il potere straordinario di questo dipinto sta appunto nella sospensione della azione.”  (sottolineature dell’A.)

e nel suo contraltare, il Martirio (vedi Fig,2):

Egli imperniò l’azione sul Carnefice, posto al centro, raffigurandolo nel momento cruciale, in cui afferra San Matteo steso a  terra inerme… Questa azione che si scatena improvvisa è in forte contrasto con l’inazione della Vocazione; nell’una i movimenti dei personaggi paiono sospesi mentre nell’altra sembrano essere stati congelati nelle loro pose… Il carnefice e il santo possono anche fermarsi, un istante prima che venga inferto il colpo fatale;ma le figure che fuggono hanno posizioni precarie, insostenibili e di conseguenza l’effetto che ne deriva è artificiale, come se l’istante in cui s scatena la reazione fosse stato repentinametne bloccato.” (36) (Sottolineature dell’A.)

Questo genere di effetto non si rileva solo nelle opere della Contarelli, Caravaggio utilizzerà questo stratagemma che serve ad imprimere alle opere un efficace ed impatto emotivo, nella maggior parte dei dipinti successivi, ad esempio la possiamo notare con particolare evidenza nella Giuditta, nella Deposizione, nel Sacrificio di Isacco, nella Presa nell’orto e nel bellissimo gesto che il Cristo compie come fosse un direttore d’orchestra nella Cena in Emmaus, dove sembra colto proprio nel momento in cui dà l’inizio inizio a tutto, come in effetti è in verità perchè proprio il Verbo diede inizio a tutto ed ogni cosa esiste per mezzo di Lui.

Il dibattito storico sulla rappresentazione della realtà

In chiusura della nostra disamina spendiamo due parole per inquadrare anche dal punto di vista storico i fondamenti che riguardano il dibattito esistente all’epoca sul realismo descrittivo e sui vari livelli possibili di avvicinamento alla verità.

In terra italiana la discussione sui vari gradi di approssimazione nella rappresentazione della realtà risale almeno ai tempi di Servio ( IV-V sec. d.C.) e al suo commentario dell’opera virgiliana con la quale l’autore mira a far comprendere al lettore le verità che stanno nascoste all’interno del mito, per questo motivo egli separa chiaramente la verità poetica da quella storica, distinguendo appunto tra la descrizione di un fatto presente all’interno di una fabula e quella più aderente al dato reale che invece chiama historia.

Come scrive Anna Maria del Vigo:

”Questo interesse per le verità della scienza, che non è episodico nei commentatori virgiliani, si impegna a formare un lettore cui non basta conoscere le risposte favolose dei poeti, ma che vuole anche ricercare le verità degli scienziati e dei naturalisti…L’impegno a rintracciare e rivelare la verità di carattere storico, naturale, filosofico, morale che è sottesa al mito e in qualche modo occultata dal mito stesso è una costante nel commento di Servio e di Servio Danielino”. ( 20 ).

La discussione sui diversi modi con cui si può descrivere un fatto fu uno dei temi centrali del dibattito culturale e filosofico del ‘500, e ricevette un forte impulso e un rinnovato vigore dai lavori pubblicati attorno alla metà del ‘500 da uno dei padri dell’ermeneutica: Francesco Robortello, che tratta di questo argomento nel suo In librum Aristotelis De Arte poetica explicationes (1548) e nel De historica facultate (1548). Seguendo la strada tracciata da Aristotele, in questi due scritti lo studioso pone le basi per  distinguere gli scopi e i metodi utilizzati dall’ Arte Poetica rispetto a quelli della Arte Historica inserendosi così nel più vasto campo che riguarda la filosofia estetica e per certi versi anche in quella della scienza. Ai suoi interventi su questo tema faranno seguito quelli di Francesco Patrizi, di Castelvetro, di Bodin e da ultimo quello di Agostino Mascardi (1590-1640) a cui vorremmo far ricorso per la sua esemplare e riassuntiva chiarezza.

Secondo questo autore in primo luogo occorre precisare il fatto che la storia ha il compito di descrivere una sequenza di avvenimenti partendo da notizie certe e verificate, mentre il poeta così come il pittore, racconta un fatto con lo scopo di colpire l’emozione dello spettatore, fornendogli anche un contenuto educativo (secondo l’ampiamente diffusa accezione oraziana), se lo storico dunque necessariamente ha dei limiti nel suo agire e deve osservare delle regole comunemente accettate dai suoi colleghi il poeta non ha nessun limite alla sua immaginazione. Mascardi mette anche correttamente in evidenza il fatto che nel suo lavoro lo storico deve forzatamente ricucire la trama degli eventi servendosi di ipotesi, e che tali ipotesi sono inserti indispensabili per colmare le lacune di informazioni esistenti fra le notizie frammentarie che egli ha a disposizione; egli compe questa operazione con l’obiettivo di ricondurre ad una certa logica il discorso complessivo.

Dunque a ben vedere anche l’attività dello storico ha la caratteristica del verisimile e non del vero assoluto, un verisimile che comunque ha l’obbligo di avvicinarsi alla verità con un grado di approssimazione migliore di quello del poeta, dato che comunque la ricostruzione storica deve essere inquadrata in una serie di regole razionali accettate da questa disciplina, e soprattutto testata dalla coerenza coi fatti accertati; per questo motivo il Mascardi chiama la ricerca dello storico verisimile-vero per differenziarlo da quello che è permesso solo al poeta che è il verisimile-falso.

Il poeta all’opposto può servirsi a suo piacimento di entrambi i  tipi di verisimile, dato che il suo obiettivo non è quello di stabilire la verità ma di emozionare lo spettatore e dunque il verisimile-vero viene introdotto dal poeta con lo scopo ultimo di dare corpo e rendere più concreta e tangibile allo spettatore la sua rappresentazione di un fatto, in maniera simile a quanto si fa nell’arte oratoria (21).

In questo dibattito non mancò di entrare  anche la voce della scienza, nello specifico quella di Galileo e del suo metodo scientifico, che ne Il Saggiatore (1623), commentò un passo dell’allora famoso storico Omero Tortora dove si affermava che il piombo delle palle di cannone a causa dell’ attrito con l’aria potevano arrivare a fondere; l’affermazione  è  verosimile dato che esiste l’attrito e  che esso sviluppa calore nei corpi solidi ed il piombo col calore può fondere, ma il calore sviluppato  dall’attrito con l’ aria non è sufficiente a portare il piombo al punto di fusione, quindi l’ipotesi sarebbe in linea teorica possibile ma non reggerebbe la prova sperimentale, che è tipica appunto del metodo scientifico che si andava allora delineando.

Il metodo scientifico dunque è senza dubbio quello che si avvicina di più alla verità perche obbliga a validare le ipotesi attraverso la verifica sperimentale dei fatti, e non si contenta delle semplici supposizioni o possibilità come fece Omero Tortora; le ipotesi vanno dimostrate coi fatti per essere prese in considerazione ed arrivare così ad una conoscenza della realtà affidabile e soprattutto verificabile.

Galileo arriva finalmente in questo caso ad introdurre una terza e più affidabile categoria di approssimazione alla realtà: quella del metodo scientifico, che utilizza misurazioni e verifiche sulla realtà oggettiva ed quindi in grado di arrivare senza dubbio al risultato più attendibile. Infatti questo metodo si compone di una sequenza ben definita e codificata di fasi che passa in primo luogo attraverso la formulazione di una ipotesi, quindi realizza una raccolta di dati in maniera neutrale riguardo a questa ipotesi, cioè interroga la realtà per mezzo di test riportando esattamente tutti i risultati ottenuti, dopodichè, c’è la fase di analisi dei risultati, se i dati sono concordi con l’ipotesi formulata allora, l’ipotesi viene confermata e convalidata.

La creazione di un dipinto e la questione del metodo 

Durante lo svolgimento di questa sezione abbiamo cercato di  analizzare specificamente e di approfondire alcuni temi fondativi dell’arte di Caravaggio. Abbiamo visto in primo luogo come ha affrontato il problema della costruzione dello spazio nei suoi dipinti, che nella sua visione è strettamente legato alla gestione della luce: in fin dei conti lo spazio è solo quello che l’occhio è in grado di percepire  per mezzo dell’ illuminazione, un fenomeno che l’artista lombardo sa orchestrare benissimo a propri fini.

La sua fedeltà al verosimile è ineccepibile, i visi, i gesti e finanche gli abiti consunti dei suoi personaggi sono del tutto realistici così come le apparenze della loro pelle, la loro carnagione, le loro rughe. Le espressioni dei loro volti  sono perfettamente in grado di trasmettere una profonda emozione all’osservatore che è coinvolto dalla loro forza espressiva, mentre la loro azione viene intenzionalmente sospesa nell’attimo cruciale per far perdurare lo stato emotivo che essi riescono ad infondere su chi li osserva.

Le riflessioni fatte sulla maniera in cui il Caravaggio organizza tuttti questi aspetti porta come logica conseguenza alla conclusione che nei suoi quadri quello che agli occhi dello spettatore ha le apparenze di un semplice prelevamento di un brano di realtà, una ripresa molto piana e lineare dal vero, invece non è altro che il frutto di un’accorta regia, di una costruzione molto sapiente, di una tecnica intensamente ponderata, accurata: niente viene lasciato al caso.

Se riflettiamo ora su tutti gli argomenti di cui abbiamo parlato finora potremo renderci conto che essi non sono altro che risposte a tutte le domande che un pittore si deve porre quando si accinge a dipingere un’opera. Infatti quando si trova davanti alla tela bianca deve pensare a come far svolgere l’azione in modo da far comprendere all’osservatore il soggetto del dipinto, alla sua organizzazione, quali devono essere gli oggetti presenti, quali volti, posture e gestualità avranno i personaggi del suo racconto, la tipologia dei loro vestiti, e quindi deve pensare in quale ambiente, spazio ed in quale momento del giorno si svolge l’avvenimento, una scelta quest’ultima che condizionerà il tipo di luce ed i toni di colore che dovrà impiegare, oltre alla orchestrazione del chiaroscuro ed alle apparenze dei colori, che insieme daranno il tono generale al dipinto (un pittore spesso si innamora di alcuni colori che usa di frequente).

Molto probabilmente per aiutarsi farà ricorso inizialmente ad altri esempi figurativi che ha visto ed incamerato nella sua memoria visiva, dote di cui il pittore lombardo è dotato in maniera prodigiosa, per questo è importante conoscere gli ascendenti iconografici o pittorici a lui cari, perché cercherà di imitarli. Si tratta in definitiva di mettere a punto tutte le caratteristiche fondamentali che andranno a costruire la rappresentazione e, dovendo organizzare una scena,  la maniera in cui egli definisce tutti questi elementi costituisce il suo personale stile di rappresentazione, proprio come accade nel caso di uno scrittore. Le soluzioni che il pittore troverà a tutti questi problemi, a partire dalla prima decisione e cioè la scelta del soggetto da rappresentare, fino agli effetti che voleva ottenere sul pubblico, siano essi di natura emozionale o razionale, insegnamenti morali o di pensiero, non sono nient’altro che il frutto dettagliato della sua distinta personalità; tutti questi elementi quindi diventano  un’insieme di criteri indispensabili e fondamentali nella analisi di un’opera.

Per comprendere un dipinto occorre dunque in primo luogo capire come è stato creato, cioè come il suo artefice ha utilizzato e messo a punto ciascuno degli strumenti pittorici a sua disposizione, questa è la prima fase dell’analisi.

Ma per per arrivare a conoscere completamente un dipinto ed il suo artefice occorre andare oltre lo studio di ciascuno dei singoli elementi appena elencati ed arrivare alla loro sintesi, che si concretizza in un nucleo, quello della personalità del pittore e che rappresenta il suo tratto distintivo, caratteristico e peculiare. In altre parole, un artista ci fa vedere una scena così come lui la pensa nella sua immaginazione, e questa rappresentazione è il riflesso del suo pensiero, delle sue conoscenze, delle sue emozioni, della sua interiorità, in ultima analisi di chi egli è, Ogni pittor dipinge sè stesso, scrive saggiamente Leonardo ( 38).

Per arrivare a questo grado di conoscenza occorre non solo essere in grado di individuare tutte le forme espressive che gli sono proprie e cioè il modo con cui utilizza i vari elementi costitutivi di un dipinto, ma occorre andare oltre e fare una sintesi di questi, cioè pervenire alla comprensione dell’intimo, dell’animo dell’artista, il nucleo fondativo che genera il tutto; per fare ciò occorre andare oltre lo studio del particolare, in altre parole  non è sufficiente essere in grado di vedere con precisione tutti i dettagli di un albero ma è necessario arrivare a percepire distintamente anche la forma della foresta, cioè comprendere come si genera il risultato complessivo che scaturisce dalla maniera di gestire gli elementi che compongono la rappresentazione.

Ed è proprio  questo ciò che riusciva a fare Roberto Longhi, questa era una dote che lui padroneggiava magistralmente, lo si capisce con chiarezza nei suoi scritti o lo si può addirittura sentire dalla sua viva voce nel documentario sul Carpaccio, dove ricostruisce gli esempi presi a modello dall’artista e spiega precisamente  tutti i dettagli della sua immaginazione, del suo modo di sentire e di conseguenza di vedere e rappresentare la realtà. Longhi si sofferma a descrivere tutti i singoli elementi che compongono i dipinti ed esamina la attenta maniera con cui sono stati realizzati i suoi particolari; questo gli consente di comprendere distintamente ciò che attirava l’attenzione del’artista, le immagini che hanno impressionato la sua mente e che inconsciamente hanno condizionato le forme contenute dei suoi dipinti, ciò che normalmente catturava il  suo sguardo, i volti e le espressioni.

Tutta questa minuziosa capacità di analisi gli permette di ricostruire i suoi pensieri, saperne distinguere gli aspetti e le sfaccettature dell’animo, quello che egli sentiva e voleva rappresentare, attraverso le sue opere, insomma Longhi riesce a vedere l’uomo che sta dietro all’opera.  Roberto Longhi possedeva tutte le doti precipue di un connaisseur, e quando si leggono le sue analisi di un dipinto o lo descrive sinteticamente, si capisce che aveva un’idea piuttosto precisa dell’uomo con cui si stava confrontando, inoltre sapeva riconoscere le forme di rappresentazione che gli erano tipiche ed anche le peculiarità della sua tecnica pittorica; sapeva padroneggiare tutti questi strumenti in maniera indipendente l’uno dall’altro: sono queste le doti che costituiscono un talento fuori dal comune. Queste sue qualità gli permettevano di saper riconoscere una invenzione di un pittore anche di fronte ad una copia di un originale, cioè era in grado di andare oltre l’analisi della pura grafia pittorica che caratterizza un originale e individuare una scena che è stata inventata dal Caravaggio anche solo guardando una copia, perchè lui andando oltre il particolare sapeva leggere tutti gli elementi che formano un’immagine, insomma sapeva vedere la forma della “foresta”.

Ma occorre riconoscere che anche l’ ”occhio”, ha i suoi limiti e in alcuni casi fu proprio una sua dote più apprezzata a tradirlo e cioè la capacità di saper cogliere i tratti distintivi della “grafia pittorica”, dell’esecuzione, facendogli relegare al rango di copie alcuni originali; come ad esempio nel caso della Caduta di San Paolo Odescalchi, del San Francesco di Cremona, della Incoronazione di spine di Vienna, della Marta e Maddalena di Detroit, della Incoronazione di spine di Prato (Cfr. Roberto Longhi, Ultimi studi su Caravaggio e la sua Cerchia, in “Proporzioni” I, 1943, pag. 5-64; Greaves and Jhonson, New Findings on Caravaggio’s Technique in the Detroit ‘Magdalen’, “The Burlington magazine”, Vol. 116, No. 859,Oct. 1974, A. Moir Caravaggio and his copyst, pag.108: J.T. Spike, CD Caravaggio, pag. 120) del Maririo si Sant’Orsola.

Che dire poi di quest’ultimo dipinto scoperto ed attribuito al Caravaggio da Ferdinando Bologna nel 1955, contro il parere di tutti gli altri specialisti, Longhi compreso; i loro “occhi” sono però riusciti a riconoscere con precisione in questo dipinto la mano di: Bartolomeo Manfredi (Longhi), Mattia Preti ( Cannata, Faldi, Causa e Scavizzi), Alonso Rodriguez (Marini), solo negli anni ‘80 per merito del ritrovamento archivistico di un documento, effettuato da un filologo: Giorgio Fulco, venisa resa inoppugnabile l’attribuzione al Caravaggio, e gli storici dell’arte si sono tutti convinti della paternità dell’opera.

Occorre dunque a questo punto fare una considerazione: se l’ occhio di Longhi ha sbagliato (ed è stato il migliore di tutti), addirittura nel suo campo di ricerca principale, il Caravaggio, è stato per mezzo delle indagini scientifiche o dello  studio dei documenti inventariali che si è potuto correggere questi errori e si è arrivati a mettere la parola definitiva su tutti questi dipinti. La storia con i suoi fatti concreti ci insegna quindi che il solo “occhio” non è sufficiente per determinare o meno l’autografia di un’opera, soprattutto se teniamo conto che un vero artista evolve attraverso una ricerca sperimentale e quindi attraverso tentativi e soluzioni poi scartate e dunque dipinge certamente dei dipinti fuori norma per parlare in chiave statistica.

A questo riguardo abbiamo appena visto il capitolo degli errori nei dipinti di Caravaggio, cioè elementi che l’occhio giudica intrinsecamente scorretti, ma che pure appartengono inequivocabilmente a lui.

Pare dunque opportuno oggi nel XXI° secolo,  in una prospettiva di miglioramento del metodo, voler andare oltre questa nozione “old style” dell’occhio, che spesso non ha superato l’ostacolo della storia mostrando, come la moda, tutta la sua transitorietà e la sua data di scadenza, cioè quella del critico che l’ha espressa ( gli esempi sono innumerevoli), e a questo  punto sorpassare il campo del dibattito dialettico-sofistico fatto di argomentazioni verbali ben condotte,  per entrare nel campo scientifico e realizzare un metodo più affidabile, in ultima analisi sarebbe opportuno smettere di ‟ascoltare le parole”, e ‟badare ai fatti”, come scriveva Einstein nel 1933 nel suo Discorso sul metodo (On the method of theoretical physics):                    (https://www.treccani.it/enciclopedia/epistemologia_(Enciclopedia-del-Novecento ).

Così su questo argomento si esprimeva un’altro peso massimo della conaisseurship, Federico Zeri:

Abitualmente la critica d’arte, o il tentativo di esegesi, cioè di spiegazione delle opere d’arte, è affidato a gente del mestiere, a intellettuali specializzati. Gli intellettuali tendono sempre a parlare in modo oscuro. Perché tendono a parlare in modo oscuro? Per catturare con la paura coloro che non li capiscono. È un vecchio trucco degli intellettuali, soprattutto di quelli italiani. Parlano con un linguaggio desueto, con aggettivi arcaici, con frasi molto lunghe che non possono essere seguite e che quindi confondono l’attenzione dell’ascoltatore.”(F. Zeri, Cos’è un falso pag. 21-22).

Una attribuzione credibile deve dunque basarsi sui dati oggettivi, chiaramente definiti ed enucleati, come risultato di una attività di analisi, questa deve costituire la base, il fondamento su cui poi dibattere, la discussione fondata sulle opinioni è scritta sulla sabbia.

La metodologia dello studio della Storia è stata da tempo sottoposta a regole basilari irrinunciabili che riguardano il reperimento, l’analisi e la conseguente enucleazione  dei dati utilizzati per arrivare ad una determinata conclusione, e le sue regole sono state convenientemente fissate sono, e cosituiscono requisiti indispensabili a conferire attendibilità scientifica al lavoro (J.G. Droysen); a questo punto è piuttosto ovvio che le regole create per fissare dei punti fermi nello studio della Storia debbano trovare la loro trasposizione ed applicazione anche nel campo della Storia dell’arte.

Una solida analisi quindi deve essere invariabilmente accompagnata da una metodologia e da ricerche che vanno a fondo sulla specifica questione, e deve venire supportata dalla analisi di non pochi dati effettuata per mezzo di osservazioni sulle caratteristiche fondamentali con cui è stata realizzata la rappresentazione pittorica, opportunamente confrontate con analoghi dettagli presenti in altri dipinti certi, tenendo ben presente che il campione, per avere un significato, deve avere una numerosità sufficientemente ampia a garantire la sua validità e tener conto invariabilmente di tutti gli esempi disponibili (sia che siano a favore o contro).

Di conseguenza il giudizio che si basa sulla sola esperienza mnemonica seppure sia in grado mettere sulla buona strada, deve essere validato con fatti oggettivi, frutto di una  approfondita ricerca; il limite di una attribuzione infatti deriva sempre dal grado di approssimazione dei dati utilizzati nel caso specifico, col conseguente rischio di sconfinare nel campo dell’arbitrario e cioè in affermazioni soggettive che di frequente non sono nient’altro che dei postulati retorici costituiti da pochi elementi collocati in un discorso ben condotto dal punto di vista dialettico ( come diceva Zeri) ma che si riducono poi in concreto a opinioni personali prive di solidità se non sono supportate da adeguate prove e sostenute da una tangibile logica scientifica, che è necessariamente costituita da un preciso paradigma: ipotesi, tesi, e dimostrazione, cioè si deve essere in grado di spiegare chiaramente ed in maniera comprensibile come si è arrivati ad una deteminata conclusione e su quali dati essa è stata fondata.

Ci sono inoltre alcune cose  che l’occhio non è per nulla in grado di vedere e per questo occorre il supporto delle analisi tecniche, che permettono di esaminare aspetti che vanno oltre il campo del visibile, ad esempio la maniera con cui un dipinto è stato costruito, o la presenza di ripensamenti iconografici, e cioè la presenza negli strati sottostanti di elementi iconograficamente differenti, che non sono presenti nella stesura finale.

Per rimanere nel campo del Caravaggio questo tipo di ricerche sono state determinanti nel caso della attribuzione della Marta e Maddalena o del San Giovannino Capitolino, sul quale gli “occhi” degli esperti si erano divisi; altrettanto importanti sono state le ricerche d’archivio e documentali, che hanno permesso di collegare questo dipinto alla collezione Pio, ed in ultima analisi alla collezione del Monte, la stessa cosa è accaduta anche per la Buona Ventura Capitolina o nel caso della Sant’Orsola.

Altrettanto fondamentali sono da ritenersi le ricerche storiche, filologiche ed iconografiche, così aprezzate da Federico Zeri che scriveva:

La cattiva attribuzione non è mai falsa, è semplicemente una cattiva operazione filologica” (Cfr. Cos’e un falso, pag.103).

Zeri amplia ulteriormente il suo discorso  su quest argomenti in un’ intervista rilasciata a Bruno Zanardi:

Professor Zeri, dove sta andando oggi la storia dell’arte?”
“In Italia, è rimasta alla filologia. Non ha cioè superato quella prima fase, peraltro indispensabile, della classificazione delle opere, che corrisponde poi all’ordinamento del materiale letterario, alla ricostituzione di testi critici, ecc. In altri Paesi, soprattutto sotto l’effetto della scuola tedesca e poi anglosassone della prima metà di questo secolo, vi sono stati invece altri approcci alla storia dell’arte: studi di iconografia e di iconologia, studi sui rapporti tra arte e società e tra arte e economia. Tutti approcci metodologici che da noi hanno avuto una vita molto stentata e quasi sempre discutibile, esse costituiscono parti fondamentali del suo metodo.” (  https://www.finestresullarte.info/interviste/la-tutela-e-la-storia-dell-arte-una-conversazione-con-federico-zeri).

Insomma in definitiva la Storia dell’arte moderna ha potuto evolversi nel corso degli anni su diverse linee di ricerca ed ha accertato che servono diversi differenti contributi per comprendere davvero un quadro nella sua interezza, mettendo  così bene in luce che sono molti gli strumenti indispensabili nella sua “cassetta degli attrezzi”.

Seguendo l’approccio della metodologia moderna messa a punto nel caso della disciplina della Storia, i differenti approfondimenti disciplinari che uno studio correttamente condotto deve tenere in conto sono molteplici,  tante  molteplici sono le fonti che devono essere interrogate, ed organizzate con una sequenza ben precisa; occorre in primo luogo partire dalla enucleazione pura e semplice dei fatti: chiariti questi, si può passare ad una ricostruzione oggettiva, che ovviamente ha sempre come obiettivo costante quello di  evitare distorsioni interpretative ( L. von Ranke).

In conclusione una analisi che si possa definire oggettiva e non soggettiva come quella basata solo sulla dialettica e sulla estemporanea memoria visiva, non poche volte ridotta ad un parere negativo od affermativo  con poche ulteriori considerazioni, accortamente poste al riparo del paravento dell’ “occhio”,  deve tenere necessariamente conto per avere credibilità, di tutti gli ulteriori approcci sopra descritti,  ed è bene anche su questo punto essere avvertiti, sia beninteso che anch’essi devono sottostare  alle regole appena esposte, e cioè per aver un valore devono  essere sempre guidati dalla briglia della logica, in maniera trasparente e scientifica, non parziale.

Risulta evidente a questo punto che la mancanza di una precisa metodologia strutturata rappresenta una lacuna fondamentale per l’attendibilità delle attribuzioni, che ha generato in passato non pochi errori, la assenza anche di una seppur minima base iniziale a carattere sistemico, messa a punto e condivisa dagli attribuzionisti, non permette nemmeno di iniziare ad  effettuare dei test e quindi di migliorarne la precisione.

La carenza di una  metodica assodata in questo campo è un vuoto che occorre dunque superare con l’obiettivo di pervenire ad un metodo ed una prassi attributiva ben codificata che sia in grado anche di misurare il grado di certezza od incertezza a cui è associato il risultato a cui si è pervenuti.

Da un altro versante, e cioè dal punto di vista esegetico diventa un esercizio estremamente improbabile cercare di spiegare il significato ed il messaggio più profondo contenuto in un dipinto, senza avere una adeguata conoscenza dei dibattiti, della cultura e dei testi più importanti in voga nel periodo in cui l’artista è vissuto, poiché si corre sempre il rischio di proiettare le nostre conoscenze individuali sull’opera.

Queste sono le basi di partenza su cui costruire una analisi ermeneutica, infatti seguendo i più basilari principi guida della filologia, senza una adeguata padronanza di questi strumenti interpretativi, e cioè la conoscenza dei testi e della cultura del periodo, ogni tentativo fatto nella direzione dell’interpretazione è da ritenersi di per sé un azzardo.

Così si esprimeva  ancora Zeri sull’argomento, auspicando che un giorno la storia dell’arte arrivasse ad un approccio finalmente omnicomprensivo:

”La storia dell’arte si sta sempre più avvicinando alla sua reale essenza, cioè di essere soltanto una faccia di una realtà storica ben più complessa, di cui fa parte – non so – la storia della cucina, la storia dell’economia, la storia dei vari generi, appunto, figurativi, della letteratura. Sono tutti aspetti di una storia più generale. E, piano piano, si riuscirà ad arrivare al nocciolo di tutta questa storia.”(Cfr.  Cos’e un falso pag. 170)

E’ il caso ora di ritornare al nostro discorso principale, per arrivare alla conclusione che la formula pittorica inventata dal Caravaggio è molto diversa da quella degli artisti che lo hanno preceduto, non solo per le sue caratteristiche estetiche, ma anche per quanto riguarda la maniera di organizzare la rappresentazione. Non si può nemmeno provare ad immaginare di vedere dal vero una scena manierista con le figure messe in pose stereotipate, i colori innaturali, e la mancanza di una luce realistica, tutto il contrario  del Caravaggio che rappresenta solo azioni che appaiono esattamente come potremmo vederle nella realtà. Questo era in definitiva il suo fine ultimo far percepire allo spettatore la scena come se fosse realmente presente di fronte a lui, mentre il dipinto non è altro che una accuratissima e verosimile ricostruzione della realtà, realizzata attraverso una accorta gestione degli elementi pittorici.

La sua naturale capacità di restituire il dato reale sulla tela è un fatto  quasi inspiegabile, gli sono sufficienti pochi tratti di pennello, per ricreare non la semplice immagine di un evento ma per riuscire a dare la sensazione a chi osserva di essere presente ed assistervi, con un grado di verosimiglianza tale  da suscitare nello spettatore la stessa sensazione  che proverebbe se fosse effettivamente presente.

Se osserviamo lIncredulità di San Tommaso pare che il Cristo dica: metti una mano qui, mentre l’apostolo guarda attentamente, con una precisione quasi scientifica dentro al foro. Nella Deposizione il Cristo sembra proprio aver appena esalato l’ultimo respiro, mentre curvo nello sforzo Giuseppe d’Arimatea sta ben piantato sui suoi piedoni in primo piano che sono i veri protagonisti del dipinto, mentre Giuseppe ti scruta con sguardo attento per vedere le tue emozioni.

Sono tutti episodi che percepiamo come del tutto veritieri, le emozioni di ciascun personaggio sono specificamente e individualmente definite e svolgono una funzione chiara, non sono delle comparse messe sulla scena come ad esempio accade nei dipinti dei suoi contemporanei dove le figure sembrano affettate ed alla fine vacue, vuote, non rimangono nella nostra memoria; l’animo del Caravaggio partecipa alla scena e sa individuare e restituire precisamente gli stati d’animo personali di ciascuno dei personaggi, e queste immagini ci colpiscono prefondamente.

In molti casi il Merisi nei suoi dipinti riprende le invenzioni di altri pittori, in special modo quelli dei manieristi, ma nonostante questo, i suoi risultati  sono radicalmente divergenti da quelli e soprattutto suscitano emozioni totalmente diverse, insomma si può arrivare alla definitiva conclusione che la forma ed il modo con cui egli orchestra una scena è talmente connaturato ed intrinseco al messaggio che vuole trasmettere ad un tal punto da diventare alla fine il cuore del messaggio che vuole trasmettere, ed è a questo punto innegabile che Caravaggio abbia rivoluzionato e completamente cambiato la maniera di comunicare per mezzo della pittura.

Michele FRAZZI  Parma 1 Dicembre 2024