Pippo Di Marca, autore, attore, performer, già ideatore del Meta-Teatro ad About Art: “Ho sempre cercato anime che mi rassomigliassero”.

di Marco FIORAMANTI

“HO SEMPRE CERCATO ANIME CHE MI RASSOMIGLIASSERO”

Intervista a Pippo Di Marca

Foto di Paola Spinelli

Pippo Di Marca ideatore del Meta-Teatro (1971), ha costruito le tappe di un continuum unico e personalissimo creando sinergie e sodalizi con artisti come Carmelo Bene, Leo De Berardinis, il gruppo del Living Theatre e confronti diretti con i suoi fari Lautréamont e Duchamp, e altri come Genet, Joyce, Bernhard, Beckett, Bolaño

-Buongiorno Pippo, il registratore è già in rec, partiamo dal significato di “scrittura scenica” per raccontarmi poi, in un flusso, tutti i tuoi “fari”…

R: La scrittura scenica in realtà era una metodologia che poteva contenere qualunque libertà espressiva. “Scrittura” era nel senso che veniva realizzata non a partire da un testo, ma da un lavoro sulla scena, sulle tavole del palcoscenico, sull’esperienza delle arti visive, sull’esperienza della musica e l’esperienza dell’avanguardia, sull’esperienza di una destrutturazione del linguaggio narrativo che avevamo acquisito in precedenza e quindi il termine di scrittura scenica era quello che coincideva di più con l’idea di un teatro da stravolgere che si avvicinava di più all’esperienza delle arti visive, del concettuale e delle performing art. Io, pur partendo da una formazione di lettore di libri precedente, nella mia giovinezza, il primo spettacolo l’ho fatto pensando all’evento, alla performance. Paradossalmente non aveva testo, era uno spetta- colo di movimento e, non a caso, sulla base di un atteggiamento da pittore della scena. Si intitolava Evento Collage n.1. Tutti i miei spettacoli successivi sono stati concepiti come eventi e non come storie. Quella cosa lì mi ha in qualche modo aperto diverse strade, apparentemente anche differenti le une dalle altre, però erano strade che portavano una riscrittura scenica del teatro e anche delle eventuali scritture, per esempio letterarie, che potevano spingerci in direzioni nelle quali io personalmente avrei voluto più riconoscermi. Invece nella letteratura che piaceva a me, quella surrealista o comunque non tradizionale, trovavo l’energia, il magma che mi poteva consentire di esprimere con più libertà quello che io desideravo fare e soprattutto con più coerenza, perché la sintassi e la grammatica teatrale in quegli anni venne completamente cambiata e la letteratura diventava immediatamente immagine-gesto-musica-ritmo.

-Cominciamo da Oscar Wilde e dalla Salomé.

R: Era qualcosa di ascrivibile più a poesia-in-prosa quindi questo mi ha portato a lavorare, come riferimento, sulla Salomé di Wilde, perché tra l’altro è cominciato a nascere un sodalizio anche con Carmelo (Bene, ndr). Io ho fatto la Salomé per rifare una Salomé opposta (o diversa) a quella di Carmelo. Quella Salomé era musica pura, tanto è vero che ho utilizzato direttamente il testo francese scritto da Wilde e non l’ho trattato come un testo decadente. Ho riscritto Wilde e la Salomé dentro un discorso che era nella linea dell’Igitur di Mallarmé.

Pippo Di Marca courtesy Paola Spinelli

È stata una rivoluzione copernicana, era quasi impensabile; mi ricordo che lo stesso Carmelo si meravigliò. Era di una rarefazione musicale che poteva equivalere alle cose che in quel momento facevano i musicisti d’avanguardia, tipo Scriarrino o altri. Questo lavoro mi ha portato fatalmente a una forma di concettualità ironica che ho trovato nel giro di pochi anni dentro due personaggi (ognuno di noi ha delle pietre miliari).

– Passiamo a Lautréamont e Duchamp.

Pippo Di Marca courtesy Paola Spinelli

R: Prima devi trovare la tua pietra miliare, o la trovi strada facendo, ma la trovi sposando o addirittura immedesimandoti in altri artisti o in quello che hanno fatto. Io mi sono trovato, ed è stata la mia fortuna, in questo tipo di dinamica di scelte che facevo in cui la letteratura non era la drammaturgia teatrale, i testi, ma era la poesia o la potenza, l’ironia, il ribaltamento del discorso che ci poteva essere in qualche testo letterario o in qualcuno degli autori, tipo Lautréamont, il massimo che è stato espresso dal surrealismo, anche se lui era pre-surrealista, trent’anni prima che nascesse il Surrealismo. Però Breton ha detto che lui era l’esempio massimo di quello che sarebbe potuto essere il surrealismo o per certi aspetti dei punti di ironia così duri che poteva definirsi dadaista. Questo fatto può definirsi come se io avessi trovato un’energia “nera” e una lucidità “nera” in questo maledetto e, a distanza di pochi anni, nel momento in cui c’è stato un passaggio di crisi della narrazione, chiamiamola ‘letteraria,’ ho trovato istintivamente un riferimento in Marcel Duchamp che conoscevo benissimo dai tempi in cui avevo cominciato a collaborare con Giancarlo Nanni alla “Fede” (la prima cantina/teatro in via Portuense a Porta Portese, ndr). Nanni era un altro duchampiano, lì c’era la felicità creativa e l’ironia superiore, l’ironia del massimo, di quello che si può definire “concettuale nell’arte” ma che era altrettanto violenta nei riguardi della società dell’arte e della storia dell’arte perché i baffi alla Gioconda sono una dichiarazione di guerra alla negazione del passato, bisognava andare oltre e quelle sono le esperienze che nascono tra l’altro con la consapevolezza che le arti visive avevano raggiunto livelli oltre i quali non si poteva più andare, perché nel momento in cui Picasso fa le Demoiselles d’Avignon per superare Cézanne, Matisse, quindi andare oltre… poi dove si è ritrovato? Si è ritrovato dove c’era una scomposizione totale dell’immagine. Questo non significa che lui era contrario in partenza al figurativo, però bisognava andare oltre e questa specie di piramide a un certo punto si è elevata fino al punto in cui Duchamp che pure era un bravo pittore, che ha fatto quadri Nude descendant les escalier che sono dei quadri tra futuristi e cubisti aveva capito che non aveva più senso neanche fare quelli, perché l’unico senso che valeva era la consapevolezza dell’artista di inseguire un assoluto suo che equivaleva al massimo della poesia esprimibile che diventava negazione del finto poetico e del finto figurativo.

Pippo Di Marca courtesy Paola Spinelli

Questa era una rivoluzione ed è servita a me per fare un teatro più legato alla letteratura o per lo meno su basi letterarie, che poi diventavano gesto, corpi, idea dello spazio. Saltava la narrazione. Diventavano musica. C’era un sound incredibile negli spettacoli. Poi c’è stato questo passaggio alla performance attraverso Duchamp (stiamo parlando del ’77-’78) e per diversi anni ho fatto “azioni sceniche” o “creazioni sceniche”, non erano più spettacoli. Erano gesti che venivano fatti in gallerie d’arte o addirittura in altri luoghi non deputati e quello è stato il periodo proprio qui in questa casa i “meta-martedi” che sono stati una stagione di azioni straordinarie dove l’atelier dell’artista, il luogo dove viveva, diventava lo specchio dei suoi gesti teatrali, e questo è durato 6 mesi e poi abbiamo fatto delle cose anche fuori dei teatri, nelle strade, provocatoriamente, per esempio è successo a Narni con un discorso su Genet, trattato come se fosse un discorso pasoliniano di iperrealismo violento, durissimo. E quindi queste due anime, questi due punti di riferimento – Lautréamont e Duchamp – i due livelli, quello “performativo” e quello “maledetto” me li sono portati appresso. Negli anni a seguire (avrò fatto almeno 70 spettacoli e almeno un’altra sessantina di “azioni sceniche” dappertutto, in Italia nei teatri, nelle gallerie d’arte, in alcune manifestazioni d’arte, all’estero, eccetera).

– Ora è il momento di James Joyce e Samuel Beckett…

R: Queste due cose mi hanno portato fatalmente a Joyce, che è il più grande dei riformatori, pur non dichiarandosi “avanguardia”, perché lui praticamente ha scritto un capolavoro, che è l’Ulisse, e poi ha distrutto completamente il linguaggio scrivendo Finnegans Wake. A proposito di grandi, c’è il riferimento a Beckett, che praticamente è il figlio di Joyce, se non ci fosse stato Joyce… a parte che lui ha fatto il segretario di Joyce, entrambi dublinesi, ma se non ci fosse stato soprattutto il secondo Joyce, quello che ha esasperato il linguaggio in una maniera inarrivabile, probabilmente non ci sarebbe stato Beckett. Sono in correlazione, perché lui ha fatto il gesto che ho fatto esattamente io nei riguardi di Carmelo, il fatto di tradire chi era il mio punto di riferimento.

Ho fatto diversi spettacoli su Duchamp e da Duchamp, sicuramente cinque e quattro in particolare (uno era Omaggio a Duchamp, facendo delle performance davanti al Grande Vetro, al museo di Philadelphia). E altri quattro che Duchamp lo mettevano sul Big Bang sul viaggio extraterrestre Youraparis “Big Bang Agency”, era un viaggio di una compagnia teatrale che con una macchina girava nello spazio, in tondo. Era un circo, riscrivendo tutto Duchamp. Con una sottile forma di farlo diventare pop anziché di trovare gli elementi sacrali, perché lui diceva “la mia vita, ogni sospiro della mia vita è Arte” non importa se è visuale… ed era esattamente quello che sentivo io quando percepivo che dovevo fare una cosa la percepivo in termini di istanza basica dentro me stesso. E questo qui ha portato poi a Joyce. Da notare che io Joyce lo vivevo come un fiume sotterraneo ma l’ho messo in scena poi molti anni dopo perché mi bastava sapere che cercavo continuamente di andare nella direzione nella linea del Finnegans Wake della commistione dei linguaggi, perché era l’unico tentativo di descrivere il mondo ipertestuale. Il Meta-Teatro iniziale era solo una formula, poi è rimasto come nome della compagnia degli spazi, in realtà era un ipertesto ed era anche vissuto come una sorta di confronto con la narrazione ufficiale del mondo. Ho fatto uno spettacolo in cui mettevo insieme 3 personaggi: Tommaso Moro, Aldo Moro e John Kennedy che facevano parte della storiografia della censura e dei morti ammazzati e questa cosa veniva fatto dentro un testo di Shakespeare mai realizzato. Tutti gli spettacoli nascevano in una cornice visuale costante che certe volte andava in consonanza con le immagini, spessissimo al contrario, e a un certo punto questo discorso arriva fino a una specie di blob televisivo prima maniera, dove c’erano le diapositive di tutti i grandi del mondo e tutte le nefandezze del mondo, e sotto a queste immagini c’era il comunicato delle Brigate rosse quando avevano lasciato il cadavere di Moro.

Pippo Di Marca courtesy Paola Spinelli

È uno dei momenti più potenti che il teatro può aver fatto, perché lì tu percepisci l’impossibilità di capire e tutto il senso della pietas tragica in un momento fai un discorso di parodia che è poi quello lì che è la poetica fatta in una misura straordinaria fatta da Carmelo però con Carmelo i discorsi erano tutti all’inverso. Lui era partito sulla base di Nietzsche, della Carmen di Bizet, ne parlava di continuo, però non l’ha mai fatta, perché era invaghito da questa infatuazione di Nietzsche. Io ho fatto una Carmen che era simile all’Orlando Furioso di Ronconi, come movimenti, come se fosse un’azione giocata tutta sul ritmo, a spaccare i contenuti e a farli risaltare in questo gioco di amore-odio tra l’uomo-donna da una parte e il senso di oppressività che ti dà in quel caso quel mondo lì, il mondo dei toreri etc. È fatta in una dimensione che andava in un certo senso oltre la stessa idea di “rispetto” x la Carmen che avrebbe potuto avere Carmelo. Tutto questo qui si è in qualche modo realizzato in decine di spettacoli nel corso dei decenni, compresi anche degli spettacoli che avevano una matrice proprio più letteraria.

– E quando hai messo in scena Gadda

R: Per esempio ho portato in scena Gadda con La cognizione del dolore, ma non ho raccontato la cognizione del dolore, ho raccontato quest’odio incredibile tra una madre e un figlio, mettendo in scena con una direzione del romanzo, capovolgendo il rapporto dei testi. La madre diceva le battute del figlio e il figlio diceva le battute della madre, in un fiume senza catarsi. La cosa più straordinaria, sono stato sempre contrario all’immedesimazione come tecnica, io lavoro sulla libertà sul massimo della libertà degli attori, per prima la mia, e poi, proprio attraverso quella libertà giocata nella maniera più radicale, arrivare al punto massimo a cui puoi arrivare con quell’esperienza quando fai la scrittura scenica. Lì io ho capito che questi due che non si conoscevano e non si dovevano incontrare. Ho lavorato per mesi con l’uno e con l’altra separatamente. Si conoscevano vagamente perché lei era un po’ più nota. Li ho messi dentro in questa specie di gabbia un giorno e mezzo prima del debutto, ed è successo qualcosa di inaudito. Tutto diventava come se fosse un’improvvisazione e allora tu capisci che puoi fare persino la cosiddetta immedesimazione, però la devi mettere dentro una dimensione che riscrive completamente e questa cosa è stata il mio karma che mi sono portato dietro in varie situazioni.

Pippo Di Marca courtesy Paola Spinelli

– Dimmi di Cechov.

R: Un altro spettacolo che ha avuto un successo incredibile è stato Il giardino dei ciliegi che per me era ballata sulla fine del giardino. Era la fine dell’Unione Sovietica, appena successiva alla caduta del muro di Berlino. E Cechov diventava la fine di un mondo. Cominciava con Firs, che è il vecchio che leggeva la Pravda, con l’Internazionale a tutto volume e questo veniva avanti e non capiva. Era un attore olandese che sapeva parlare russo e dentro il Titanic di Enzensberger, c’era Cechov, insieme col Titanic (1912), il Giardino dei ciliegi era di dieci anni prima, il mondo è cambiato e da allora non si è più risollevato, e da lì il progresso è diventato guerra, assassini, omicidi, Cia etc. E quindi c’era anche una dimensione di critica, radicale, politica nel mio discorso. Io nasco con il Sessantotto e tutte le cose che mi hanno fatto capire come andava il mondo stanno lì e li ho sempre travasati nella forma ovviamente sempre non semplificata nella mia attività artistica.  E quindi i passaggi sono vari e gli anni passano.

– E Jean Genet?

R: Ho fatto I negri di Genet ma non parlava solo dei negri, parlava della negritudine. Gli attori dei Negri di Genet erano neri-americani, neri-africani, neri-italiani (nati da genitori italiani). Genet serviva per fare Frantz Fanon. Questo diventava un happening straordinario. Le parole c’erano, gli attori c’erano, ma diventava una specie di esercizio, anche di equilibrismi reali, su delle funi. Era come stare sull’orlo dell’abisso e lo spettacolo era: stiamo sull’orlo dell’abisso e siamo dei pezzi di merda perché c’era una contrapposizione netta e chiara tra la negritudine e i bianchi. Quella contrapposizione che in Genet è meravigliosamente lavorata dentro un’architettura di parole, per me diventava gesto scenico a livello del Living Theatre con la stessa energia creativa e immaginativa anche formale del mio primo spettacolo Evento collage n.1 che alla ricerca di un altro era uno spettacolo tutto basato su pezzi di teatro, movimento gestuale, tutti con un’iconografia della violenza nel mondo, di una coerenza estrema.

– Chiudiamo con Roberto Bolaño.

R: I riferimenti sono introiettati dentro di me, qualunque cosa faccio, me li sogno la notte! Lauréamont fa dire a Maldoror: Cercavo un’anima che mi rassomigliasse. Io non ho fatto altro che cercare anime che mi rassomigliassero, al massimo livello possibile della tensione morale, estetica, espressiva. E ho trovato, quasi casualmente, proprio per il mio amore per i libri, Roberto Bolaño, morto nel 2003. Nel 2004 mentre provavo uno spettacolo fuori Roma, la sera, dopo le prove, solitario, ho visto una serie di suoi libri della Sellerio. L’ho trovato uno scrittore straordinario con un coraggio incredibile, e un senso della disperazione e sconfitta e della lotta dell’artista. È vissuto nella povertà più totale, morto a soli 50 anni. Ho capito che dovevo dedicarmi soprattutto a lui. Per esempio, il primo spettacolo, che si chiamava Linee spezzate nella tempesta, è nato da un laboratorio lunghissimo, in realtà la scenografia era costituita da installazioni aeree, nello spazio scenico di tutti i suoi libri come se vagassero in una sorta di galassia, poi c’erano delle situazioni che focalizzavano i vari aspetti della sua opera. Io facevo il direttore di un circo che, parlando con lui, attraverso parole sue istigava una quantità di situazioni che giravano in continuazione attorno a questa come se fosse una roulette, ed era come un cortocircuito che non si ferma mai. Poi ne ho fatti altri due, uno l’ho scritto io perché lui lavorava molto su personaggi inventati, doppi tripli e soprattutto su personaggi che tendevano a manipolare la realtà in termini visionari. La cosa paradossale per me era di tenere a bada la drammaturgia scritta per il teatro.

Pippo Di Marca courtesy Paola Spinelli

La prima volta che ho affrontato Shakespeare, era nel ’94, 25 anni dopo aver fatto decine e decine di spettacoli e quando l’ho fatto l’ho fatto come concerto e poi quando l’ho voluto recuperare l’ho recuperato coi Sonetti facendo un concerto con una band apposta per fare Shakespeare jazz and blues. Quando l’ho fatto come spettacolo l’ho fatto su me stesso, perché Prospero (protagonista de La Tempesta, ndr) è chiunque si imbarca in un’avventura teatrale, poetica, umana e destinato al naufragio. Più o meno lo stesso lavoro è stato fatto con Pirandello-Bolaño. L’altro grande spettacolo, fatto al Teatro India, era una specie di compendio di Bolaño e lo colloca esattamente dentro la mia storia. L’ultimo suo libro, 2666, è un libro apocalittico, straordinario, diviso in 5 parti e lui individua la parte dei maestri, la parte di Arcimboldi, un protagonista, un suo alter ego, la parte delle vittime e siccome io partivo da quel libro e dai suoi l’ho intitolato Da parte di Bolaño. Una specie di saggio, visionario come lui, su di lui, con parecchie cose mie. E poi Il quinto cavaliere, perché lui si è nutrito di quelli che lui considerava i 4 cavalieri della poesia del moderno: Lautréamont, Baudelaire, Mallarmé e Rimbaud. Su questo ha costruito il substrato della sua potenza creativa e ho cercato di restituire tutto questo partendo quindi dai maledetti francesi, che erano esattamente le mie origini.

Uno dei miei Teatro Mundi Show, sulla poesia e che è sintomatico di tutto il discorso, è un lavoro sulla poesia mondiale dal 1200 ai giorni nostri. La poesia intesa come qualunque modalità dell’esistenza che possa tentare di attingere all’assoluto e di essere poesia, non soltanto quella scritta. In questo spettacolo c’era naturalmente Joyce in prima persona, Sanguineti (Laborintus), i poeti maledetti, Rabelais (Gargantua e Pantagruel), c’entra la musica, collegata con Petrarca e Dante, la musica dei madrigali. Tutti a contrasto. Alla fine c’entra anche, attraverso Umberto Saba, la poesia dello sport e del calcio, dichiarata. C’era la poesia della musica, non solo quella che dovrebbe elevare lo spirito, ma quella che ha dato cazzotti alla musica. Ho iniziato vari spettacoli cominciando con la chitarra elettrica facendo Jimi Hendrix, compreso lo spettacolo su Bolaño.

Marco FIORAMANTI 20 Ottobre 2024


Nota di Pippo Di Marca su Marco Fioramanti

Marco Fioramanti innanzitutto è una persona che ammiro.

Artisti come lui, che non sono artisti mentali, intellettuali, pleonastici, esteriori, ma artisti comporta/mentali, reali, artisti di arte e vita, ne ho conosciuti pochi.

A lui si attaglia una famosa ‘dichiarazione di poetica’ di Marcel Duchamp:

“Ogni secondo, ogni respiro può essere un’opera, che non è scritta da nessuna parte, che non è né visuale, né cerebrale: dunque se si vuole, la mia arte è vita… è una sorte di euforia costante”.

Marco Fioramanti è tante vite d’artista: è un viaggiatore infaticabile nei cammini dell’arte, suoi e degli artisti che ha incontrato nel suo ramingo vagabondaggio per le geografie dell’universo/mondo o per l’ondivago andirivieni dello spazio/tempo – almeno de secondo Novecento e oltre, quello della sua vita e della sua indomita ricerca d’artista –, che in lui non differiscono, ma si saldano, coincidono in una empatia/sintonia ‘speciali’: che io suo ‘carattere di uomo’, di persona generosa in tutti i sensi, fa diventare ‘naturali’, quadi normali… Tant’è che mi viene spontaneo ‘personalizzarli’, come discendessero dal suo stesso nome; e al tempo stesso ‘spersonalizzarli’, come riferibili, afferenti, tra gioiosa metafora. Poetica e induzione, a certi mostri sacri del nostro comune immaginario artistico.

Fior/amanti, che è un ‘Fleur’, eppure non è un ‘fleur du mal’, è un ‘fleur/fleneur’ di razza che, come Baudelaire e tutti i camminanti, potrebbe bordeggiare il suo lato ‘maudit’, ma che conserva la moralità alta, sovrana, libera del poeta capace di condurlo nei territori di un altro grande, forse il più grande viaggiatore tra i poeti, nella ‘Stagione all’inferno’ di Rimbaud: dove lui saprebbe trovare la strada per una ‘stagione in paradiso’, o almeno per uno degli infiniti ‘paradisi artificiali’.

Fior/Amanti, che è un Amante, un uomo che ama, nato per amare, un uomo artista che è ‘uno, nessuno e centomila’ (nel senso solare di questa citazione, non in quello ambiguo del suo autore) amanti dell’arte: nel nome di se stesso e di tutto l’esercito di erranti, di esuli, di senza patria con sentimenti, utopie – più o meno trattiste (o del primitivismo astratto), come il suo ‘movimento’ ideale, dal 1982, fondamento delle sue azioni/creazioni/relazioni: un ‘sognatore’, una sorta di ‘detective selvaggio’, che ha poco da invidiare ai personaggi di Bolaño.

Pippo Di Marca  Roma 20 Ottobre 2024