di Claudio LISTANTI
Per il capolavoro ‘Les vêpres siciliennes’ di Verdi una non brillante inaugurazione della Stagione 2019-2020 dell’Opera di Roma;
apprezzata l’esecuzione musicale, perplessità per la parte prettamente scenica e per la realizzazione della parte coreografica.
Un buon successo di pubblico ha salutato l’apertura della Stagione Lirica e di Balletto 2019-2020 del Teatro dell’Opera di Roma, grazie ad un nuovo allestimento di uno di capolavori di Giuseppe Verdi, ‘Les vêpres siciliennes’, affidato alla bacchetta di Daniele Gatti, direttore musicale del teatro romano, alla regia dell’argentina Valentina Carrasco e ad una interessante compagnia di canto.
Consideriamo meritoria la decisione della prestigiosa istituzione musicale romana, guidata dal sovrintendente Carlo Fuortes e dal direttore artistico Alessio Vlad, di dare risalto a questo indiscusso capolavoro del teatro lirico italiano che, purtroppo, occupa un posto non di primo piano nell’ambito delle stagioni d’opera, sia nazionali che internazionali, nonostante contenga evidenti valori musicali e teatrali. Inoltre è stato deciso di presentare l’opera nell’edizione originale francese confermando la tradizione del Teatro dell’Opera di essere stato, già nel 1997, primo teatro in Italia a dare risalto a questa edizione.
Per la disamina di questo che possiamo definire senza dubbio un ‘avvenimento’ culturale occorre dare dei cenni storici.
Innanzi tutto il periodo nel quale nacque l’opera. Nel 1853 con quello che imprecisamente viene definita la ’Trilogia popolare’ di Giuseppe Verdi (Rigoletto, Trovatore e Traviata) il musicista era giunto ad una indiscutibile ‘vetta’ della sua arte. Sono tre opere che chiusero il periodo giovanile di Verdi allora ancora quarantenne, caratterizzato da una febbrile attività che lo portò a produrre la maggior parte del suo ricco catalogo di opere e a conquistare anche una notevole stima da parte dei teatri e del pubblico. Poteva essere considerato un traguardo ‘definitivo’ ma Verdi, come tutti i geni, sentì la necessità di giungere ad un cambiamento che rinnovasse la sua poetica musicale ed il suo modo di vedere il teatro.
Si trovava, quindi, in un periodo cruciale della vita artistica alla quale occorreva dare una svolta anche se non di facile soluzione. Rossini, ad esempio, scelse la via del ritiro dalle scene; Verdi, da parte sua, come egli stesso ammise, poteva rimanere nell’ambito già raggiunto, utilizzando quella che poteva essere una ‘rendita artistica’ certa che gli avrebbe consentito di non assumersi rischi, nell’estetica musicale ma anche in quelli meramente economici.
La sua anima di artista, però, gli suggeriva di andare avanti cercando forme e contenuti nuovi. Per ottenere lo scopo individuò come mezzo essenziale il grand opéra di stile francese che all’epoca imperava a Parigi. Una forma di spettacolo che possiamo definire il ‘colossal’ dell’epoca che aveva come rappresentanti di spicco nomi come Fromental Halévy, Daniel Auber e Giacomo Meyerbeer, un genere che aveva avuto tra i precursori proprio lo stesso Rossini con il Guillaume Tell, opera che chiuse la sua carriera.
La struttura del grand opéra scaturiva dall’evoluzione della tragédie lyrique, e della sua evoluzione come tragédie en musique, del primo ventennio del XIX secolo e prevedeva spettacoli su soggetti a sfondo storico che si svolgono in cornici grandiose con azioni, contrasti e colpi di scena che potessero colpire lo spettatore. La spettacolarità era uno degli elementi predominanti, realizzata con l’impiego di numerose comparse per rappresentare cortei, sfilate, incoronazioni. Per la parte musicale i cori sono elementi determinanti così come il notevole organico strumentale che consentiva orchestrazioni raffinate e di grande effetto. Strutturato in cinque atti il grand opéra prevedeva un cospicuo utilizzo del balletto non solo con un divertissement collocato nel terzo atto, considerato lo zenit spettacolare, ma anche con interventi in altri punti dell’opera utilizzati per amplificare l’elemento ambientale la cui descrizione era un altro dei cardini irrinunciabili di questa tipo di rappresentazione operistica.
Questo genere di teatro d’opera per la sua particolare ‘sintassi’ era l’ideale per il Verdi dell’epoca in cerca di una via che proiettasse la sua arte musicale nel futuro; su queste basi costruì uno spettacolo teatrale ‘tridimensionale’ dove azione, passioni e stati d’animo dei singoli personaggi erano direttamente collegati al contesto storico nel quale agivano senza rischiare di essere ‘avulsi’ dall’ambiente che li circonda. Inoltre comporre un’opera per l’Operà di Parigi voleva dire poter disporre di una sostanziosa orchestra formata da abili strumentisti e da un coro anch’esso imponente, un raffinato corpo di ballo ed avere a disposizione diversi mesi per provare tutto lo spettacolo condizione derivata dal fatto che praticamente il teatro era partecipato dallo Stato; tutti elementi che per il perfezionismo di Verdi erano ideali per realizzare questo suo rinnovamento.
Verdi musicò Les vêpres siciliennes su un libretto di Eugène Scribe, personaggio che può essere considerato una sorta di ‘imperatore’ dell’Operà, al quale collaborò anche Charles Duveyrier. Il libretto non era ‘nuovissimo’ in quanto Scribe risistemò quello de Le duc d’Albe, un soggetto offerto anni prima ad Halévy e, poi, anche a Donizetti che iniziò a musicarlo senza però concluderlo; una particolarità della quale Verdi non era a conoscenza ma che scoprì solo molto anni dopo. L’opera andò in scena al Théâtre de l’Académie Impériale di Parigi, come era allora denominata l’Operà, il 13 giugno 1855.
Nell’azione Henri ed Hélène, oltre ad essere amanti sono anche seguaci di Jean Procida ed insieme tramano per la rivolta. Hélène vuole anche vendicare il fratello ucciso dai francesi. Tutto sembra preludere ad un attentato al governatore durante una festa quando Montfort, riceve una lettera da una donna siciliana, costretta a diventare sua amante, che lo informa che Henri è suo figlio. Il fatto ribalta la situazione. Henri alla festa salverà Montfort dai pugnali dei congiurati; Hélène e Procida sono imprigionati. Henri intercede presso il padre per salvare i suoi amici; Montfort per cercare una rappacificazione concede loro la grazia e favorisce le nozze tra Henri e Hélène. Ma al momento del loro matrimonio suonerà la campana: è il segnale della rivolta che scatterà immediatamente contro l’oppressore francese.
Giuseppe Verdi concepì una partitura molto rispettosa delle strette regole del Grand Operà che può essere considerata ‘sperimentale’ e propedeutica di quello che sarà il Verdi futuro. Non solo il finale del III atto de Les vêpres con i prodromi della grande scena della festa che conclude tragicamente Un Ballo in Machera ma, soprattutto, pone le basi per quell’affresco grandioso e straordinario che sarà il Don Carlos nel 1867, vertice straordinario di questa forma di spettacolo. L’elemento ambientale è predominante nell’opera soprattutto per il particolare ‘colore’ musicale che evocano la poesia ed il calore dei paesaggi siciliani. I personaggi di Montfort e di Procida possono essere considerati veri e propri ‘prototipi’ di alcuni tra i più significativi della maturità del musicista come Simone, Fiesco e Filippo II.
Un grand operà come questo può essere messo in scena solo da un grande teatro e l’Opera di Roma ha dimostrato di possederne le potenzialità proponendo una versione totalmente integrale nella parte musicale utilizzando la versione francese originale.
Vogliamo iniziare la nostra disamina dalla parte prettamente visiva affidata alle cure della regista Valentina Carrasco che si è avvalsa della collaborazione di Richard Petruzzi per le scene, di Luis F. Carvalho per i costumi e Peter van Praet per le luci. Anche l’artista argentina, come accade ormai ovunque, non ha rinunciato al cambio di ambientazione, soluzione che ha la pretesa di modernizzare un capolavoro che possiede delle solidissime basi teatrali soprattutto per un musicista come Verdi considerato tra i drammaturghi più importanti di tutto l’800 italiano. E’ una scelta che ormai non fa più nemmeno notizia con la quale i registi cercano di lasciare il segno su uno spettacolo e con la quale gli spettatori ormai sono rassegnati a fare i conti. Varrebbe la pena tralasciare questo aspetto ma per rispetto ai nostri lettori dobbiamo riferire.
La Carrasco ha abbandonato l’originale ambientazione palermitana per spostare l’attenzione verso un ambiente senza tempo. La scena che, sempre su dichiarazioni della Carrasco, dovrebbe raffigurare una cava di pietra ma alla vista è apparsa più come una città costruita sullo stile ‘razionalista’ simile a quello del nostro, cosiddetto, ventennio e realizzata con elementi mobili collocati a seconda dell’azione. L’ambiente, tranne qualche eccezione, era pressoché costantemente scuro, spesso intriso di grigiore, togliendo quel colore ‘mediterraneo’ che la prodigiosa partitura verdiana evoca in più punti. I costumi erano ispirati a varie epoche, tutte ben riconoscibili temporalmente: i francesi erano vestiti da soldati di epoca franchista con la scena del carcere che rappresentava varie torture sullo stile ESMA di Buenos Aires all’epoca della dittatura militare senza tralasciare evidenti e, poco eleganti, stupri dei soldati a danno delle ragazze siciliane. Per il resto costumi attuali o di fine ‘900. Piuttosto statica la regia che penalizzava i contrasti tra le varie parti in causa che suggellava una parte visiva ben lontana da quegli afflati romantici che ispirarono Verdi penalizzando quel carattere ‘risorgimentale’ che ispirò il musicista; ideali che in quel 1855 erano ancora ben vivi nella cultura e nella società italiana.
Per la parte danzata va fatta una riflessione a parte. Come dichiarato dalla stessa regista, l’idea originale era quella di espungere questa parte dall’esecuzione nonostante sia acclarato elemento importante per un’opera come Les vêpres siciliennes che si esplicita nella tarantella del secondo atto e nel balletto a tema Le quattro stagioni del terzo atto molto ben circostanziato nella preziosa partitura. Per questa rappresentazione le danze sono state eseguite integralmente con una coreografia realizzata dalla stessa Carrasco assieme a Massimiliano Volpini presentando una soluzione di compromesso: ognuna delle quattro parti focalizzava aspetti ‘personali’ di uno dei quattro personaggi principali ma realizzato in maniera ‘pantomimica’ con elementi esteriori che disturbavano la visione e l’ascolto omettendo del tutto la presenza di solisti etolies della danza, per definizione indispensabili ad un balletto di questa portata che, ricordiamo, alla prima fu coreografato da Lucien Petipa. Il Corpo di Ballo e gli allievi della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera hanno validamente realizzato quanto loro imposto.
In definitiva una riflessione. Conosciamo Valentina Carrasco come valida artista, figura importante nel mondo del teatro di oggi. Dalle sue dichiarazioni si capisce bene che non apprezza una forma di teatro come il Grand Opera. Le opinioni sono tutte rispettabili ma, forse, la sua inventiva e la sua creatività può essere messa a disposizione per valorizzare altre forme di spettacolo che in campo teatrale sono numerose e tutte di straordinario e stimolante contenuto.
Di altro livello la parte prettamente musicale. Daniele Gatti, che con l’occasione ha iniziato la sua attività di Direttore musicale del teatro romano, ha saputo valorizzare tutte le preziosità di questa partitura ed al quale siamo anche grati per aver consentito l’esecuzione ‘integralissima’ dell’opera curandola nei minimi particolari grazie alla professionalità degli strumentisti dell’Orchestra del Teatro dell’Opera. Grande prova del Coro guidato da Roberto Gabbiani che ha saputo dare spessore alla sua difficilissima parte.
Concludiamo con le due compagnie di canto, diverse per le quattro parti principali. Nella prima, da noi ascoltata nella recita del 19 dicembre, il soprano Roberta Mantegna nei panni di Hélène ha fornito una prova del tutto convincente in quanto a spessore vocale, sicurezza dell’intonazione e realizzazione della linea di canto creata da Verdi per uno dei fenomeni dell’epoca, la tedesca Sophie Crüwell, meglio nota come Sofia Cruvelli, molto stimata da Verdi al punto di tollerarne anche i capricci da primadonna. Per la Mantegna, che ricordiamo è valido prodotto del progetto Fabbrica del Teatro dell’Opera, un lusinghiero successo personale. Henri era l’americano John Osborn, tenore esperto in questo genere di repertorio cha ha messo bene in evidenza la sua facilità nel frequentare il registro acuto regalandoci un personaggio del tutto credibile. Michele Pertusi è stato un Jean Procida ‘nobile’ nel portamento e nell’emissione ben inserito scenicamente nell’azione anche nel rendere la figura di uomo ‘oltranzista’ dedito al raggiungimento dello scopo. Roberto Frontali ci ha dato un Guy de Montfort scenicamente e vocalmente di buono spessore.
Il secondo cast, ascoltato il 17 dicembre ha mostrato qualche disomogeneità nell’insieme. Più convincete di tutti è stato il tenore Giulio Pelligra Henri anch’esso incline verso il registro acuto anche se alcune emissioni sono risultate un po’ opache. Hélène era il soprano Anna Princeva una voce ben educata ma portata più per il repertorio leggero che non per quello prettamente verdiano a scapito dell’autorità scenica del personaggio. Gli altri due cantanti maschili, Giorgio Caoduro Montfort e Alessio Cacciamani Procida hanno mostrato qualche difficoltà nel dare l’impronta ‘nobile’ dei personaggi loro assegnati.
Per le altre parti c’erano Stefano Fiore Thibault, Francesco Pittari Daniéli, Daniele Centra Manfroid, Alessio Verna Robert, Dario Russo Le sire de Béthune oltra a due altri cantanti provenienti dal progetto Fabbrica Irida Dragoti Ninette e Andrii Ganchuk Le comte de Vaudemont.
Il pubblico convenuto numeroso presso il Teatro dell’Opera per assistere alle recite prima citate ha salutato tutti gli interpreti con lunghi e convinti applausi decretando un successo personale a Daniele Gatti che ha iniziato nel migliore dei modi questo suo nuovo, prestigioso, incarico.
Claudio LISTANTI Roma 23 dicembre 2019