di Antonio E.M. Giordano
Se è vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli cerulei di Placido Scandurra lasciano trasparire la profondità del suo percorso di ricerca spirituale e artistica, che nella sua esperienza biografica sono assolutamente indissolubili. Impossibile non restare affascinati dalla sua vastissima cultura mentre spazia tra le culture occidentali e orientali, frutto di lunghissimi soggiorni in India e di approfondite letture delle fonti sapienziali in sanscrito dei Vedá fino alla letteratura critica di storici delle religioni (del calibro di Henri-Charles Puech, Jean Daniélou et alia).
Nato nel 1947 ai piedi dell’Etna, a Santa Maria di Licodia, si forma prima all’Istituto d’arte di Catania e poi a venti anni alla Scuola Libera del Nudo presso l’Accademia di Belle Arti di Roma nonché ai corsi d’incisione alla Scuola di Arti Ornamentali in via di San Giacomo. Nel 1972 consegue il diploma presso l’ICR (Istituto Centrale di Restauro ed eserciterà anche la professione di restauratore per la Soprintendenza ai Beni Artistici di Roma) con il quale due anni prima partecipa come restauratore di reperti archeologici alla missione in Siria del prof. Paolo Matthiae a Tel Mardikh, alla scoperta di Ebla e delle sue tavolette cuneiformi e statuette di idoli femminili, per le quali nascono disegni, acquerelli e la serie di incisioni La Grande Madre da Tel Mardikh.
La mostra ARKÉtipi & MATrici #1: Placido Scandurra a mia cura, dal 1 al 16 luglio alla Fortezza Spagnola di Porto Santo Stefano, prende spunto dalla ricerca sull’archetipo come forma d’espressione artistica, iniziata intorno al 1975, quando Scandurra subisce una crisi d’identità culturale e spirituale. La ricerca del Sé interiore lo porta allo studio delle proprie radici e di quelle dell’uomo in generale. Dalla lettura de Gli archetipi e l’inconscio collettivo di Carl Gustav Jung, Placido arriva alla paleopsicologia e all’interesse per gli archetipi, all’immagine primordiale e, per derivazione, in mitologia, alle forme primitive che sono alla base dei miti e delle religioni. Ogni individuo pertanto si rapporta con l’archetipo femminile o maschile risiedente nel suo inconscio.
Da tutto ciò Scandurra trae ispirazione per una pittura di matrice alchemica e surreale, passando da una rappresentazione figurativa della realtà a una lettura antropomorfa archetipale nella quale sono fusi (e con/fusi) elementi organici e inorganici, rendendo così visibile l’invisibile, ossia un mondo che emerge dall’inconscio collettivo. Al contempo riscopre gli aspetti simbolici universali dell’arte attraverso una continua comparazione tra le culture religiose d’Oriente e d’Occidente che, secondo Scandurra, hanno aiutato l’uomo nella sua evoluzione spirituale e morale durante questa lunga era di confusione (detta in sanscrito Kaliyuga ‘periodo buio’), dove i conflitti esterni o del macrocosmo rispecchiano quelli interni dell’uomo come microcosmo. Questa ricerca formale dell’arte di Scandurra – che tenta di sondare la dimensione simbolica per svelare l’essenza delle cose, osmosi tra animale e vegetale, minerale e spirituale, quasi un totem cosmico – mira attraverso gli archetipi a esorcizzare quest’epoca conflittuale e a liberare l’uomo dalla catena della vita materiale ed “illusoria” (maya) per condurlo alla ‘via di centro’ o del ‘distacco’, riscoprendo e rivelando gli archetipi divini nel cammino della propria esistenza. Per circa quaranta anni l’artista ha insegnato Discipline pittoriche, promuovendo l’arte incisoria in Licei artistici, da Arezzo a Civitavecchia, Roma e infine a Tivoli, scegliendo di vivere e operare nella sua casa/studio in San Polo de’ Cavalieri.
A Parigi la Galerie Camille Renault al 133 Boulevard Haussmann (nei pressi dell’Étoile con l’Arc de triomphe) ha dedicato tre personali nel 1979, 1981 e ancora due anni dopo, il cui successo è testimoniato dalla recensione su Le Figaro e da un servizio/intervista della televisione francese. Molti i grandi critici e storici dell’arte e artisti che hanno scritto su di lui: da Carlo Bertelli a Claudio Strinati, da Andrea Spadini a Orfeo Tamburi, da Claudio Crescentini a Giorgio Di Genova, da Pasquale Rotondi a Sergio Rossi.
Qualcuno invece, forse troppo snob, non gli ha perdonato la sua triplice attività: non tanto quella artistica e di docente di discipline pittoriche ma quella di restauratore, senza ricordare che anche Bernini, Algardi, Duquesnoy e Cavaceppi (soltanto per fare i nomi più noti) affiancarono all’attività artistica quella di restauratore ma non per questo alcuno osò mai mettere in dubbio il loro valore creativo.
di Antonio E. M. GIORDANO roma 29 giugno 2017