di Giorgia TERRINONI
Pollock e la scuola di New York. Fino al 24 Febbraio l’Ala Brasini del Vittoriano accoglie un nucleo di opere custorite nel Whitney Museum di New York; attraverso circa 50 capolavori si vuol far rivivre il mondo dell’espressionismo astratto. Jackson Pollock, Mark Rotho, Franz Kline, Hans Hoffman sono alcuni dei nomi le cui opere sono a disposizione del pubblico all’interno della mostra. Tra queste vi è anche la celebre opera di Pollock denominata Number 27, tela di circa tre metri in cui si ha prova della coerenza asimmetrica propria dell’astrattismo.
“È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?”
L’ho già usata questa frase, tratta da L’Idiota di Dostoevskij. È una frase piuttosto celebre e frequentemente citata a sproposito. Mi piace molto la sua forma cristallina tanto quanto l’enigma irriducibile di cui si fa portavoce!
La verità è che faccio molta fatica, nel tempo e nel mondo in cui mi trovo a vivere, a parlare a cuor leggero di bellezza. Questo pensiero, in sé abbastanza banale, mi occorre per dirvi che mi sento a disagio a scrivere di arte contemporanea e dei suoi fatti. Anche perché – come avrà capito chi a volte mi legge – nutro molti dubbi circa la reale possibilità che la divulgazione nostrana dell’arte contemporanea possa incidere in qualche modo, aggiungendo un di più alla nostra conoscenza.
Insomma, se qualcuno a Roma ha voglia di (ap)prendere qualcosa sulla bellezza, non posso suggerire quasi nulla di realmente contemporaneo e accessibile – ad eccezione, forse, di qualche deriva per le vie periferiche della street art (ma non chiedetemi di parlarvi in termini entusiastici del neonato murale ecosostenibile del Porto Fluviale)!
Invece, se non l’avete ancora fatto, posso suggerirvi di entrare nella penombra della chiesa di San Luigi dei Francesi per farvi illuminare da Caravaggio. Oppure di perdervi attraverso le meraviglie di Palazzo Barberini dove, attualmente, potete anche vedere esposte poche preziose opere di Mantegna e alcune magnifiche Madonne con Bambino trecentesche.
Certamente questi ultimi due esempi hanno poco a che fare con l’arte contemporanea, ma offrono alla riflessione contemporanea molti più spunti di quanto non facciano i pacchetti che approdano al Vittoriano. Mi sono già espressa sulla mostra di Warhol. Non dissimile è il mio giudizio su quella dedicata a Pollock e alla Scuola di New York.
Anche Pollock e compagni sono usati per vendere intrattenimento. Un intrattenimento peraltro di bassa lega, perché bluffa sul suo essere intrattenimento. Non è certo la prima volta che ciò accade – e l’arte contemporanea non è la sola vittima sacrificale – ma resta il fatto che questa coazione a ripetere è alquanto demenziale. Temporalmente, però, ci stiamo allontanando sempre più da quella straordinaria rivoluzione artistica americana che, a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, viene portata avanti da Pollock e altri importanti artisti. E mi pare assai grave che, visitando una mostra dedicata a un siffatto grande fenomeno culturale e artistico, non possiamo – nemmeno idealmente – accorciare questa distanza. La vera conoscenza accorcia le distanze, in particolare laddove – abbiate pazienza e passatemi la seconda banalità della pagina – l’ignoranza, intesa come incultura, frappone tra noi e il mondo una serie di oceani in tempesta. La conoscenza ci mette in mezzo a crocevia storici e geografici e ci aiuta a non restare intrappolati in un cul de sac.
Questo e solo questo è quanto ho da dire sull’esposizione dedicata a Pollock & Co.
Anche per questa serie di ragioni, l’unico evento romano che racconto senza provare disagio è la mostra dedicata alla storia dell’animazione di casa Pixar. La rassegna è ospitata al Palazzo delle Esposizioni, è anch’essa un pacchetto che gira il mondo, ma un pacchetto ben congegnato e presenta alcuni elementi d’interesse.
Breve storia della Pixar (mi è capitato che qualcuno fraintendesse e pensasse gli stessi consigliando una mostra sulla pizza!). La Pixar è una nota casa di produzione cinematografica statunitense, fondata nel 1979 come divisione della LucasFilm e specializzata nella grafica digitale. Nel 1986, è acquistata da Steve Jobs e destinata all’elaborazione di hardwares. In particolare, la Pixar idea una potente macchina multifunzionale, acquistata tra gli altri dalla Walt Disney Company; la Disney la sperimenta per creare un software, usato per la realizzazione de La Sirenetta. L’anno successivo, John Lasseter, artista dell’animazione particolarmente attratto dalle potenzialità offerte dalla computer grafica, approda alla Pixar. Da questo incontro nasce un’importante storia d’amore! Causa azienda in passivo, nei primi anni Novanta, viene avviata una parziale liquidazione della Pixar. In questo momento, però, dal cielo piove un contratto con Disney che si rivelerà risolutore: Pixar si accorda con Disney per la distribuzione di tre film realizzati completamente in CGI. Il primo è Toy Story. Il resto è storia!
Di che cosa parla la mostra? Non certo di riconversioni aziendali, passività e liquidazioni! Ma del lavoro, molto poetico e molto creativo, che è all’origine di una serie di capolavori dell’animazione computerizzata.
In mostra c’è uno spazio dedicato ai primi cortometraggi realizzati in casa Pixar. Ce n’è uno in particolare, datato 1989 e intitolato Knick Knack (gingillo, soprammobile), del quale mi piacerebbe parlare. Il cartone racconta una breve avventura cavalleresca: il classico souvenir con il pupazzo di neve intrappolato nel globo giace su una mensola. Su un’altra mensola, più in basso, c’è un gruppo nutrito di cimeli provenienti da paesi soleggiati. Il pupazzo s’invaghisce di una bionda e procace fanciulla e cerca di raggiungerla in ogni modo. Finalmente uscito dal globo, atterra però in un acquario. La sua disperazione viene attenuata dall’improvvisa visione di un’avvenente sirena. Egli cerca allora di raggiungere questa seconda apparizione, ma il globo gli piomba addosso, intrappolandolo nuovamente a pochi passi dalla meta. In poco meno di tre minuti e in un bilanciato mix d’ironia e tragedia, John Lasseter ci racconta una storia irrimediabilmente umana di disperazione, una storia che ha che fare con molte cose: la cultura popolare dell’epoca (il beneamato kitsch), il colpo di fulmine condito con la vacuità di certo amore, l’impossibilità di superare alcuni confini, ma pure l’insopprimibile bisogno di lottare per provarci; l’insostenibile frustrazione connaturata al senso di fallimento …
Ho visto tutti i film prodotti dalla Pixar. Cortometraggi e lungometraggi. Li ho visti e rivisti e l’ho fatto in situazioni diverse della vita. Da sola e in compagnia. Certamente ce ne sono alcuni che amo più di altri, ma quasi tutti mi hanno, a vari livelli, conquistata. Ad avermi conquistata, sempre e comunque, credo sia stata quell’abilità propria del team Pixar – forse si tratta di una vera e propria poetica – a costruire storie intrise di cultura popolare eppure sature anche di riferimenti assai colti, a costruire mondi verosimili, eppure incredibili.
Tra il primo capitolo di Toy Story (1995) e Coco (2017) c’è un abisso in termini di differenze, sia tematiche sia tecnologiche. Eppure la genesi di entrambi scaturisce da un processo artistico poliedrico che attinge dal reale e lo manipola reinventandolo. Il bassotto giocattolo Slinky è sì un pupazzo, ma un pupazzo che condensa tutte le caratteristiche fisico-comportamentali di quel particolare tipo di cane e le esteriorizza. L’invenzione della molla per congiungere la parte sommitale del corpo a quella terminale descrive il comportamento fisico del bassotto più di quanto lo farebbe un testo specialistico. Ma, allo stesso tempo, trasforma il bassotto in un’icona. Faccio un altro esempio. L’immaginario messicano che è tra i protagonisti di Coco, a cavallo tra la vita terrena e quella dell’oltretomba – messe in contatto in occasione della festa del Dia de Muertos – è antropologicamente ineccepibile. Eppure trascende l’antropologia e diventa quasi fantascienza. Viviamo in anni in cui le produzioni televisive di buon livello lanciano serie TV che celebrano per lo più le vite scatenate e immorali degli antieroi. Al momento – per ragioni anche legate alle cronache recenti – in cima alla classifica degli antieroi venerati ci sono i narcotrafficanti. Ora, non c’è una serie TV, per quanto ben congegnata, che riesca a restituire il vero del contesto geostorico e culturale in cui agiscono i narcotrafficanti. Tra Bolivia, Colombia, Guatemala e Messico quasi non c’è differenza!
La rassegna della Pixar ha di buono il fatto che mostra al visitatore una serie nutrita di opere che descrivono la genesi creativa di alcuni capolavori dell’animazione moderna: i disegni, i dipinti, gli acquarelli, i calchi e i modelli raccontano coerentemente e correttamente una storia, non esibiscono solo una maestria fantasiosa. Che cosa racconta, invece, una proiezione solo apparentemente scenografica – perché vagamente immersiva – di un dripping di Pollock? Racconta solo l’assenza del dripping di Pollock!
Giorgia TERRINONI Roma novembr 2018