di Sergio ROSSI
Un triplice autoritratto di Jacopo Pontormo
«Ebbe il Puntormo bellissimi tratti [fig.1] – scrive Giorgio Vasari – e fu tanto pauroso della morte, che non voleva, non che altro, udirne ragionare, e fuggiva l’avere a incontrare i morti. Non andò mai a feste, né in altri luoghi dove si ragunassero genti, per non essere stretto nella calca e fu ogni oltre tendenza solitario».
D’altro canto, per chi aveva perduto, in drammatica sequenza, la madre all’età di sei anni, il padre a quella di undici, il nonno e la nonna cui era stato affidato da orfano rispettivamente a tredici e quindici e infine la sorella, unica superstite della famiglia a diciotto, non ci si poteva certo aspettare un sereno atteggiamento nei confronti della vita.
Forse messer Giorgio esagera un po’ quando afferma che l’abitazione che ad un certo punto il Pontormo s’era fatto costruire aveva «più tosto la cera di casamento da uomo fantastico e soletario che di ben considerata abitura: conciò sia che alla stanza dove stava a dormire e tal volta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale entrato che egli era, tirava su con una carrucola, a ciò nessuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa». Ma che egli dica sostanzialmente il vero ce lo conferma lo stesso diario del pittore, il famoso Libro mio[1], dove Jacopo annotava con maniacale meticolosità quello che mangiava, quello che defecava e quello che disegnava o dipingeva e per di più tutto di seguito e mettendoli assolutamente sullo stesso piano.
Ecco ad esempio quanto annota nel luglio del 1555:
«giovedì mattina cacai dua stronzoli non liquidi e drento n’usciva che se fusino lucignoli di bambagia, cioè grasso bianco; e asai bene cenai in San Lorenzo un poco di lesso assai buono e fini’ la figura»;
mentre nel marzo dell’anno seguente scrive «domenica fu pichiato da Bronzino e poi el dì da Daniello: non so quello che si volessino» e la domenica seguente
«Bronzino mi voleva a desinare, e turbandosi mi disse: – e pare che voi vegnate a casa uno vostro nimico – e mi lasciò ire»
tutte frasi che confermano di fatto le affermazioni vasariane circa l’ipocondria del nostro pittore.
Ma come tutto questo si riflette nella sua pittura?
Per rispondere a questa fondamentale domanda devo innanzi tutto premettere che, a mio avviso, se è senz’altro da evitare la tentazione di considerare meccanicamente l’arte come uno specchio della psiche o viceversa, non si può nemmeno fare finta che i due termini siano del tutto indifferenti o non comunicanti tra loro. E se, inoltre, il ritratto che del Carucci fornisce il Vasari, quello cioè di un grande pittore che progressivamente regredisce verso “bizzarie e fantasticherie” sempre più astruse è in buona parte dettato dal desiderio di sottrarre l’artista dall’accusa di filo luteranesimo, se non di eresia tout court, e quindi di giustificare in definitiva lo stesso Cosimo I che fino all’ultimo lo ha sostenuto[2], se tutto questo è sicuramente vero, è altrettanto vero che comunque in Jacopo una vena di nevrosi e di alienazione che si riverbera nella pittura, soprattutto man mano che si procede negli anni, sussiste.
D’altra parte è proprio il nostro artista che, in un suo celebre testo in risposta alla sollecitazione di Benedetto Varchi circa la superiorità tra pittura e scultura scrive che il preferire un’arte piuttosto che un’altra è
«cosa in sé tanto difficile, che non la si può disputare e manco risolvere, perché una cosa sola c’è che è nobile, che è nel suo fondamento, e questo si è nel disegno, e tutte quante l’altre ragioni sono deboli rispetto a questo (vedetelo che chiunque ha questo, fa l’una e l’altra bene)».[3]
Dopo aver ribadito il valore nobilitante del disegno, Jacopo passa a parlare poi dei disagi che deve sostenere il pittore, affermando che mentre la scultura
«tiene l’uomo più sano, fagli migliore complessione, el pittore è el contrario: male disposto del corpo per le fatiche dell’arte [ovviamente si tratta di fatiche intellettuali, che finiscono col nuocere anche alla salute psichica, come del resto al Pontormo è accaduto realmente] più tosto fastidi di mente che aumento di vita, troppo ardito, volonteroso di imitare tutte le cose che ha fatto la natura co’ colori, perché le paiano esse, e ancora migliorarle, per fare i suoi lavori ricchi e pieni di cose varie, facendo dove accade – come dire – splendori, notte con fuochi e altri lumi simili, aria, nugoli, paesi lontani e da presso, casamenti con varie osservanze di prospettiva, animali di tante sorti, di tanti vari colori, e tante altre cose che è possibile che una storia che facci vi s’intervenga ciò che fe’ mai la natura, oltre a – come io dissi sopra – migliorarle e co’ l’arte dare loro gratia, e accomodarle e comporle come le stanno meglio»[4].
Alienazione, nevrosi e “sdoppiamento”, da leggersi in chiave psicologica, oltre che esclusivamente stilistica, sono proprio alcune delle possibili chiavi di lettura di tutta l’arte pontormesca. E proprio l’ultima delle componenti prima citate compare già nella giovanile Sacra Conversazione dipinta nel 1518 nella chiesa di San Michele Visdomini per la cappella funeraria di Francesco di Giovanni Pucci [fig.2].
Qui assistiamo ad un complesso gioco delle parti dei vari personaggi raffigurati: innanzitutto nelle figure centrali del S. Giovannino che indica verso Gesù ma guarda altrove e dello stesso Bambino che tiene con la mano sinistra una sottile e rudimentale croce, tradizionale attributo del giovane Battista e che rappresenta, a quanto ne so, una rarità iconografica.[5] Perché se è vero che a volte, come ad esempio nelle raffaellesche Madonna del Belvedere e Madonna d’Alba Gesù tocca o addirittura sembra giocare con la croce che gli porge Giovanni è comunque sempre quest’ultimo che regge, ben saldo, il simbolo della Passione.
Esso, invece, in Pontormo, è di esclusiva pertinenza del Bambino. Il legame tra i due personaggi risulta così ribadito con particolare forza, data anche la straordinaria somiglianza dei due volti di fanciullo. Prendendo la croce dalle mani del Battista, come uno staffettista prende il testimone dal compagno di squadra che lo precede, il Cristo ribadisce nello stesso tempo il ruolo di Giovanni come suo predecessore e “testimone della luce”[6]. Ma poi, sulla sinistra, anche la figura di S. Giuseppe è come se si sdoppiasse in quella sottostante, sicuramente da identificare con S. Giovanni Evangelista, come attesta il libro aperto ch’egli tiene nella mano sinistra e dove sono ben leggibili alcune righe tratte appunto dal suo Vangelo: «Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Ioannes; hic venit in testimonium, ut testimonium perhiberet de lumine, ut omnes crederent per illum (I, 6-7) … et mundus eum non cognovit (10), ecc.»[7].
Inoltre, le quattro figure ora indicate, con l’aggiunta del S. Francesco inginocchiato in preghiera alla destra del S. Giovannino formano una sorta di piramide con al vertice la figura della Vergine assisa in trono. Tutti, tranne Francesco che guarda fisso verso il Bambino, si voltano verso una fonte luminosa esterna al dipinto che altro non è se non la luce della Grazia che sembra contagiare l’intero gruppo e conferisce all’opera un senso di mistica esaltazione escatologica del tutto in sintonia con l’atmosfera che si respirava a Firenze esattamente in quegli anni.
Ma sulla destra della tavola si può individuare un’altra piramide, rovesciata, formata dalla Vergine, da S. Francesco e da S. Jacopo. Nella figura di questo santo eponimo che si rivolge, unico tra i personaggi raffigurati, verso gli spettatori, il Berti ha poi giustamente individuato un precoce autoritratto del Pontormo[8]: inequivocabile è infatti la posa dell’effigiato e coincidenti i lineamenti del suo volto con le altre immagini note e non note del nostro pittore [fig.3]. Abbiamo qui dunque un esplicito riferimento autobiografico che verrà poi ripreso e sviluppato alcuni anni più tardi in quello che è il suo dipinto più celebre e inquietante, la cosiddetta Deposizione di Santa Felicita, che poi, in senso stretto, non è propriamente una Deposizione, non è un Trasporto, non è una Pietà, non è una Lamentazione, ma è piuttosto una commistione di questi temi in un unicum iconografico di sconvolgente originalità. Ma per comprendere appieno quest’opera dobbiamo rivolgerci ancora una volta al Vangelo secondo Giovanni, che Pontormo sicuramente conosceva, e più esattamente ai brani che concernono i momenti della Deposizione e del Trasporto, che occorre qui citare per intero:
«E stavano allato della croce di Gesù la madre di Lui, e la sorella della madre di Lui Maria di Cleopa, e Maria Maddalena: Or Gesù, vedendo la madre, e assistente il discepolo ch’egli amava [cioè lo stesso Giovanni], dice a sua madre: – Donna, ecco il figliol tuo -. Poi dice al discepolo: – Ecco la madre tua – E d’allora la prese il discepolo in casa propria… Or quand’ebbe preso l’aceto, Gesù disse: – E’ compiuto-. E chinato il capo, rese lo spirito […] quindi i soldati «a Gesù venuti, come videro Lui già morto, non fransero le gambe di Lui; ma un de’ soldati con lancia il costato gli aprì: E subito uscì sangue e acqua. E quegli che vide [lo stesso Giovanni] attestò; (e verace è la testimonianza di lui; ed egli sa che vero dice), acciò che voi crediate. Perché seguirono queste cose acciocché la Scrittura s’adempia: “Osso non sarà attrito di Lui”. E anco l’altra Scrittura dice “Vedranno in chi ferirono”. E dopo chiese a Pilato Giuseppe d’Arimatea (ch’era discepolo di Gesù, ma celato per la paura de’ Giudei) di poter tôrre il corpo di Gesù: e permise Pilato. Onde egli venne e tolse il corpo di Gesù. E venne pur Nicodemo, portando mistura di mirra e aloè quasi libbre cento. Onde presero il corpo di Gesù, e l’avvolsero in lino con gli aromi, com’uso è a’ Giudei seppellire»[9].
Innanzi tutto colpisce il ruolo che Giovanni attribuisce a sé stesso, quale autentico erede spirituale di Cristo: “ecco il figliol tuo…ecco la madre tua”, che, come presto dirò, a mio avviso Pontormo riprende nel suo dipinto ed in secondo luogo è molto interessante la definizione che viene data di Giuseppe d’Arimatea, quale “discepolo celato di Gesù” che può aiutarci ad identificare la figura sull’estrema sinistra nella quale Jacopo si ritrae[10], e cioè lo stesso Giuseppe[11]: anche il nostro artista, come abbiamo visto, era molto probabilmente se non un “luterano celato” comunque un valdesiano e neo savonaroliano proprio ai confini dell’eterodossia, e quindi questa identificazione, che certo in pochi erano in grado di comprendere, può aggiungere un ulteriore tassello ad una più completa definizione della personalità estremamente complessa e sfaccettata del Carucci e di come egli stesso volesse rappresentarsi.
Come è noto, il dipinto di cui ci stiamo occupando è la Pala d’altare della Cappella che Ludovico Capponi acquista nel 1525 nella chiesa di Santa Felicita: «In margine al documento che ne attesta la consacrazione, è indicato che la cappella, già dedicata a Maria Vergine Annunziata, passava adesso sotto il patronato della Pietà. Questo cambiamento, certamente ottenuto a partire dal 1525, era legato all’intenzione del nuovo proprietario d’acquistare una cappella funebre … Stando al Vasari, Ludovico Capponi si rivolse a Jacopo Pontormo per la decorazione pittorica della cappella su consiglio di Niccolò Vespucci. Il pittore, dopo averne vietato l’accesso, la scopre al pubblico dopo tre lunghi anni di lavoro, ovvero nel 1528».[12] Essa comprendeva una cupola con Dio Padre e quattro Patriarchi, poi distrutta nel Settecento; i quattro Evangelisti nei pennacchi, la cui ideazione spetta per intero al Pontormo ma la cui esecuzione si deve in parte al Bronzino;[13] la Pala d’altare su cui torneremo; l’affresco con l’Angelo Annunciante e la Vergine Annunciata su di una parete laterale.
Nell’insieme della Cappella, dunque, è racchiusa tutta la parabola divina ed umana di Nostro Signore, dal momento del suo concepimento a quello del suo supremo sacrificio per la Redenzione di tutta l’umanità peccatrice. Cominciamo, ancora sulla scorta del Costamagna, dall’affresco con l’Annunciazione: [fig.4] «L’artista non rappresenta più la tradizionale immagine dell’annuncio dell’angelo alla Vergine che partorirà il figlio di Dio, bensì il probabile istante successivo. L’arcangelo, sospeso in aria, si volta verso la sorgente luminosa che rischiara il corpo di Cristo nella pala. La Vergine volge allora lo sguardo nella direzione indicatale da questo chiarore ‘celeste’, e si sottomette con ciò alla volontà divina, intuendo al contempo la Passione cui è destinato suo figlio. Più specificamente, la sorgente luminosa marca il centro della pala, dove è raffigurata la mano del Cristo. Questa, tesa verso la madre, in virtù della posizione che occupa e dell’importanza che le è conferita, diventa la stessa mano di Dio che presiede al destino di ognuno. La morte redentrice del Cristo si vede così rivelata a Maria nel giorno stesso dell’Annunciazione».[14]
Venendo alla Pala d’altare, Pontormo, come abbiamo detto, non dipinge la Deposizione dalla croce e l’interramento nel sepolcro, bensì proprio le fasi che seguono e precedono questi due momenti: il Corpo di Cristo è già stato deposto dalla croce (che per questo non compare più nemmeno nel fondo della scena) ma non è stato ancora interrato nel sepolcro. Quindi di tutte le definizioni che sono state date di questo sublime dipinto, forse la più pertinente è quella di Trasporto verso il sepolcro, anche se i protagonisti non sono colti in azione ma piuttosto come bloccati in una dimensione senza tempo [fig.5], proprio come aveva genialmente intuito Pasolini in quel capolavoro assoluto che è La ricotta.
Trasporto, dunque e non Deposizione, come sostiene ancora buona parte della storiografia. E spostandoci al campo formale, anche quell’apparentemente casuale groviglio di corpi ha un proprio rigore compositivo in cui, ancora una volta domina lo schema della piramide o addirittura del rombo, con al vertice alto la figura della Vergine incinta, ai lati quelle di Giovanni Evangelista e Giuseppe d’Arimatea ed in basso il giovane inginocchiato, forse Nicodemo, come lascerebbe intendere il panno verde srotolato ai suoi piedi e destinato anch’esso ad avvolgere il corpo di Cristo: doppia piramide, dunque, doppia valenza di morte e resurrezione. E perno ideale dell’intera scena è Maria, “Mater dolorosa”, giovane quanto se non più del figlio, come nella michelangiolesca Pietà di S. Pietro:
Maria che prevede il futuro martirio più che viverlo ed è come se si sdoppiasse: in alto, ai vertici della Pala, nella figura della giovane incinta, malinconica più che dolente (dai sublimi toni dell’azzurro, del rosa e del pervinca) e che guarda proprio verso il Cristo, diafano e con le punte dei piedi livide come si addice appunto ad un morto; appena più in basso e sulla destra, nell’altra Maria [fig.6], poco più anziana ma molto più sofferente eppure luminosissima nelle sue vaporose vesti dal celeste al blu e sorretta, in alto, dal giovane Giovanni, reso con le tonalità molto più acide del verde e dell’arancio. Proprio l’Evangelista si sdoppia a sua volta nel giovane riccioluto che sostiene il corpo di Cristo e ne diventa in qualche misura l’erede spirituale e il testimone.
Veniamo così all’aspetto più rivoluzionario e misterioso (talmente misterioso da non essere stato finora compreso appieno) della nostra tavola, quello autobiografico. E non mi riferisco infatti solo alla figura di Giuseppe d’Arimatea, già individuata dal Berti come sicuro autoritratto pontormesco; a quell’uomo come senza età[15], con i capelli e la barba di un biondo tendente al bianco e che se ne sta in un angolo, quasi sofferente a rimirare la scena.
Mi riferisco anche alla figura di Gesù Cristo, in cui è da vedersi un altro autoritratto del Pontormo, che fra l’altro, al momento di dipingere questa Pala era trentatreenne, proprio come Nostro Signore quando fu crocefisso [fig.7]. E che anche questa figura sia un autoritratto lo conferma la somiglianza di questo volto con quello del S. Jacopo della pala Pucci già da noi analizzata. D’altra parte questo tema dell’autoritratto ad imitationem Christi, come ben sappiamo, non è esclusivo del Pontormo e tra i vari prototipi il più celebre è senz’altro l’autoritratto del Dürer ora al Prado, del 1498, che forse il Carucci può avere conosciuto attraverso qualche incisione.
Ma soprattutto è da rammentare come l’amico e compagno di stranezze del Nostro, cioè il Rosso Fiorentino, si autorappresenti in un Cristo dalla barba e dai capelli rosso fiammeggianti come i propri in almeno quattro occasioni e in un arco di tempo che va dal 1521 al 1540: la Deposizione della Pinacoteca Civica di Volterra; il Cristo morto ora a Boston; la Deposizione in S. Lorenzo a San Sepolcro; e la Pietà ora al Louvre.
Nella Pala Capponi Pontormo si raffigura dunque come Giuseppe d’Arimatea; come Cristo; ma anche come S. Giovanni. Se infatti guardiamo il volto del giovane Evangelista che sostiene le braccia del Redentore vediamo che anche questo adolescente ha i lineamenti simili a quelli degli altri due personaggi: anzi il suo viso e quello dei Cristo sono assolutamente coincidenti, come risulta dall’immagine formata proprio dalla sovrapposizione dei due volti che, grazie alla ricostruzione grafica di Jason Cardone posso ora mostrare senza possibilità di fraintendimento [fig. 8,9,10].
E se ruotiamo il volto di Giuseppe d’Arimatea e lo accostiamo a quello di Cristo e di Giovanni[16] abbiamo un’altra prova inconfutabile di trovarci davanti ad un triplice autoritratto. Jacopo si identifica pertanto nelle tre diverse età dell’uomo. Come era da giovinetto, nelle vesti di Giovanni, come era al momento del dipinto, nei panni del Cristo; come sarebbe stato in futuro in quelli di Giuseppe d’Arimatea, spettatore dei probabili, venturi, patimenti del mondo [figg.11,12,13]. Ma siamo anche di fronte ad una sottile resa psicologica dei diversi stati dell’animo: lo stupore innocente, la sofferenza consapevole, la meditazione malinconica.
Tornando, prima di concludere, all’atmosfera di magica sospensione di cui si diceva in precedenza, essa è quella che precede un evento miracoloso in cui la luce è una luce soprannaturale che tutto pervade e colora quasi ci fosse un’eclisse. E il giovane Evangelista, la dolente Maria, il supposto Nicodemo che guardano abbacinati ed attoniti al di fuori del dipinto, verso il sepolcro, intuiscono che qualcosa di miracoloso deve avvenire, ma non sanno ancora né cosa né quando.
Capolavoro, dunque questo, si sconvolgente originalità, colta, seppure in negativo, dal Vasari che osserva come Pontormo
“pensando a cose nuove, la condusse senz’ombre e con un colorito chiaro e tanto unito, che a pena si riconosce il lume dal mezzo e il mezzo dagli scuri”,
aggiungendo che Jacopo andava “investigando nuovi concetti e stravaganti modi di fare”.
Ma il grande aretino scrive nel 1568, in piena epoca controriformistica, in cui l’insistenza sul tema del valore salvifico della grazia per la redenzione dell’umanità peccatrice, specie alla luce delle dottrine apertamente “eretiche” che Pontormo svilupperà molto più tardi nel coro di San Lorenzo, avrebbe potuto, se pienamente compresa, far correre qualche pericolo al nostro Trasporto. Ed è per questo, e non certo perché non fosse in grado di comprendere l’assoluto valore della Cappella Capponi, che egli, a scanso di equivoci, si affretta a precisare che il Carucci per così dire, “non ci stava già più con la testa”, unico modo per preservarne la memoria e soprattutto per mettere al riparo da ogni possibile critica colui che di Pontormo era stato fino all’ultimo un grande mecenate ed estimatore e cioè lo stesso Cosimo I.
Sergio ROSSI Roma 27 maggio 2020
NOTE