P d L
Si è tenuta qualche giorno fa a Roma, alla Galleria Barberini, la presentazione dell’impegnativo volume dal titolo “Giulio Cesare Procaccini. Life and work” scritto da Odette d’Albo e Hugh Brigstocke. Il libro, redatto completamente in lingua inglese, si presenta come novità assoluta nell’ambito degli studi sulla pittura lombarda, dedicato com’è ad una straordinaria figura di artista di cui per la prima volta viene presentato il catalogo ragionato generale delle opere. A margine dell’evento, About Art ha incontrato Odette D’Albo, studiosa già nota come autrice di numerose importanti pubblicazioni in specie sulla cultura artistica lombarda tra fine ‘600 e ‘700.
-La prima cosa che vorrei sapere è perché il libro è a due mani, tu e Hugh Brigstocke?
R: Hugh ha studiato Giulio Cesare Procaccini a partire dagli anni ’70 e aveva intenzione di pubblicare una monografia sull’artista. Nel 2002 ha curato la mostra Procaccini in America a New York, riunendo molti dipinti del maestro in musei e collezioni private statunitensi. Giulio Cesare è molto amato negli USA: due dei suoi capolavori sono conservati al Metropolitan Museum di New York e al Nelson-Atkins Museum di Kansas City. A questi va aggiunta la splendida Maddalena in estasi alla National Gallery di Washington (fig. 1), ora esposta alla mostra Superbarocco alle Scuderie del Quirinale.
Il dipinto è stato realizzato per il patrizio genovese Giovan Carlo Doria, il più importante committente di Procaccini, basti dire che aveva nella sua raccolta oltre 60 opere del maestro. Ma per ritornare alla tua domanda, devo dire che nel catalogo della mostra di New York del 2002 Brigstocke aveva inserito una check list dei dipinti dell’artista da lui ritenuti autografi, ordinati per luogo. Da questo elenco sono partita io nel 2011, quando ho deciso di dedicare la mia tesi di dottorato a Procaccini, che stavo terminando alla fine del 2015. E’ stato allora che ci hanno presentati per collaborare insieme al progetto del primo catalogo ragionato del pittore.
-Tu avevi già studiato la pittura lombarda seicentesca? Mi puoi raccontare qualcosa di più della tua collaborazione con Brigstocke?
R: In precedenza, per la tesi di laurea specialistica, mi ero occupata di Giovanni Stefano Montalto, un artista attivo in Lombardia nella seconda metà del Seicento. Nel 2011 ho cominciato a pensare ad un argomento per la tesi di dottorato e ho deciso di concentrarmi su Procaccini, approdato, come me, a Milano dall’Emilia. Ero affascinata dalla bellezza delle sue opere, avevo capito che era un grande maestro ancora bisognoso di approfondimenti. Così ho deciso di fare una prima catalogazione dei suoi dipinti. Qualche anno dopo, nel novembre del 2015, grazie all’interessamento dell’antiquario Marco Voena – che qui voglio ringraziare pubblicamente perché ha finanziato il progetto, compresa una preziosa campagna fotografica realizzata ad hoc da Federico Manusardi– ho incontrato Brigstocke. Fin dalle prime battute della nostra conversazione ci siamo resi conto di avere una visione comune del pittore, che ci ha permesso di impostare il lavoro insieme come coautori. Per la pubblicazione abbiamo scelto di comune accordo Allemandi, uno degli editori più autorevoli a livello mondiale per la pubblicazione dei cataloghi ragionati; la lingua inglese è stata preferita per la caratura internazionale dell’artista e per facilitare la diffusione dello studio. La collaborazione con Brigstocke è stata molto intensa e proficua, nonostante lo scarto generazionale e qualche divergenza sulle attribuzioni, che emerge nelle schede ma non compromette il risultato finale. La più rilevante riguarda la Madonna con il Bambino e San Giovannino della National Gallery of Scotland a Edimburgo (fig. 2): secondo Hugh è di Procaccini e nel catalogo l’abbiamo inserita tra le opere autografe, mentre io propendo per Daniele Crespi.
Su questo dipinto il dibattito critico è ancora aperto ma, se pensiamo che su 197 dipinti autografi catalogati il disaccordo si concentra su uno solo di questi, mi pare comunque un eccellente risultato.
-Possiamo dire, insomma, per quanto ti riguarda, che il tuo interesse precipuo per Procaccini è andato avanti per ben 11 anni, dal 2011; è così?
R: Sì, effettivamente è così e l’interesse va avanti ancora oggi ! Mi sono occupata di Procaccini dall’estate del 2011, quando ho scelto di dedicare a lui la mia tesi di dottorato. Dopo la discussione dell’elaborato, nel marzo 2016, Brigstocke ed io ci siamo confrontati più o meno quotidianamente per oltre tre anni e mezzo e solo in lingua inglese (lui legge bene l’italiano, ma non lo parla) per cui devo riconoscere che è stata una fatica non da poco per me, ma anche un esercizio molto utile. Studiare un artista di fama internazionale mi ha anche permesso di viaggiare in tutto mondo, è stata una grande avventura e una vera e propria esperienza di vita!
-Ci puoi dire come avete organizzato la catalogazione delle opere e soprattutto come le avete valutate, specie quelle non documentate.
R: La ricostruzione è avvenuta per lo più per via stilistica, seguendo un criterio cronologico, naturalmente a partire dalle opere datate e documentate. Si può sintetizzare dicendo che nella carriera di Procaccini pittore si possono individuare, grosso modo, tre fasi, iniziando da un primo momento giovanile, passando alla maturità e infine al periodo successivo agli anni venti del Seicento, allorquando lo stile diviene più disegnativo e i dipinti sono caratterizzati da gamme cromatiche giocate sui toni delle terre. É verosimile che questo mutamento sia avvenuto anche in relazione all’apertura dell’Accademia Ambrosiana da parte del cardinale Federico Borromeo, avvenuta nel 1620.
-Si può ritenere Giulio Cesare Procaccini un pittore barocco?
R: Beh, in un certo senso sì. Procaccini è tra i primi artisti italiani attenti alla pittura di Rubens, le cui novità vengono recepite quasi in presa diretta. Questa influenza risulta evidente in particolare nella Trasfigurazione con i santi martiri (fig. 3) di Giulio Cesare oggi alla Pinacoteca di Brera, ma un tempo nella chiesa di San Celso a Milano, che risale al 1607 -1608. Ho studiato personalmente l’opera individuando committente e datazione (Cfr. “Nuovi Studi” n. 22, 2016; N.d.R.). Nella parte bassa della pala emerge come Procaccini guardi la famosa pala della Trinità con la famiglia Gonzaga di Rubens a Mantova, esposta nel 1605, anche se l’impianto compositivo generale si rifà alla Trasfigurazione di Raffaello, un modello altissimo e più consolidato. Per tornare alla tua domanda, il termine barocco si addice in qualche modo a Procaccini: anche Roberto Longhi, di fronte alla sua monumentale Circoncisione, dipinta tra il 1613 e il 1616, oggi a alla Galleria Estense di Modena, ha scritto che per il senso di spettacolarità dell’opera si può parlare già di barocco, sebbene siano anni molto precoci.
-Quali sono le fonti ispiratrici di Procaccini? I suoi maestri?
R: A parte il padre, pittore di buona qualità ma di secondo piano e un po’ il fratello Camillo, da cui però mantiene sostanzialmente le distanze, i punti di riferimento di Procaccini sono i grandi protagonisti della pittura del Cinquecento a Parma, Correggio e Parmigianino, dei quali Giulio Cesare è l’autentico erede. Già all’inizio del Seicento Girolamo Borsieri, una figura che oggi potremmo equiparare ad un critico d’arte, contemporaneo a Giulio Cesare, parla di lui come l’erede dei due grandi maestri parmensi. Questo aspetto, unito al fatto che i Procaccini fossero bolognesi e che Malvasia ne ha tracciato le biografie nella Felsina Pittrice del 1678, consente di comprendere meglio l’ampia fortuna di Giulio Cesare in numerose collezioni europee già tra Seicento e Settecento.
-In effetti colpisce questa presenza in collezioni importanti nel mondo anglosassone e non solo…
R: Il motivo a mio avviso va ricercato nella piacevolezza e nella raffinatezza delle sue composizioni, date dall’imprinting parmense, sulle quali si innesta la grandiosità della lezione di Rubens. A questi caratteri di stile, Procaccini univa una prodigiosa sicurezza esecutiva, che gli permetteva di dipingere anche molto rapidamente. Ad esempio, gli inventari Doria ci descrivono una Madonna con il Bambino grande al naturale, identificabile con il dipinto oggi a Kansas City, realizzata, quasi incredibilmente, in due giorni. Un vero e proprio esercizio da “virtuoso”, in grado di destare l’ammirazione dei suoi committenti.
-Una specie di Luca Giordano ante litteram …
R: Sì appunto, ma diversi decenni prima.
–Vuoi descrivere quali novità – se ci sono– riguardo la figura e la vita di Giulio Cesare Procaccini possiamo riscontrare in questo volume così ponderoso?
R: Innanzitutto mi piace sottolineare che la figura dell’artista non era mai stata analizzata secondo un profilo così unitario. In uno dei due saggi che ho scritto all’interno del volume mi sono occupata in particolare del rapporto di Procaccini con i suoi committenti e collezionisti in vita, con un approccio un po’ diverso rispetto a quanto si riscontra in altre monografie. Aver riletto il pittore da questa prospettiva mi ha consentito di chiarire ulteriormente come Procaccini fosse un artista di rilevo internazionale, impegnato per corti di primo piano. Oltre a Giovan Carlo Doria a Genova, i cui legami con il pittore erano già stati messi a fuoco in precedenza, sono emersi rapporti con i Medici, i Savoia, i Gonzaga e in particolare con un governatore spagnolo di Milano.
-Mancano però committenze romane, cioè di una realtà che all’epoca era certamente il centro focale delle arti.
R: E’ vero, ma c’è una ragione precisa, legata al gusto allora prevalente nella capitale. Questo aspetto si comprende grazie alla corrispondenza tra Antonio Mariani Della Cornia, un artista di fatto minore, e il cardinale Federico Borromeo, che gli commissionava copie dai grandi maestri, Raffaello, Michelangelo, ecc. Nel 1628 Della Cornia informa il Borromeo dello scarso apprezzamento dei pittori lombardi a Roma, a causa delle loro figure ‘stravaganti’ e dei contorni giudicati ‘più del naturale’. Ecco dunque che per Procaccini si deve parlare di una difficoltà dovuta non certo alla qualità delle sue opere, quanto piuttosto al gusto dei collezionisti romani. Un’eccezione non casuale, nella capitale, era la raccolta del cardinale Scaglia. Come attesta ancora una volta Della Cornia nel 1628, il prelato possedeva opere lombarde e di Procaccini, ma era di origini cremonesi. Allo scarso apprezzamento di Giulio Cesare a Roma si deve aggiungere il rifiuto di un suo dipinto da parte di una committenza fiorentina, l’Apoteosi di San Carlo Borromeo con San Michele Arcangelo, oggi alla National Gallery di Dublino (fig. 4). Una pala di grandi dimensioni, alta quasi quattro metri, esposta per una quarantina d’anni in Santa Maria in Traspontina a Roma, della quale ho ricostruito di recente le vicende della provenienza (Cfr. “Paragone”, n. 137, 2018; N.d.R.).
-Ecco, colpisce questo dato di fatto cioè la consuetudine dell’artista con dipinti di grandissime dimensioni, che mi pare un dato piuttosto tipico.
R: Hai ragione, Procaccini era abituato a dipingere opere di scala monumentale, la più grande è senza dubbio l’Ultima Cena nella chiesa della santissima Annunziata del Vastato a Genova, una pala incredibile di 4 metri e 80 cm x 8 metri e mezzo (fig. 5).
Una novità del nostro volume riguarda la probabile identificazione del committente del dipinto con il governatore spagnolo di Milano don Pedro de Toledo, V marchese di Villafranca del Bierzo, in carica nel capoluogo lombardo tra il 1615 e il 1618. Il Toledo, nipote del famoso viceré di Napoli, è il più grande collezionista di Procaccini dopo Giovan Carlo Doria: a lui si deve la commissione al pittore di un grande ciclo di tele con la Vita e la Passione di Cristo oggi diviso in varie sedi museali e in collezioni private in tutto il mondo.
-Come si è arrivati alla commissione dell’Ultima Cena genovese ?
R: Come ti dicevo, ho ricostruito la vicenda attraverso l’analisi di due manoscritti. Nel primo si faceva cenno al fatto che l’enorme tela fosse stata commissionata da ‘un Signore di Milano’, guarito da una grave malattia grazie alle cure di un frate del convento di Genova. Il dipinto era stato quindi un dono fatto per riconoscenza, ma il ‘signore di Milano’ avrebbe potuto essere chiunque. Nel secondo manoscritto si parlava invece di un ‘Governatore’ di Milano: visto che il dipinto è del 1618, quella figura coincide con don Pedro, in carica proprio allora. Un’ulteriore conferma è arrivata grazie al confronto con Javier Álvarez García, uno studioso spagnolo con cui ho collaborato negli scorsi anni, il quale mi ha indicato che alla fine del 1616 il Toledo era stato effettivamente molto malato, quasi in fin di vita, come risulta dalla corrispondenza di un ambasciatore del duca di Modena.
-Insomma, per tornare alla committenza della enorme tela, se non è la pistola fumante, poco ci manca.
R: Già, diciamo per essere cauti che ci sono ottime probabilità di aver chiarito la vicenda della commissione. Non è cosa da poco, se pensiamo che si fa luce sul dipinto-capolavoro dell’artista, un’opera che davvero lascia sbalorditi.
-Vorrei ritornare un po’ indietro e chiederti qualche nota in più sulla fase iniziale della vicenda artistica di Procaccini, di cui parlavi.
R: D’accordo: nella prima fase della sua carriera di pittore Procaccini si confronta soprattutto con Cerano, il vero protagonista della pittura a Milano tra fine Cinquecento e inizio Seicento. Possiamo dire che questo momento si conclude con i quadroni raffiguranti i Miracoli di San Carlo Borromeo, parte della serie commissionata dal Duomo di Milano in occasione della canonizzazione del santo, avvenuta nel 1610. Tuttavia Procaccini inizia la sua attività non come pittore, ma come scultore, lavorando in particolare negli anni novanta del Cinquecento nel Duomo di Milano e in Santa Maria in San Celso.
-Sono opere ancora in situ?
R: In parte sì. Per quanto riguarda le sculture in Duomo va precisato che, sebbene documentate, siano di difficile individuazione, mentre in Santa Maria presso San Celso si possono vedere due rilievi in facciata, molto rovinati, oltre agli angioletti che reggono la corona della Madonna scolpita da Annibale Fontana, all’interno del santuario (fig. 6). Nel 1991 Giacomo Berra ha dedicato una pubblicazione molto ben argomentata a Procaccini scultore, ricostruendo le vicende di molte commissioni. Il patrocinatore iniziale di Giulio Cesare nei cantieri milanesi è Pirro I Visconti Borromeo. Grazie all’appoggio di questa importante figura la famiglia Procaccini nel 1587 si era trasferita a Milano dall’Emilia, seguendo Camillo, al quale il Visconti Borromeo aveva affidato la decorazione dello splendido ninfeo di Lainate. Lo stesso Pirro I era poi tra i “deputati” della Fabbrica del Duomo di Milano, circostanza che ha naturalmente agevolato l’inserimento di Giulio Cesare in quel contesto.
-E poi come è avvenuto il passaggio da scultore a pittore?
R: É all’inizio del Seicento che Giulio Cesare decide di troncare quasi del tutto la sua attività di scultore, anche se anche successivamente in alcune occasioni viene convocato in quelle vesti. Ad esempio nel 1612 è Parma alla corte dei Farnese, dove esegue il modello per una delle statue equestri dei duchi Ranuccio e Alessandro destinate a Piacenza, in concorrenza con Francesco Mochi, che poi otterrà la commissione dei noti “Cavalli”.
-E il rapporto tra Procaccini e Federico Borromeo? Subisce anche lui e in che misura l’influenza controriformatrice di natura borromaica?
R: Procaccini ha un rapporto particolare con il cardinale Federico, il quale, per inciso, non ha in collezione dipinti suoi né dei suoi fratelli. Probabilmente la pittura di Giulio Cesare non era particolarmente affine al suo gusto, forse anche a causa di una più scoperta sensualità, tant’è vero che il cardinale sceglierà Cerano per l’insegnamento all’Accademia Ambrosiana. In effetti Giulio Cesare non si adegua particolarmente ai dettami del Borromeo, in realtà resta indipendente, porta avanti la sua pittura…
– È accaduto ad esempio che gli venisse rifiutato qualche dipinto? Magari ha avuto qualche problema con qualche iconografia non propriamente in linea coi dettami del tempo?
R: No, almeno stando a quanto finora noto non ha avuto problemi da questo punto di vista, o quanto meno non a Milano. E’ noto invece, e ne ho fatto cenno, il rifiuto fiorentino.
-Una domanda che mi viene ora da farti è questa: si è visto come Procaccini non ha avuto l’apprezzamento che forse avrebbe meritato a Roma, al contrario di un altro più noto lombardo arrivato nella capitale papalina alla fine del ‘500; questo potrebbe far credere che Giulio Cesare ignorasse del tutto quanto il genio di Michelangelo Merisi aveva seminato; è così?
R: No, anzi dico che Procaccini ha avuto modo di conoscere direttamente almeno un’opera di Caravaggio. Sotto questo aspetto è stata significativa la mostra L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri curata da Alessandro Morandotti, tenutasi alle Gallerie d’Italia a Milano tra il 2017 e il 2018, alla quale anche io ho preso parte. In quell’occasione sono state esposte, tra tanti altri capolavori, la Sant’Orsola del Merisi, quella di Bernardo Strozzi e quella di Procaccini (figg. 7 – 8 – 9) in una sorta più che di confronto, possiamo dire di dialogo.
La Sant’Orsola di Caravaggio si trovava, dal 1610, nella raccolta di Marco Antonio Doria, il fratello di Giovan Carlo e Procaccini aveva avuto modo di vederla verosimilmente durante il suo soggiorno a Genova del 1618. Giulio Cesare ha reinterpretato il soggetto in modo assai più teatrale ed enfatico, una lettura con cui anche Strozzi è più in sintonia, distante dalla magistrale sintesi drammatica del Merisi.
-Per concludere, se dovessimo dire quale è il lascito più importante e determinante dell’arte di Procaccini come potresti riassumerlo?
R: Certamente il suo influsso è stato determinante per lo sviluppo della pittura barocca lombarda e genovese, basti pensare ai Nuvolone o a Domenico Piola, ad esempio. Certo, non fu determinante per Roma. Forse, nell’ambiente artistico della capitale, può esserci qualche tangenza con Lanfranco. Tuttavia a mio modo di vedere Giulio Cesare Procaccini è il vero erede della tradizione emiliana. Il legame con la scuola di Parma e la sua precoce assimilazione della lezione rubensiana fanno sì che la sua cifra stilistica risulti del tutto personale e unica nel panorama della pittura italiana del primo Seicento.
P d L Roma 29 Maggio 2022