di Nica FIORI
Sei affascinanti siti archeologici della Soprintendenza Speciale di Roma, diretta da Daniela Porro, aprono le loro porte per un ciclo di visite guidate, dai primi di marzo fino alla fine di aprile.
In alcune giornate primaverili sarà possibile prenotarsi per visitare, sotto la guida di archeologi, dei luoghi unici, alcuni dei quali sono veri monumenti iconici della città, come la Piramide Cestia, il Tempio di Minerva Medica e i due templi del Foro Boario (quello rotondo dedicato a Ercole e quello rettangolare dedicato a Portuno), mentre gli altri meno noti sono la Basilica sotterranea di Porta Maggiore, le domus di Santa Croce in Gerusalemme, e il Mitreo Barberini (questi ultimi due siti sono di norma aperti, sempre su prenotazione, nel II e nel IV weekend del mese, il primo la domenica e l’altro il sabato). Sono tutti legati a storie, miti e memorie che permettono di immergersi nelle architetture simboliche e misteriose di una città che non smette mai di stupirci.
Per scoprire alcuni aspetti di questa Roma più segreta, potremmo cominciare dalla Piramide Cestia, la cui forma geometrica rimanda alle celebri tombe egiziane. Roma vantava un tempo più sepolcri a forma di piramide, ma solo questo è sopravvissuto, perché inserito nella Mura Aureliane, nei pressi di Porta San Paolo. Prima che fosse riportata alla luce l’iscrizione di Gaio Cestio, presente su due facciate, la Piramide veniva chiamata Meta Remi (Pietra di Remo) e contrapposta alla Meta Romuli (Pietra di Romolo), che si trovava vicino alla Basilica di San Pietro. Un importante restauro fatto fare da papa Alessandro VII Chigi nel 1663 è ricordato in un’iscrizione sulla facciata, nella quale è stata aperta all’epoca una porticina che, attraverso un cunicolo, immette nella cella funeraria. Questa stanza, alla quale si doveva accedere da un’altra porta, murata dopo la sepoltura del defunto alla maniera egiziana, ha una superficie di circa 23 mq ed è coperta da una volta a botte. È decorata secondo il cosiddetto III stile pompeiano con motivi a candelabri e figurine di ninfe su fondo bianco; nella volta sono quattro figure di Vittoria, mentre la raffigurazione dell’apoteosi del defunto al centro è andata perduta, così come l’urna cineraria che si doveva trovare all’interno. Il monumento, alto circa 36 m, è stato realizzato in marmo lunense tra il 18 e il 12 a.C. come tomba del ricco G. Cestio, membro dell’importante collegio sacerdotale dei septemviri epulones (i sette curatori dei banchetti sacri).
In seguito alla conquista dell’Egitto da parte di Ottaviano (30 a.C.), che da imperatore assumerà l’appellativo di Augusto (27 a.C.), l’arte e il gusto egizio ebbero una larga presa su Roma, paragonabile soltanto con l’égyptiennerie che dominò la Francia dopo la spedizione napoleonica nella valle del Nilo. Prima delle campagne di scavo condotte in Egitto dall’Ottocento in poi, furono proprio le scoperte archeologiche avvenute soprattutto a Roma a far conoscere in Europa l’arte egizia, dando anche un’impronta particolare all’architettura della città dei papi. Gli obelischi caduti furono risollevati e utilizzati per decorare le piazze cittadine e la stessa Piramide Cestia fu presa a modello per alcune tombe (per esempio i sepolcri piramidali della Cappella Chigi nella basilica di Santa Maria del Popolo), sicuramente suggerì qualche spunto a Giovanni Battista Piranesi per le sue decorazioni egittizzanti (pensiamo soprattutto alle incisioni dei Camini) e divenne anche luogo di rituali esoterici. Il monumento, anche se maltrattato dal tempo e dalle vicende umane (vi sono anche i segni di alcune fucilate, relative a combattimenti ed esecuzioni capitali), è strutturalmente integro e a breve sarà oggetto di lavori di riqualificazione nell’ambito del PNRR, insieme a tutta l’area archeologica di Testaccio.
In piazzale Labicano, nei pressi di Porta Maggiore, un anonimo ingresso su un muro di sostegno della ferrovia per Cassino-Napoli introduce nella “basilica sotterranea”, un luogo dove è possibile tuffarsi nella sottile malìa di un culto segreto e di un’arte raffinata.
La cosa più sorprendente in questa piccola basilica, risalente al I secolo d.C., è il gran numero di meravigliosi stucchi riproducenti alcuni miti greci che possono essere interpretati in chiave esoterica. Cosa che fece nel 1923 lo studioso francese Jérome Carcopino, ipotizzando l’appartenenza dell’edificio a una setta neopitagorica. Egli era arrivato a tale conclusione dopo aver letto un passo di Plinio il Vecchio in cui si parla di un’erba che aveva la proprietà di rendere irresistibile per l’altro sesso la persona che l’avesse trovata. Fu proprio per colpa di quell’erba che Saffo si innamorò perdutamente di Faone e, non essendo corrisposta, si suicidò gettandosi dalla rupe di Leucade. Dice Plinio che a questa leggenda credevano “non solo quelli che si interessavano di magia, ma anche i pitagorici”. Ebbene, poiché la raffigurazione della morte della poetessa occupa una posizione dominante tra le decorazioni della basilica, situata com’è nella parte superiore dell’abside, doveva avere un nesso con la dottrina che vi era professata. L’episodio sembra apparentemente in contrasto con l’etica pitagorica che non consente all’uomo di porre fine alla propria vita. Ma la morte di Saffo può essere interpretata come un rito che lei affronta con grande fede. Il salto nel mare è un simbolo di rinnovamento, e in questo senso lo si ritrova in altri racconti mitologici. Saffo non esprime quindi il dramma di chi si dà la morte volontariamente, ma è, come scrive Carcopino, “il classico esempio di una rigenerazione sacramentale e morale che trasforma gli iniziati”.
Molti altri sono i miti raffigurati, tra cui il Ratto di Ganimede, un Dioscuro che rapisce una Leucippide, il Ratto di Elena, ma ci colpiscono anche le raffigurazioni di vita quotidiana (scuola, palestra), le scene di riti (tra cui un sacrificio campestre offerto da Baccanti) e i motivi decorativi che vanno dalle palmette ai candelabri stilizzati, dai vasi agli arredi di culto disposti su mense, dalle Gorgoni alle sfingi rampanti, dalle Oranti alle Vittorie alate (Nikai), alcune delle quali sembrano quasi anticipare lo stile liberty.
È stato ipotizzato, immediatamente dopo la sua scoperta nel 1917, che la basilica appartenesse ai proprietari del terreno, che con tutta probabilità erano gli Statili, l’importante gens che si era affermata a Roma al tempo di Augusto con Tito Statilio Tauro, console nel 26 a.C., morto presumibilmente intorno al 10 a.C. Proprio all’epoca augustea sembra risalire l’edificio, eretto forse come ambiente funerario, e modificato in epoca successiva (al tempo di Claudio) da un membro aderente alla cerchia neopitagorica. La sua frequentazione è stata brevissima, stroncata dagli intrighi e dalle lotte per il potere che portarono, se non all’annientamento, alla decadenza della gens Statilia.
Un altro edificio che ci permette di immergerci nelle atmosfere di un culto iniziatico è il Mitreo Barberini, che prende il nome dal vicino Palazzo Barberini, ma fu rinvenuto in realtà nel 1936 nel seminterrato della palazzina Savorgnan di Brazzà. Ricordiamo che il culto misterico di Mitra, importato nell’impero romano dall’Oriente indo-iranico, avveniva in ambienti tenebrosi simili a grotte (spelaea) e l’iniziazione prevedeva sette livelli, ognuno posto sotto l’influenza di un pianeta. Letteralmente il nome iranico del dio significa “contratto” o “alleanza” e nel mondo indiano significa anche “amico”. Dunque Mitra è una divinità benefica, garante dei contratti, dell’alleanza tra gli uomini e dell’alleanza che unisce gli uomini agli dei, sancita da un sacrificio. È allo stesso tempo una divinità solare, associata alla corsa del sole nel corso della giornata e delle stagioni. La sua luce dà ordine al cosmo e alla vita sociale. Nelle rappresentazioni il dio appare vestito in abiti persiani: una tunica lunga con le maniche, un pantalone stretto alle caviglie, un mantello e un copricapo frigio tradizionalmente associato ai personaggi mediorientali e ai cavalieri d’Asia e d’Iran. Il suo viso è giovanile, imberbe e con i capelli ondulati che lo fanno assimilare alle rappresentazioni di Apollo, dio del sole.
Anche in questo piccolo mitreo, costruito in due fasi tra il I e il III secolo d.C., come in tutti gli altri esempi simili, è presente il motivo iconografico dell’uccisione del toro da parte del dio, ma stavolta non si tratta di una scultura, bensì di un dipinto (l’unico caso a Roma, confrontabile in Italia solo con quelli dei mitrei di Marino e di Capua). Alla tauroctonia fanno da contorno i due tedofori Cautes (con la fiaccola alzata a simboleggiare il giorno) e Cautopates (con la fiaccola abbassata a simboleggiare la notte), il Sole e la Luna e altre scene relative alla vita del dio, mentre nella fascia superiore sono dipinti i segni zodiacali. Ma è il Tempo, simboleggiato da un mostro con la testa leonina, a determinare con la sua forza divoratrice ogni azione. Esso è avvolto da un serpente, le cui spire alludono all’andamento ciclico dei moti celesti: un’evidente dimostrazione che il culto di Mitra era essenzialmente cosmico. Alcuni studi hanno individuato nell’uccisione del toro la rappresentazione simbolica di un cambiamento astronomico, e cioè dell’abbandono del punto equinoziale da parte della costellazione del Toro. È stato pure notato che, nell’atto del sacrificio, il dio assume una posizione analoga a quella con cui veniva raffigurato Orione. L’apparizione all’equinozio della costellazione di Mitra-Orione era vista infatti come un ponte, o meglio una “porta del cielo”, in grado di permettere il passaggio dall’umano al divino, aspirazione suprema di ogni iniziato.
Nell’area archeologica di Santa Croce in Gerusalemme sono visitabili degli ambienti relativi soprattutto a due domus di età costantiniana, costruite a ridosso delle mura Aureliane: ricche abitazioni che dovevano far parte di un più ampio quartiere costruito agli inizi del IV secolo d.C. per i dignitari della corte di Elena, la madre di Costantino, proclamata Augusta nel 324. Le due domus che ammiriamo nell’area dovevano essere a due piani, come si vede dai fori che sostenevano le travi del solaio, ma si è conservato solo il pianoterra, sullo sfondo affascinante delle arcate dell’acquedotto Claudio e delle Mura Aureliane.
La domus più importante, sulla sinistra, è detta “dei Ritratti” per la presenza dei busti, uno maschile e uno femminile (presumibilmente i proprietari) che ornano il pavimento a mosaico di due triclini, in mezzo a motivi floreali. L’altra domus, sulla destra della prima, è detta “della Fontana”, per la presenza di una fontana semicircolare rivestita da lastrine di marmo bianco. Entrambe furono distrutte e interrate in seguito ai lavori di innalzamento delle mura Aureliane voluti all’inizio del V secolo da Onorio, il primo imperatore romano d’Occidente. Del resto lo stesso Palazzo del Sessorio cadde in rovina dopo la morte di Elena, mentre si affermò il toponimo Jerusalem del sito per la presenza della chiesa che attirava i pellegrini per le reliquie della Croce e che divenne nel tempo una delle “Sette chiese” del celebre pellegrinaggio romano, da eseguire a piedi nell’arco di due giorni.
A partire dalla metà del XIX secolo, l’area di Santa Croce in Gerusalemme è stata adibita quasi esclusivamente a uso militare, con una vasta piazza d’armi centrale, attorno alla quale erano disposti numerosi fabbricati. Nell’ambito dei lavori di restauro e ristrutturazione di uno di questi edifici, nel settembre 2016 è stato rinvenuto un pavimento in mosaico. La scoperta è apparsa subito in collegamento con le due domus adiacenti ed è stata l’occasione per un intervento più ampio, uno scavo stratigrafico svolto nel maggio 2017, che ha portato alla luce tre ambienti, tutti pertinenti alla domus dei Ritratti di cui si è chiarita la planimetria.
La visita di queste domus è l’occasione per conoscere un’area archeologica affascinante, che comprende anche ciò che resta del circo Variano (un circo privato della dinastia severiana) e un’altra lussuosa domus affrescata del II secolo, appartenuta a Aufidia Valentilla.
Pure legato all’età di Costantino (IV secolo d.C.) è il cosiddetto Tempio di Minerva Medica, un maestoso edificio che svetta tra palazzi e binari in via Giolitti, nel rione Esquilino. In realtà non si tratta di un tempio, come fu erroneamente creduto per lungo tempo, ma di una sala monumentale inserita in una lussuosa residenza extraurbana che occupava in antico la zona, forse corrispondente al complesso degli Horti Liciniani o forse ai Pallantiani.
Ragione dell’equivoco potrebbe essere stata un’interpretazione delle fonti che indicavano un tempio di Minerva nell’area o il rinvenimento di un ricco corredo votivo dedicato alla dea, nella sua funzione salutare, nei pressi della vicina via Labicana.
L’edificio consiste in una vasta sala a pianta decagonale coperta da una cupola (25 m di diametro) con centro ribassato, solo in parte conservata. Sul lato nord si trova l’ingresso sovrastato da un arco a tutto sesto; sugli altri nove lati del perimetro si aprono delle nicchie semicircolari, che sporgono esternamente. Sopra gli arconi delle nicchie si eleva il tamburo con contrafforti negli angoli e dieci finestroni.
I muri perimetrali sono in laterizio e risalgono all’epoca di Massenzio e di Costantino. Alcune strutture accessorie sono in opus vittatum (tecnica costituita dall’alternanza di mattoni e tufelli) e sono conservate per l’altezza di circa un metro: risalgono probabilmente a una fase costruttiva poco posteriore e costituiscono le testimonianze superstiti di un nucleo edilizio annesso alla grande sala, oltre che di un intervento di consolidamento strutturale della cupola, anch’esso di poco successivo alla sua costruzione.
L’apparato decorativo non si è conservato. Le pareti, movimentate da elementi architettonici, quali trabeazioni, lesene e colonne, erano rivestite di marmi, la cupola di mosaici a pasta vitrea e il pavimento doveva essere almeno in parte in opus sectile (lastre di marmi colorati disposte a formare motivi geometrici).
In occasione di questa “primavera nell’archeologia” viene aperta anche l’area comprendente i due templi di Ercole Olivario (equiparato all’Ercole Vincitore venerato a Tivoli) e di Portuno, intorno a piazza della Bocca della Verità. Il complesso fa parte del Foro Boario, che prendeva il nome dal mercato del bestiame: un’area sacra e commerciale, nei pressi del primitivo Portus Tiberinus (il porto fluviale presso l’Isola Tiberina in un’area originariamene paludosa e in seguito bonificata). Agli antichissimi santuari dell’Ara Massima di Ercole, della Fortuna e della Mater Matuta, si aggiunsero in epoca repubblicana i due templi, che sono sopravvissuti in buono stato fino ai nostri giorni, perché nel Medioevo sono stati trasformati in chiese.
Quello più particolare è senza dubbio quello rotondo periptero con colonne corinzie, dedicato a Ercole, che un tempo veniva erroneamente detto “di Vesta”, mentre in realtà il tempio circolare della dea del fuoco sacro si trova nel Foro Romano. Il culto di Ercole nell’area era legato al fatto che proprio in questi luoghi il mitico eroe avrebbe lottato con il ladrone Caco per il possesso dei buoi di Gerione, che Caco gli aveva sottratto. Un antichissimo santuario, frequentato da mercanti fenici, greci ed etruschi, era in età protourbana dedicato a una divinità locale, assimilata al Melqart fenicio e in seguito a Ercole (Ara Massima di Ercole), in quanto divinità legata alla transumanza e ai commerci.
Il tempio rotondo risale al 120 a.C. circa, con rifacimenti significativi di epoca tiberiana (I secolo d.C.). Grazie all’iscrizione in un blocco ritrovato all’interno della cella, è stato possibile determinare a chi fosse dedicato il tempio (Hercules Olivarius), e anche il nome dell’autore della statua di culto, il greco Skopas minore, vissuto nel II secolo a.C. Quanto all’architetto, si pensa che possa essere stato Ermodoro di Salamina, lo stesso del tempio di Giove Statore (non conservato), che fu il primo realizzato in marmo. Il committente era un mercante di olio tiburtino, Marco Ottavio Erennio, tanto ricco da poter permettersi di usare il pregiato marmo pentelico, proveniente dalla Grecia. L’edificio conserva all’interno affreschi legati alla sua trasformazione in chiesa, dedicata nel XII secolo a Santo Stefano delle Carrozze e in seguito, nel XVII secolo, a Santa Maria del Sole. Fu riportato alla sua condizione originaria di tempio dai restauri operati da Giuseppe Valadier durante gli anni del governo francese (1809-1814).
Il tempio dedicato a Portunus (dio romano dei porti), molto ben conservato, è datato all’80-70 a.C., ma esistono tracce di epoche precedenti. Si presenta come un tempio di ordine ionico tetrastilo (4 colonne sul fronte) a pianta pseudoperiptera. Le colonne sono in parte in travertino e in parte in tufo (probabilmente un tempo intonacato per creare visivamente l’effetto del marmo). Anche questo tempio è stato trasformato in chiesa, con il nome di Santa Maria Secundiceri, poi cambiato in Santa Maria Egiziaca. Il ripristino dell’antico aspetto di tempio è avvenuto nel 1916.
Nica FIORI Roma 10 Marzo 2024
Calendario delle aperture:
FORO BOARIO TEMPLI DI ERCOLE E DI PORTUNUS
Marzo: 3 e 17
Aprile: 7 e 21
Giorno di apertura: domenica
Orario: 10 per i singoli – 11.30 gruppi
Posti disponibili 30 per fascia oraria
BASILICA SOTTERRANEA DI PORTA MAGGIORE
Marzo: 1, 8, 15, 22
Aprile: 5, 12, 19, 26
Giorno di apertura: venerdì
Orario: 10 e 12 per i singoli – 11 gruppi
Posti disponibili 15 per fascia oraria
PIRAMIDE DI GAIO CESTIO
Marzo: 2 e 16
Aprile: 6 e 20
Giorno di apertura: sabato
Orario: 10 e 12 per i singoli – 11 gruppi
Posti disponibili 30 per fascia oraria
TEMPIO DI MINERVA MEDICA
Marzo: 10 e 24
Aprile: 14 e 28
Giorno di apertura: domenica
Orario: 15 per i singoli – 14 per i gruppi
Posti disponibili 25 per fascia oraria
MITREO BARBERINI
Giorno di apertura: secondo e quarto sabato del mese
Orario: 10 – 11.30
AREA ARCHEOLOGICA SANTA CROCE IN GERUSALEMME
Giorno di apertura: seconda e quarta domenica del mese
Orario: 10 – 11.30
Le visite guidate sono a cura di Coopculture
Prenotazioni e informazioni sul programma delle visite guidate sono disponibili sui siti www.soprintendenzaspecialeroma.it e www.coopculture.it.