di Nicosetta ROIO
Caravaggio e il Ritratto
Il tema di Caravaggio ritrattista si intreccia, inevitabilmente, con la questione dei numerosi ritratti e autoritratti presenti all’interno delle sue tele, da quelle più strettamente giovanili alle più mature scene di historia. Si sa che il primo maestro del Merisi, Simone Peterzano FIG.1, aveva insegnato a “far retratti” almeno ad un altro suo allievo, il milanese Francesco Alicati, impiegato in bottega contemporaneamente in qualità di collaboratore per la produzione all’“arabesca”. Non è dunque improbabile che pure il giovane Michelangelo avesse ricevuto una sorta di analogo e mirato “addestramento”, congiuntamente al consueto percorso didattico durato quattro anni a Milano. Va detto che in questo senso il verbo “ritrarre” può essere assimilato a “riprodurre”, ovvero all’esercizio della copia-contraffazione della realtà quanto delle opere dei grandi maestri, altro esercizio consueto nella didattica di quell’epoca.
Se ormai è pressoché certo che al momento del suo arrivo a Roma il Merisi “doveva essere un artista ormai adulto di esperienze” e “professionalmente maturo” (L. Spezzaferro), è altresì quasi sicuro che a quei tempi egli dipingeva ancora in “modi assolutamente diversi” rispetto al suo geniale “reinventarsi” a noi noto grazie alle opere della prima maturità prodotte nella città dei Papi; è poi altrettanto vero che se della sua iniziale attività lombarda non sappiamo nulla, ciò dipende in gran parte dal fatto che continuiamo a cercarla – forse inutilmente – alla luce della stessa produzione romana.
Ciò premesso e nel tentativo di selezionare in modo il più possibile unitario le molte incognite della ritrattistica caravaggesca, qui circoscritta alla produzione di effigi “singole” o “autonome”, vale la pena di seguire anche per questo tema le indicazioni delle fonti principali, specialmente i documenti coevi e i testi basilari dei biografi contemporanei, Giulio Mancini e Giovanni Baglione innanzitutto, e il più tardo Giovan Pietro Bellori, di cui ci rimane un’interessante dichiarazione sui primi anni di attività del Caravaggio nelle terre lombardo-venete, dove sarebbe andato avanti per “quattro, o cinque anni” proprio “facendo ritratti”: il fatto che non siano noti ritratti eseguiti dal Merisi in Lombardia ha rafforzato l’opinione generale degli studi, che tendono a considerare meno attendibili di altre le testimonianze del Bellori riguardo al Caravaggio e ciò, ovviamente, sia per motivi cronologici, non avendo lo storiografo conosciuto personalmente l’artista, che ideologici, in virtù dell’orientamento culturale fortemente classicista di Bellori stesso.
In ogni caso a proposito di Caravaggio ritrattista si devono fare i conti con la scarsità del materiale superstite; in più, ad esclusione dei molteplici ritratti che “occhieggiano delle sue pale d’altare” (B. Berenson), quelli cosiddetti autonomi concordemente accettati sono soltanto quattro, solo i primi due databili precocemente, la Fillide Melandroni, andata perduta a Berlino ma fortunatamente giudicabile almeno in fotografia FIG.2, e il cosiddetto Maffeo Barberini in età “matura” FIG.3, laddove l’Alof de Wignacourt in armatura col paggio del Louvre FIG.4 e il Cavaliere di Malta di Pitti FIG.5 risalgono più certamente agli ultimi anni di attività dell’artista. Ciò a fronte del numero decisamente più consistente di effigi ricordate
dalle citazioni inventariali o biografiche ma in gran parte non identificate, mentre non mancano numerose proposte di identificazione di ritratti che vanterebbero più o meno attendibili basi stilistiche caravaggesche.
Non c’è poi dubbio che pure alcune delle prime invenzioni romane del Caravaggio come il Mondafrutto, il Fanciullo morso da un ramarro, il cosiddetto Bacchino malato, il Fruttarolo Borghese ma anche il non identificato “ritratto d’un hoste dove si rocoverava” (Giulio Mancini), sembrano corrispondere ad una sorta di ritratti e autoritratti “mascherati”, allegorie di adolescenti “ellenizzanti” a metà strada tra il soggetto religioso e quello profano, seguendo gli schemi della scultura classica e aprendosi ad ulteriori e svariati approfondimenti intellettuali certamente già affrontati durante i precedenti anni milanesi nella bottega del Peterzano e a contatto con la vivace cultura lombarda, compreso il filone delle cosiddette figure “ridicole” rievocate anche nel trattato di Giovan Pietro Lomazzo. Questi quadretti potrebbero essere a ragione dei “dipinti-rebus” che proponevano – oppure furono intesi in tal modo dai fruitori del momento – differenti livelli di lettura, sia nella forma che nel contenuto: bisogna perciò mettere in conto che l’identificazione talora sfuggente di alcuni soggetti caravaggeschi possa celare più o meno intenzionali ambigue oscillazioni interpretative anche sulla scia del marinismo, seguendo dunque il solco “concettistico” di molti eruditi cenacoli dell’epoca e le traduzioni delle parabole morali di etimologia cattolica.
Fu forse grazie a questo nuovo tipo di proposta figurativa – ben consolidata nell’area padana tra Milano e Venezia grazie ai proficui scambi con la cultura laica e borghese del nord Europa, ma ancora poco considerata nella Roma delle grandi imprese decorative di ambito papale –, che il Caravaggio riuscì ad inserirsi negli spazi commerciali liberi rispetto all’offerta locale, ovvero quello delle più basse fasce sociali cui erano destinati prodotti di poco prezzo e di genere cosiddetto “minore”: tuttavia quando il “regattiero de quadri vecchi” Costantino Spada (forse da sovrapporre al “Maestro Valentino” ricordato dal Baglione), cominciò verosimilmente a piazzare alcuni quadretti di Michelangelo nella propria bottega presso S. Luigi dei Francesi – attigua a quel Palazzo Madama dei Medici di Firenze dove viveva dal 1589 Francesco Maria cardinal Del Monte -, indubbiamente essi ben presto accesero l’interesse e la curiosità in molti di quei collezionisti romani ricchi e colti.
Dalle testimonianze storiografiche pare di capire che nella iniziale poverissima fase romana il giovane Caravaggio si era arrangiato spesso donando piccoli dipinti “dozzinali – ritratti oppure quadri devozionali -, in cambio dell’ospitalità ricevuta da personaggi singoli (che fosse monsignor Pucci, un semplice gestore di osteria o l’“ospitaliero” della Consolazione Luciano Bianchi), e forse anche da istituzioni (i vari ricoveri pubblici come ospedali e confraternite, numerosi nella Roma di quei tempi e attivi per accogliere mendicanti e senzatetto). Infatti, tra le opere “grossolane” – teste o “capocce” condotte alla buona ed eseguite nel numero di tre al giorno per un “grosso” l’uno (1 scudo corrispondeva a 20 grossi) – eseguite dal Merisi nella bottega di Lorenzo Siciliano o in quella di Antiveduto Gramatica, certamente potevano esserci anche dei ritratti di sua invenzione: una produzione che dovette essere comunque veloce e tendenzialmente seriale, scarsamente redditizia e soprattutto poco stimolante per un giovane ambizioso come Michelangelo.
Secondo il ricordo di Giulio Mancini, quando il Merisi trascorse otto mesi presso la stanza di Giuseppino Cesari, quest’ultimo voleva “che [il Caravaggio] ritratti”, ma anche questa volta il senso dell’affermazione potrebbe essere legato semplicemente e genericamente al verbo “riprodurre”, “copiare”: infatti le testimonianze dicono pure che il lombardo sarebbe stato impiegato dai fratelli Cesari per lo più a dipingere fiori e frutti “si bene contraffatti”, non riferendo esplicitamente di una sua attività ritrattistica in quella bottega.
Strettamente legato al difficile periodo trascorso dal Merisi nell’atelier di Giuseppe Cesari d’Arpino è in ogni caso il problema legato al Ritratto di Bernardino Cesari (almeno dal 1633 documentato a Roma, Accademia di S.Luca FIG.6), fratello minore del capobottega, un complesso quesito attributivo tuttora aperto anche perché per motivi cronologici il quadro di S.Luca non può coincidere con quello di identico soggetto menzionato negli inventari di Costanzo Patrizi del 1624 (e poi in quelli del 1654 e 1689: “Un quadro del ritratto di Bernardino Cesari mano del Caravaggio, con cornice tocca d’oro, scudi venticinque, 25”) e per ora non identificato: l’effige di Bernardino Cesari di S.Luca è allora una copia da Caravaggio o un originale, come pensava Maurizio Marini? Certamente le qualità stilistiche del ritratto non sono ancora paragonabili a quelle del Merisi che noi conosciamo, ma resta sempre il problema di capire come l’artista dipingeva prima di diventare un personaggio così noto e ricercato dalla committenza.
All’attività caravaggesca nell’ambiente degli Arpino sono state ricollegate talvolta alcune effigi femminili: ad esempio quella con pesca e caraffa di gelsomini seduta accanto ad una finestra FIG.7, che è stata assegnata variamente a Caravaggio o alla collaborazione Cesari-Caravaggio, ma anche al solo Cesari; l’altro ritratto di donna con collana d’oro del museo di San Diego (California) FIG.8, è un’opera attribuita più spesso a Ottavio Leoni, artista, o meglio ritrattista che condivide col Merisi più di una attribuzione di quadri tuttora problematici. Entrambe le immagini appartenenti all’ambito culturale dei Cesari, pur rimanendo di incerta assegnazione, riecheggiano le soluzioni somatiche dell’altrettanto carnosa “figura femminile velata” FIG.9 (riemersa dalle radiografie dell’ipotizzato Ritratto di Prospero Farinacci Giustiniani di cui si accennerà più avanti), e dunque del pingue Bacco degli Uffizi FIG.10, condividendo tutte queste opere taluni segni seriali della produzione caravaggesca legata, evidentemente, al suo periodo arpinesco: le grandi orbite oculari, i nasi larghi, il modo di rendere le labbra, chiuse o semiaperte che siano.
Certo è opinione corrente che il ruolo di Caravaggio nello specifico campo della ritrattistica sia stato assai meno rivoluzionario di quello avuto nella pittura di storia, così come è indiscutibile che le caratteristiche basilari del genere “ritratto” erano a quei tempi già ben definite ed ampiamente collaudate: alla riconoscibilità dell’effigiato e alla sua consonanza con la fisionomia reale oltre che all’apparenza sociale, si erano associati progressivamente i moti dell’anima e l’introspezione psicologica. A Roma il Merisi trovò una situazione ritrattistica dominata dall’algido naturalismo del “ritratto di stato” di Scipione Pulzone e dei suoi fautori: ma è interessante ricordare a tal proposito che nel 1599 un grande appassionato di pittura quale era il cardinal Del Monte – superfluo rievocare che in quel periodo il Caravaggio viveva e lavorava presso di lui -, aveva già cognizione di nuovi e più moderni orientamenti ritrattistici, tanto da valutare un giovane suo “allievo” di cui, purtroppo, non riportò il nome, “più diligente et più somigliante” rispetto al pittore di Gaeta. Ovviamente la suggestione che il ritrattista allievo del cardinal Del Monte possa essere stato Michelangelo Merisi è intrigante ma attualmente non verificabile, come però risulta altrettanto indimostrabile la sua identificazione con Ottavio Leoni, da molti data come pressoché acquisita ma senza alcun riscontro sicuro.
A dimostrazione della complessità dell’intera questione in relazione al Merisi pesano i giudizi di due personaggi che lo conobbero direttamente. Uno è il suo acceso sostenitore e collezionista Vincenzo Giustiniani: nella ben nota lettera di quest’ultimo all’amico Theodor Amayden, in cui veniva tracciata la famosa graduatoria ascendente da 1 a 12 delle categorie pittoriche, il ritratto veniva collocato in una posizione secondaria, subito dopo lo spolvero e le copie:
“Quarto, saper ritrarre bene le persone particolari, e specialmente le teste che siano simili, e che poi anco il resto del ritratto, cioè degli abiti, le mani e i piedi, se si fanno interi, e la postura, siano bene dipinti, e con buona simmetria, il che non riesce ordinariamente, se non a chi è buon pittore”.
L’esigenza primaria del ritratto era perciò quella documentaria, senza per questo trascurare del tutto l’opportunità della qualità artistica.
L’altro, il medico senese Mancini, la pensava diversamente: nell’affrontare la medesima questione all’interno delle sue “Considerazioni sulla pittura”, egli chiamò direttamente in causa Caravaggio per sottolineare che i suoi ritratti erano mancanti proprio dell’aspetto principale richiesto a quel genere: la similitudine. Mancini giudicava inoltre le effigi dipinte dal Merisi “senza colorito simile al naturale”, nonostante egli sia stato un pittore valentissimo al contrario di Ottavio Leoni, “goffissimo, senz’arte e disegno” ma che faceva “retratti somigliantissimi”: una dichiarazione singolare, dal momento che sostiene come il grande maestro lombardo, ignorando la regola della somiglianza, non fosse rispettoso del quarto punto fissato dal Giustiniani.
A queste problematiche si ricollegano direttamente le argomentazioni riguardanti il ritratto che potrebbe aver eseguito Caravaggio al giurista Prospero Farinacci (fiscale di papa Paolo V Borghese nella vicenda del sequestro dei quadri del Cavalier d’Arpino avvenuto nel 1607), storicamente famoso specialmente per aver difeso la giovane Beatrice Cenci nel celebre processo dalle forti sfumature che portò la fanciulla alla pena capitale nel 1599. Il dubbio che le fattezze del giureconsulto siano state effettivamente immortalate dal Merisi deriva dal “si crede” presente nel riferimento inventariale della raccolta Giustiniani del 1638, dove un simile ritratto è registrato per la prima volta: “89. Un quadro con il ritratto del Farinaccio Criminalista depinto in tela da testa [di mano, si crede, di Michelangelo da Caravaggio] con cornice di noce”. La descrizione dello stesso nel posteriore inventario Giustiniani del 1739 (“Un Quadro di palmi 3. 2 ½ per alto rappresentante un Ritratto di Uomo vestito all’Antica, con Collare bianco, ed un Libro nelle mani di Caravaggio, con Cornice di Legno, all’Antica dorata a Vernice”), sembra superare l’incertezza attributiva dell’elenco precedente
ma aggiunge, assieme alle misure (abitualmente assenti nel 1638), la segnalazione della presenza di un libro che doveva essere dipinto all’interno del ritratto: questo dettaglio, però, manca nel quadro di collezione privata inglese recentemente proposto proprio come l’effige del Farinacci un tempo di proprietà Giustiniani FIG.11 (W. Prohaska, in “Artibus at Historiae”, 73, 2016), le cui dimensioni sono inoltre inferiori rispetto a quelle dichiarate nell’inventario; l’uomo effigiato nel quadro non rivela poi traccia della grossa cicatrice che il personaggio aveva sotto l’occhio sinistro (perso durante un’aggressione per vendetta nel 1582), pur essendo il suo volto totalmente in luce.
La questione si relaziona pertanto direttamente al tema della raffigurazione dei ritratti in senso realistico secondo le teorie del Mancini e, nella fattispecie, alla evidenziazione o meno di un segno del genere: ad esempio il ben noto ritratto di Prospero Farinacci dipinto dal Cavalier d’Arpino (quello del Museo di Castel S.Angelo) è impostato in modo che lo sfregio nell’occhio del personaggio sia mimetizzato nell’ombra, mentre la lesione è ben evidente sia nell’effige del criminalista incisa da Lorenzo Crasso che nel monumento funerario dello stesso giurista in San Silvestro al Quirinale. Se ne dovrebbe dedurre che il quadro di raccolta privata in questione o non raffigura Prospero Farinacci, oppure – nel caso venisse confermata la plausibile assegnazione del ritratto al Merisi – si potrebbe avvalorare quella mancanza di similitudine che a detta del Mancini l’artista lombardo avrebbe applicato alla sua produzione ritrattistica.
Un altro giurista, Andrea Roffetti (o Ruffetti), secondo le notizie inventariali fu ritratto dal Caravaggio (“Un altro ritratto d’un pro[curato]re chiamato Andrea Roffetti, cornice dorata, mano del Caravacio”): seppure la citazione sia piuttosto tarda (1664), il fatto è credibile, dal momento che l’uomo di legge, oltre ad aver fatto parte della cerchia degli amici del Merisi e del suo sodale Onorio Longhi, è lo stesso personaggio che nell’autunno 1605 ospitò il Caravaggio misteriosamente ferito nella propria dimora nei pressi di Piazza Colonna dopo che l’artista, in seguito alla nota aggressione del notaio Pasqualone di Accumuli, era dovuto fuggire a Genova. Rientrato a Roma e riappacificatosi col Pasqualone, Michelangelo perse però la sua abitazione poiché in arretrato di sei mesi d’affitto. Si può ipotizzare che l’artista, seguendo una prassi deducibile dalle testimonianze delle fonti, avesse ricambiato anche in questo caso l’ospitalità dell’avvocato Roffetti dipingendogli e donandogli il ritratto: in tal caso il quadro sarebbe databile alla fine del 1605.
Esistono notizie documentarie che testimoniano anche l’esistenza di un ritratto eseguito dal Caravaggio all’amico architetto sopra rievocato, Onorio Longhi: di origine lombarda ma attivo prevalentemente nell’Urbe, quest’ultimo fu un personaggio controverso, colto ed eccentrico; è ben nota la sua stretta amicizia col Merisi e come lui fu più volte coinvolto in vicende giudiziarie, non ultima quella dei versi infamanti scritti contro Giovanni Baglione in cui furono entrambi implicati. Il ritratto del Longhi e quello della sua consorte Caterina Campani sono menzionati come opere del Merisi nell’inventario dei beni mobili della donna, allegato nel testamento del figlio della coppia, Martino (1656): “ritratto di Onorio Longhi suo padre, fatto dal Caravaggio…Altro ritratto di Onorio Longhi fatto da Annibale Caracci; altro di Caterina Campani di Michelangiolo da Caravaggio”, questi ultimi due indicati in modo da poterli ritenere abbinati: purtroppo non ancora identificati, ultimamente è stato tentato da Francesco Petrucci un possibile e interessante collegamento del Ritratto di architetto di Monaco di Baviera FIG.12 con la perduta effige caravaggesca del Longhi e, dunque, col Merisi.
Tra gli altri ritratti dipinti dal Caravaggio menzionati da fonti e inventari ci sono quelli di Crescenzio Crescenzi, Melchiorre Crescenzi, Virgilio Crescenzi, il poeta Giambattista Marino, il pittore Gismondo Todesco (Sigismondo Lair o Laire), Serafino Olivier Razali (ricordato nei versi del giureconsulto Marzio Milesi:
“Per lo ritratto del Cardinal Serafino/ Fatto da Michel Angiol da Caravaggio/ Angiol esser doveva,/ ch’a voi gran Serafino,/ nove forme arrecasse, et nova vita,/ dal cielo ambo discesi, onde ben fosse/ degno lui ritrar voi, voi di lui degno”),
ma anche il pontefice Paolo V Borghese, riferimento storiografico ricollegato alla tela attualmente a Roma (collezione del principe Camillo Borghese FIG.13), che dopo alterne opinioni a favore o contro l’autografia caravaggesca è stata recentemente restaurata, attentamente indagata dal punto di vista tecnico-esecutivo ed esposta alla mostra Caravaggio. Una vita dal vero (2011), con conseguenti rinnovate opinioni a sostegno dell’appartenenza al corpus del maestro lombardo. Ma tutto ciò non ha risolto del tutto il problema attributivo, dal momento che persiste tra gli studiosi l’opinione alternativa favorevole piuttosto alla paternità di Ottavio Leoni.
Non si può non menzionare l’ampia presenza di ritratti, seppure siano quasi tutti dispersi, all’interno del nucleo delle opere del Caravaggio un tempo di proprietà Giustiniani, il più consistente dopo quello del cardinal Del Monte. Il dato è molto significativo, innanzitutto perché accerta la fama di ritrattista evidentemente procuratasi dal lombardo anche a Roma, e in secondo luogo poiché, se si eccettua l’effige perduta del cardinale Benedetto, quelle assegnate al Merisi nell’inventario Giustiniani del 1638 furono tutte acquisite dal marchese Vincenzo seppure, lo si è detto, quest’ultimo non valutasse il genere ritrattistico tra i primi per rilevanza: tra esse spicca – in virtù di alcuni peculiari dettagli inseriti nella pur breve descrizione inventariale -, il “quadro con ritratto d’una Matrona Lombarda con un velo bianco in testa e suo nome scritto Marsilia Sicca dipinta in tela alta palmi 2. ½. Larga 2. Incirca [della prima maniera di Michelangelo da Caravaggio si crede] senza cornice“.
Come quasi tutti gli altri ritratti dipinti dal Merisi, che senz’altro erano stati selezionati dal Giustiniani con ricercatezza di metodo per la propria esclusiva ed evoluta raccolta artistica, anche quello della dama lombarda Marsilia Sicca è probabilmente andato perduto, ma la constatazione che il nome dell’effigiata era innegabilmente segnato su quella tela dipinta (“e suo nome scritto”) si accosta al fatto che l’“esitante” successiva annotazione del compilatore sembra riferita non tanto all’“autografia” di Michelangelo da Caravaggio, quanto piuttosto al suo stile ancora “immaturo” (il senso somiglierebbe a “si crede della prima maniera” piuttosto che a “si crede di Michelangelo da Caravaggio”). Bisogna ancora accennare alla curiosa somiglianza che il nome di questa effigiata matrona ha con Marsibilia Secco, moglie di quel notaio caravaggino di nome Giovan Battista Gennari il cui padre Antonio era stato presente, assieme al marchese di Caravaggio Francesco Sforza, al matrimonio tra i genitori di Michelangelo, Fermo Merisi e Lucia Aratori (Caravaggio, 14 gennaio 1571). Una notizia che avvalora la possibile esecuzione del ritratto della donna da parte del giovane Caravaggio quando era ancora in Lombardia, anche se al momento non è facile appurare come il Giustiniani fosse venuto in possesso del quadro.
Le notizie sul ritratto perduto della lombarda velata sembrano rievocare uno di quei ritratti di donne “illustri”, a cui potrebbe aggiungersi in una sorta di ipotetica sequenza un altro quadro Giustiniani ancora non identificato (la “mezza figura ritratto d’una Cortigiana famosa… [di mano di Michelangelo da Caravaggio]”), sulla gloriosa scia del “culto per l’antico” che si ritrova, ad esempio, nelle tavolette da soffitto di casa Aratori a Caravaggio (già di proprietà dei parenti per parte di madre di Michelangelo Merisi), ma anche in opere a stampa come Le immagini delle donne auguste di Enea Vico (1557), tratte da medaglie romane, o nei ritratti femminili incisi di Giovanni Guerra nel 1589.
Ne scaturisce quasi l’idea di costituire una specie di catalogo illustrato sul modello dei libri di costumi diffusi già intorno alla metà del XVI secolo parallelamente alla circolazione delle prime carte geografiche del mondo moderno: tra i più noti si ricordano quelli del veneziano Ferdinando Bertelli del 1563 (Omnium fere gentium nostrae aetatis habitus), del francese Jean-Jacques Boissard del 1581 (Habitus variarum orbis gentium) e del cadorino Cesare Vecellio, cugino di Tiziano, del 1590 (Degli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo) FIG.14
Assieme ai testi sulla teoria e sulla pratica della pittura, come quelli ben noti del Lomazzo e di Bernardino Campi del 1584, anche questo genere di trattati illustrati dovevano essere, ovviamente, un imprescindibile punto di riferimento nelle botteghe artistiche dell’epoca, nella fattispecie in zona padano-veneta, in cui venivano adoperati come utili manuali per la realizzazione di ogni tipo di raffigurazioni, non di meno per i ritratti. Ed è altamente probabile che lo stesso giovane Michelangelo Merisi se ne fosse ampiamente servito per la sua iniziale attività di ritrattista in quei territori – dapprima in tal modo indirizzato all’interno della stanza del maestro Peterzano -, un mestiere poi forse da lui praticato per quei tre-quattro anni ancora misteriosi della sua carriera giovanile.
È allora plausibile che nella preistoria ancora in parte incognita del Michelangelo di Fermo Merisi non ancora diventato il “Caravaggio”, possano aver trovato un posto rilevante anche le fantasticherie giovanili su tutte quelle “figurine” illustrate nei libri di abiti e costumi di tutto il mondo. Da questi sembrano scaturire infatti la dovizia di certi dettagli descrittivi evidenti ad esempio nel ritratto della ricordata cortigiana Melandroni, mentre la Marsilia Sicca Giustiniani fu ritrattata col velo bianco sul capo come certe modelle di un Boissard, ad esempio quella raffigurante una “Matrona veneta” FIG.15, quasi a rievocare l’inconsueta definizione di “Matrona Lombarda” dell’inventario Giustiniani. Tutte indicazioni che potrebbero essere utili per ulteriori indagini sulla produzione ritrattistica del giovane Merisi, dei suoi oscuri anni formativi e degli esordi insicuri, caratterizzati da momenti di ricerca esitante ed incerta: un avvio “regolare” di lento avanzamento compositivo, prospettico e materico che si ha difficoltà ad ammettere abbia potuto contrassegnare anche questo grande “irregolare” che tutti conosciamo solo nella sua fase più geniale e innovativa.
di Nicosetta ROIO Bologna dicembre 2018