di Sergio ROSSI
I San Francesco in contemplazione del Caravaggio. Novità e approfondimenti.
E’ ormai accertato come una delle più straordinarie caratteristiche di Caravaggio consista nell’essere un profondo innovatore di iconologie e i suoi dipinti, per quanto analizzati in molteplici aspetti, continuano a riservare sorprese ed essere suscettibili di letture sempre nuove e stimolanti.
Non può sorprenderci, al contrario, il numero impressionante di versioni, per lo più copie, di alcuni soggetti caravaggeschi già in epoche molto antiche se non addirittura eseguite quando il Merisi era ancora in vita. E questo perché sappiamo, già dai suoi primissimi biografi, del successo (quella che oggi si chiamerebbe una vera e propria “caravaggiomania”) che lo stile rivoluzionario del nostro artista aveva suscitato presso tanti pittori giovani e meno giovani (si pensi al Gentileschi); successo, sia detto per inciso, che aveva fatto storcere il naso a tutta la storiografia e la critica classicista che non aveva esitato a considerare Caravaggio come un vero e proprio “corruttore della gioventù”.
E questo perché egli contraddiceva con la sua opera il concetto stesso di “decoro” e soprattutto uno dei principi fondamentali della Poetica di Aristotele, che proprio tra fine Cinquecento e primo Seicento era tornata ad improntare di sé le teorie e l’estetica tardomanierista prima e classicista poi: il principio cioè della differenza tra poesia e storia e tra “vero” e “verosimile”.[1] Secondo il grande Stagirita la differenza principale fra storico e poeta consiste in questo: «che l’uno tratta le cosa accadute, l’atro quali potrebbero accadere.
La poesia è perciò qualcosa di più filosofico e di più elevato della storia: la prima tratta di preferenza le cose in universale, la storia in particolare … E l’universale consiste in ciò, che al tale accade di dire o fare cose tali secondo verosimiglianza o necessità». Aristotele precisa più oltre che è credibile ciò che è possibile, ed è chiaro che le cose realmente avvenute erano possibili, altrimenti non sarebbero accadute; ma se capiti
«al poeta di poetare di cose accadute, non sarà per questo meno poeta, perché fra le cose accadute niente impedisce che ve ne siano tali quali era verosimile che accadessero e possibili ad accadere, e secondo questo aspetto colui [che le narra] è il vero poeta».[2]
Mentre lo storico, dunque, è legato al reale accadimento dei fatti narrati, il poeta costruisce il proprio sistema narrativo in maniera indipendente, e se un fatto non accaduto è necessario alla coerenza dell’insieme egli deve inventarlo mentre se un fatto realmente accaduto non si inquadra nella logica del racconto egli deve eliminarlo. Ciò che distingue la poesia e il credibile e necessario che le sono propri, dall’accaduto storico, entrambi possibili e quindi razionali, è, in definitiva, il fine stesso della tragedia, cioè la composizione dei fatti, o composizione della favola. E il carattere più ‘filosofico ed elevato’ della poesia rispetto alla storia dipende dal fatto che la prima assume a proprio contenuto una realtà non soltanto riprodotta, constatata, ma anche immaginata e fatta di avvenimenti comunque credibili e concordanti con gli altri elementi della narrazione indipendentemente dalla loro storica attualità.
Questi principi, applicati dall’estetica classicista anche alla pittura e trasformati sostanzialmente nel concetto del “decoro”, significavano in pratica che gli artisti degni di questo nome non dovevano limitarsi a riprodurre la realtà naturale così come era, senza filtri e abbellimenti, ma dovevano “correggerla” proprio secondo il principio aristotelico di “verosimiglianza”. Ora, come già intuito da Argan[3], mentre i Carracci sono proprio i pittori del “verosimile”, Caravaggio lo è del “vero”, di una realtà cioè talmente immediata e attualizzata da divenire inverosimile secondo i canoni estetici della sua epoca.
Queste riserve per così dire ufficiali non sminuirono però, anzi forse accrebbero, il suo successo presso quegli artisti ed erano molti, che intendevano ribellarsi ai rigidi canoni imposti dalla cultura accademica imperante da un lato e dalla Controriforma dall’altro. Ed è proprio in quest’ottica di semplificazione formale e “presentificazione” degli eventi sacri che vanno inserite tutte le innumerevoli versioni di alcuni temi di particolare diffusione, tra cui proprio le molti immagini di S. Francesco di cui intendo occuparmi in questa sede.
Entrando ancora più nello specifico, secondo un recente studio di Giacomo Berra [3 bis] sono almeno otto i S. Francesco in meditazione (o forse sarebbe meglio dire in contemplazione): quello già della collezione Cecconi (fig.1),
che io considero il prototipo autografo da cui derivano poi tutte le altre repliche o copie antiche; quello ora presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini di Roma in deposito dalla chiesa di S. Pietro di Carpineto Romano (fig.2); quello della chiesa romana di Santa Maria della Concezione, nota anche come chiesa dei Cappuccini (fig.3);
quello di una collezione privata maltese; quello della collezione Lampronti, quello già nella chiesa del Suffragio a Sant’Arcangelo di Romagna, quello della parrocchia di Sant’Ambrogio a Bolladello di Cairate (Va) e altro in collezione privata (nè si può escludere che ce ne siano altri)
In particolare nella tela già della collezione Cecconi il Merisi si auto raffigura proprio nelle vesti di S. Francesco ed a questo proposito, prima di entrare nel merito del dipinto in questione, occorre aprire una breve parentesi.
Caravaggio aveva per la propria immagine una vera e propria ossessione autobiografica, e le opere in cui egli in qualche modo si autorappresenta, in estrema sintesi, possono dividersi in tre categorie. Gli autoritratti veri e propri, nei quali il pittore si dipinge come era realmente al momento dell’esecuzione dell’opera, senza abbellimenti o forzature espressive. Le immagini idealizzate, a volte auto raffigurazioni più che autoritratti veri e propri; e infine i dipinti in cui l’artista esaspera espressionisticamente i propri lineamenti, presentandosi addirittura come reprobo o carnefice in una sorta di auto espiazione catartica dei propri peccati. Su questo aspetto rimando comunque a quanto ho già scritto nei miei numerosi interventi dedicati al Merisi.[4]
Un discorso a parte è quello relativo alle molte tele in cui il grande artista lombardo si identifica con la figura di S. Francesco.
A questo proposito, già nel 1990 Alessandro Zuccari[5] vi aveva dedicato pagine decisive, precisando che
«il pittore lombardo sembra aver fatto sue le istanze pauperistiche dei cappuccini non soltanto per ragioni di committenza, ma anche al motivo di una sua personale attrazione per quel filone di spiritualità che vedeva accomunate da vicendevoli simpatie figure autorevoli e popolari come Carlo Boromeo, Filippo Neri e Felice da Cantalice. Un indizio del suo interesse per il più povero degli ordini sorti nel Cinquecento è fornito da una testimonianza di Orazio Gentileschi che dichiarò-nel processo del 1603 intentato dal Baglione contro lo stesso Caravaggio-di aver prestato “una veste da cappuccino” al suo amico Merisi, che gliela restituì dopo alcuni mesi»[6].
Siamo esattamente il 14 settembre del 1603 ed il Gentileschi interrogato circa i suoi rapporti col Baglione e con Caravaggio e quando fosse stata l’ultima volta che li aveva visti risponde che è molto tempo che non parla col primo
«perché nell’andare per Roma lui aspetta che io facci di berretta, et io aspetto che facci di berretta a me et anco il Caravaggio, se bene m’è amico, aspetta che io lo saluti et se bene me sono amici tutti doi ma non c’è altro tra noi; ma deve essere sei o otto mesi che io non ho parlato al Caravaggio, se bene à mandato a casa mia per una veste da cappuccino che gliela imprestai et un paio d’ale, che la veste deve essere da diece giorni che me la remandò a casa».[7]
Come è noto, è stato per primo il Cantalamessa già nel 1908 amettere in relazione questa testimonianza col dipinto del S. Francesco in meditazione, e segnatamente con la versione della chiesa dei Cappuccini, da lui stesso scoperta, aprendo un dibattito critico incandescente che è tutt’ora in corso.[8] Ma su questa questione torneremo più avanti.
E’ comunque sicuramente nell’ottica delineata da Zuccari che vanno inseriti i numerosi esempi in cui il nostro pittore non solo aderisce in modo generico alle istanze della spiritualità francescana ma addirittura si identifica, o se si preferisce si auto raffigura nelle vesti del santo d’Assisi, come ha osservato di recente Carla Rossi[9].
Si tratta comunque non di autoritratti veri e propri, ma piuttosto di “autoidentificazioni” in cui il pittore, pur riprendendo nelle linee generali la propria immagine, ne muta di volta in volta alcuni particolari. E così, il dipinto in cui l’autoidentificazione ed l’autoritratto vero e proprio vengono quasi a coincidere è proprio il San Francesco in contemplazione ex Cecconi, molto vicino, seppure in controparte, all’autoritratto che compare nel fondo del Martirio di S. Matteo di S. Luigi dei Francesi, anche qui con lievi differenze: la barba appena più lunga, il volto appena più emaciato.
E come osserva ancora la Rossi
«Il pittore, autoritraendosi tra i peccatori testimoni del martirio del santo, aveva già voluto sottolineare, attraverso il proprio sguardo carico di pietas per Matteo, la sua capacità di salvazione»[10],
ribadita ora, a non più di tre anni di distanza, nella tela oggetto della mia analisi.
Essa, infatti, per più di un motivo che analizzeremo ora nel dettaglio, va posta senza ombra di dubbio intorno al 1603 e non certo al 1606 che è la datazione ormai quasi unanimemente accettata per il dipinto di Palazzo Barberini. Iniziamo dall’analisi dello stile: il luminismo avvolgente, la morbidezza dell’impasto cromatico e della resa delle stoffe, come anche il particolare delle mani, analizzato fin nelle minime rughe con finezza descrittiva, avvicinano il nostro dipinto soprattutto al Sacrificio d’Isacco ora agli Uffizi; e si osservi ancora come il perfetto semicerchio della manica destra di Francesco sia identico a quello della piega della medesima manica di Abramo.
Ma anche il S. Matteo e l’angelo di San Luigi dei Francesi (appena precedente) rivela notevoli concordanze stilistiche col dipinto ex Cecconi, mentre le tele databili intorno al 1606 presentano dei contrasti luministici e delle accentuazioni drammatiche estranee alla nostra tela e già presenti invece in quella ex Carpineto che è appunto del 1606. Mentre, come ho appena sottolineato, proprio morbidezza d’impasto, finezza descrittiva e luminismo avvolgente sono qualità che distinguono la nostra opera dalle altre. Ed in questo io sono confortato dal parere del massimo studioso della pittura del ‘600 italiano, sir Denis Mahon, che già il 7 gennaio 2007, in una lettera indirizzata al proprietario dell’opera, scriveva parole decisive al riguardo:
«Dear Mario, it was good to see the St francis you showed me, after its return from the Dusseldorf Caravaggio show where it was no. 8 in the catalogue. The results of the cleaning has been very positive, and the pentimentirevelead show that is, in my opinion, the original of the Cappuccini version at santa Maria della Concezione, and carpineto Romano (now in Palazzo Barberini, Rome) versions».
Parere confermato da Claudio Strinati, che aggiunge anche come quella della collezione ex Cecconi «sia la più bella delle tre versioni esistenti e che raramente è stata esposta».[11]
Come del resto ribadisce anche l’ottima scheda di C. Whitfield[12], di cui vale la pena riportare un’ampia citazione:
«Le renouveau des vertus franciscaines, à la fin du XVI siècle, fut très énergique. La pauvreté et l’humilité revendiquées par les franciscains eurent beaucoup de succès auprès du peuple et de nombreux pentres répondirent au besoin, exprimé par les fidèles, d’une contemplation des vertus que le saint incarnait. Dans le present tableau, dont les repentirs révélés par un nettoyage récent montrent qu’il s’agit de la première version de l’interprétation du thème par le Caravage, l’artiste souligne l’humilité et la souffrance de l’homme que beaucoup considéraient comme un alter Christus, dans un paysage rocailleux, sans recourir aux éléments sensationnels, tels les stigmates, quel es protestants attaquaient violemment en raison de leur idolâtrie supposée.
Le naturalisme développé par Caravage était en parfaite harmonie avec le besoin de réalisme défini par Roberto Bellarmino sous l’expression de “vera rei similitudo”… et chez le Caravage ce réalisme etait perçu notamment par des commeanditaires tels quel les Mattei, comme une forme d’expression miraculeuse, bien plus impressionante que l’imitation minutieuse des détails proposées par la concurrence. Les Mattei semblent avoir possedé un Saint François de sa main, qui fit l’objet d’une évalutation bien plus élevée que celle de l’Arrestation du Christ vendue par la famille en 1802 (Dublin).
Le réalisme développé ici est proche de celui de la Madone des pèlerins, conçu pour transmettre la simpicité de la pauvreté du saint. Cette version récemment découverte se caractèrise par des vastes repentirs visibles aux rayons X, qui illustrent les étapes de l’élaboration de l’image par le Caravage. La version qu’il peignit pour l’oratorien Francesco de Rustici, offerte ensuite aux moins capucins de l’église Santa Maria della Concezione, reprend la compotion du prèsent tableau, et fu à l’évidence très appréciée par son commendataire. Avec la version de Carpineto Romano, elle montre à quel point l’artiste fut recherché pour les sujets qui fire sa célébrité, par exemple celui, souvent répeté, du Jeune Homme à la corbeille de fruits».
A proposito di questa analisi, gli unici punti in cui non concordo con lo Whitfield sono quelli in cui egli ritiene ancora la tela dei Cappuccini, ormai quasi unanimemente considerata una copia[13], sia pure molto antica e di alta qualità, come autografa del Merisi e ritiene altresì le differenti versioni del S. Francesco cronologicamente molto vicine l’una all’altra: a mio parere infatti, la tela ex Cecconi è del 1603, quella di Carpineto è del 1606 e la copia dei Cappuccini sicuramente posteriore a quest’ultima anche se non possiamo al momento stabilire di quanto.
Entrando ancora più nello specifico e ritenendo giusta, come credo, l’ipotesi del Cantalamessa di riferire proprio alla prima delle tre opere appena citate la testimonianza di Orazio Gentileschi del prestito a Caravaggio di un saio da cappuccini, possiamo collocare questo dipinto entro un arco di tempo che va all’incirca dal febbraio al settembre del 1603, mentre riteniamo che il Merisi abbia poi abbia ripreso a memoria l’immagine di S. Francesco nelle successive tele in cui si è occupato dell’Assisiate, e segnatamente nel San Francesco in preghiera della Pinacoteca Civica di Cremona e nell’altro San Francesco in contemplazione già a Carpineto Romano, entrambi del 1606.
Arrivati a questo punto possiamo avanzare anche un’ipotesi più che plausibile su chi sia stato il committente della tela ex Cecconi e tutti gli indizi portano al nome di Ciriaco Mattei.
Dallo studio di Francesca Cappelletti e Laura Testa sulla quadreria di questa importantissima famiglia romana[14], risulta infatti che il Caravaggio fosse ospitato fin dal 1601 presso il Palazzo Mattei e che fosse in contatto sia col cardinale Girolamo, sia e soprattutto col di lui fratello Ciriaco, il quale nel corso del tempo verserà a Michelangelo centinaia di scudi e gli commissionerà almeno quattro dipinti certi di cui siamo a conoscenza ed altri che possiamo solo ipotizzare; e risulta inoltre che «la predilezione di Ciriaco per l’arte di Caravaggio, era dovuta forse oltre che a preferenze estetiche anche a ragioni ideologiche, di comune sensibilità religiosa»[15], che ci riportano proprio nell’ambito della spiritualità francescana.
Già il cardinale Girolamo, infatti, era «membro dell’Arciconfraternita del Gonfalone e protettore dei Francescani e del convento dell’Aracoeli»[16], così come Ciriaco, amico personale, fra l’altro, di san Filippo Neri. Se poi aggiungiamo che Girolamo muore proprio nel 1603, allora possiamo anche supporre in via ipotetica che il S. Francesco in contemplazione possa essere stato commissionato dai parenti del cardinale come una sorta di ex voto per celebrare la sua devozione verso l’Assisiate. Infine non va trascurato il fatto che sempre presso i Mattei, in una stima dei beni di famiglia posteriore al 1802, viene citato un “S. Francesco di Caravaggio” del valore, altissimo, di 500 scudi[17].
Anche Francesco de’ Rustici, il committente della copia dei Cappuccini, era in stretto rapporto sia con i Mattei che con Caravaggio, e dal momento che nel suo pur utilissimo studio sull’argomento[18] Marco Pupillo non riesce (perché impossibile) a collegare in alcun modo questa tela con quella di palazzo Barberini per stabilire come e quando essa avrebbe potuto essere stata copiata, allora l’idea che il de’ Rustici abbia potuto vedere l’originale caravaggesco proprio presso i Mattei e magari farlo copiare a Prosperino Orsi, definito già ab antiquo dal Baglione col termine ambiguo di “turcimanno del Caravaggio” ed in contatto anch’egli con la nobile famiglia romana, quest’idea dicevo, mi sembra più che verosimile, anche se non possiamo allo stato attuale stabilire quando tutto ciò possa essere avvenuto.
Tutte queste ipotesi circa la priorità del dipinto ex Cecconi rispetto alle altre versioni del medesimo soggetto diventano comunque certezze dopo aver preso visione delle indagini tecniche e radiografiche della tela, che hanno evidenziato tanti pentimenti (non semplici correzioni) e di tale portata da rendere impossibile la circostanza di trovarsi di fronte ad una copia, come risulta benissimo dalla lucida scheda della restauratrice Silvia Cerio:
«Dagli esami diagnostici eseguiti sulla tela sono apparsi evidenti aspetti molto interessanti riguardo alla tecnica pittorica. E in questo senso appare ben leggibile il processo del pittore, abile ad evolvere e piegare il disegno all’impeto creativo che si manifesta libero dai vincoli di un disegno predefinito, mentre la composizione si adatta progressivamente ai limiti della tela per raccontare meglio allo spettatore l’emozione del racconto.
La figura del santo avvolge il teschio portandolo a sé: questo movimento è evidenziato nella sua progressione dallo spostamento del punto vita con il cordone più volte segnato con inclinazione diverse. La manica destra, in primo piano, ha lunghezze e pieghe modificate. Il cappuccio del saio cambia leggermente forma. Queste correzioni ci raccontano l’evolversi di un gesto del santo che attira a sé, in un profondo empito di compassione, il teschio.
L’area del teschio stesso, invece, ci racconta un altro momento creativo: sotto la pellicola pittorica si rilevano delle tracce molto leggibili di un libro, come se all’inizio il pittore avesse immaginato che il santo mediasse la meditazione sulla morte del Cristo attraverso il Vangelo e poi, in una fase successiva, avesse scelto un colloquio più diretto. Forse, nella fase “del libro”, il teschio era abbozzato in basso a destra sotto la croce, dove ora è raffigurato un sasso. Osservando le radiografie, però, si intuiscono le ombre delle orbite. Infine, i bracci della croce lignea sono stati spostati con una prospettiva più esasperata verso lo spettatore per coinvolgerlo nella scena. In conclusione, la prima immagine pensata dal pittore ha una struttura più ferma e didascalica che si trasforma nell’avvenimento fortemente emozionale di quella finale».
E va inoltre sottolineato come anche la posizione della testa del santo risulti spostata verso destra nella versione finale, così come, sotto il saio, tra la croce ed il braccio si intravede un ginocchio, segno evidente che l’intera postura di Francesco era stata concepita in un primo momento in modo affatto differente.
Più che di semplici pentimenti siamo dunque in presenza di una vera e propria ridefinizione, plastica e poetica, dell’intero dipinto, del tutto impossibile con una copia; alcuni pentimenti, sia pure marginali, li ritroviamo invece nella versione di Palazzo Barberini, compatibili in questo caso con una replica autografa dipinta a qualche anno di distanza; nessun pentimento, infine, compare nella tela dei Cappuccini, proprio perché si tratta di una copia, sia pure antica e di ottima qualità.
Riassumendo, le ricerche documentarie, le indagini diagnostiche ma soprattutto quello che il grande Roberto Longhi definiva “il documento di prima”, ossia un’indagine stilistica e formale condotta senza pregiudizi e avendo davanti agli occhi il dipinto e non una sua riproduzione fotografica spesso scadente, tutti questi elementi convergono nel ritenere il San Francesco in meditazione ex Cecconi come il prototipo, mentre il dipinto ora a palazzo Barberini, molto probabilmente eseguito mentre Caravaggio, in fuga da Roma, era ospite dei feudi Colonna a Paliano è una replica, comunque autografa e di ottima fattura, naturalmente eseguita a memoria (cosa che comunque il Merisi faceva spesso) e senza avere il modello davanti agli occhi, il che spiega anche, come ho appena ricordato, le leggere differenze esistenti tra le due versioni.
Su come, quando e perché l’opera sia poi finita a Carpineto Romano, non ostante il profluvio di pagine scritte sull’argomento[19], non è stata ancora scritta la parola definitiva ed è del resto un problema che esula dalle finalità del presente saggio.
Sergio ROSSI Roma 28 giugno 2020
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