di Giovanni Maria SANNA
Giovanni Maria Sanna è un giovanissimo studente di Viareggio che con vero piacere ospitiamo per la prima volta su About Art. Ha trascorso un periodo di studi presso il college Saint Thomas More, Connencticut, presso il quale sosterrà a breve l’esame per la ‘graduation’. I suoi interessi riguardano particolarmente la Storia dell’Arte e la Fisica della materia.
“Ex uno lapide eum ac liberos draconumque mirabiles nexus de consilii sententia facere summi artifices: Hagesander et Polydorus et Athenodorus Rhodii”.
“Lo scolpirono in un solo blocco di marmo, coi figli e i mirabili viluppi dei serpenti, lavorando insieme di comune intesa, i sommi artisti Hagesandros, Polydoros e Athenodoros, Rodii”.
Plinio il Vecchio, Naturalis Historia
Così Plinio Secondo, in poche ma significative righe dell’unica sua opera a noi rimasta, descrisse un gruppo scultoreo che per sempre avrebbe cambiato l’idea di perfezione e di armonia estetica, uno dei tanti Laocoonte a noi giunto, o rappresentato, ma che attualmente, è, per antonomasia, “il” Laocoonte. Acquistato da papa Giulio II, sarà la prima acquisizione di quelli che conosciamo come musei Vaticani.
Riaffiorò dalla fredda terra di una vigna romana di proprietà del gentiluomo Felice de Fedris, la mattina del 14 gennaio del 1506. La notizia velocemente viaggiò per tutta Roma e Giuliano da Sangallo fu immediatamente inviato da Papa Giulio II a seguire gli scavi. La sua relazione fu fondamentale nel determinare l’attribuzione dell’opera che lentamente rinasceva dallo scavo; “Questo è il Laocoonte che fa menzione Plinio”, disse commosso, come ebbe a riferire 60 anni dopo suo figlio, Francesco da Sangallo, in una lettera a Vincenzo Borghini datata 28 febbraio 1567, nella quale testimoniava la sorpresa del padre davanti al lento palesarsi delle forme dell’opera.
La fonte pliniana era l’unica dell’antichità a riferire dell’esistenza di una mirabile scultura che raffigurava Laocoonte ed i figli straziati dai serpenti. Nel Rinascimento, grazie al Sangallo, fu dunque accettata senza difficoltà per riconoscere ed attribuire l’opera riemersa dal sottosuolo romano (peraltro assai – forse troppo – generoso, all’epoca, di ritrovamenti del genere detti anche, dal popolino, capocce).
Ma alcuni dettagli sparsi per il testo latino, e un continuo progresso nella ricerca archeologica, fecero immaginare, negli anni successivi alla scoperta, che il Laocoonte collocato nel Giardino del Belvedere (per volere del Della Rovere) fosse, e dunque sia, una scultura ben differente da quella che Plinio ebbe modo di descrivere. E che gli autori, di certo, non fossero Agesandro, Polidoro e Atenodoro ma qualcuno in possesso del talento figurativo e del genio necessario ad emularli: la ricerca si concentrò, dunque, più che sul ritrovamento del vero Laocoonte, sul suo vero scultore.
Il primo dubbio che sorge, attraverso una accurata osservazione del gruppo scultoreo, riguarda l’evidente presenza di giunture, almeno quattro, che tengono unita l’opera. Oltre a non rispettare le informazioni che Plinio aveva fornito, la creazione “ex multis lapidis”, invece che ”ex uno lapide”, si distacca dalla perfetta creazione da un solo blocco di marmo, caratteristica che elevava l’opera e che forniva il pretesto ad altri artisti rinascimentali di misurarsi con questa caratteristica fondamentale, in modo da dimostrare la propria perizia.
Un discreto numero di autori, fra il Cinquecento ed il Settecento, attesta, inoltre, l’esistenza di svariati frammenti di altre rappresentazioni del Laocoonte, che più naturalmente si adattavano alla descrizione di Plinio. Da Fulvio Orsini a Ulisse Aldovrandi, passando per Pirro Logorio che riguardo al “Laocoonteo monumento” scrive, nella sua enciclopedia:
“imagini d’esso Laocoonte da’ Romani essaltate: colli suoi duoi figliuoli intrigati insieme […]. Et una di queste si vede hoggidì in Roma nel Vaticano, del marmo pario, che fu trovata nelle therme di Philippo Imperatore; et dell’altra che scrive Plinio, assai maggiore delle dette, ch’erano tutte d’uno pezzo de una sola pietra, che furono nelle therme di Tito Augusto, ne havemo veduto li piedi et li draghi con alcuni pezzi, che mostravano molto meliore artificio che non è questo, ch’è conservato in Vaticano de duoi pezzi”
Nel recente 2005, la studiosa Americana Lynn Catterson, Ph.D. in Art History alla Columbia University, non solo ha mosso una critica all’attuale attribuzione, ma ha anche suggerito che il Laocoonte vaticano sia opera di un grande del Rinascimento italiano.
La studiosa, sottolineando il mistero che avvolge l’opera, e dando voce alle teorie che immaginano uno scultore rinascimentale come originale autore, espone la sua teoria ponendo una serie di quesiti: quale artista sarebbe mai stato in grado, durante il Rinascimento e in particolare a cavallo fra il Quattrocento ed il Cinquecento, di replicare le forme del Laocoonte descritto da Plinio? E chi mai ne avrebbe avuto i mezzi e i motivi? La studiosa trova una risposta comune a tutte queste domande in un nome: Michelangelo Buonarroti. Da qui il titolo della sua pubblicazione scientifica: Michelangelo’s Laocoon?” (Artibus et Historiae, 2005 ).
Tre certezze confortano la sua tesi.
La prima: l’artista, che gestiva personalmente le sue finanze, acquistò, nella sua carriera, una quantità di marmo tale da eccedere di gran lunga quella necessaria alla sua effettiva produzione artistica. E la Catterson si chiede perché.
E fa notare, seconda certezza, che Michelangelo conosceva approfonditamente il soggetto Laocoonte grazie allo studio degli affreschi di Filippino Lippi nella Villa Poggio a Caiano.
La terza parrebbe la più interessante: ossia la documentata tendenza giovanile dell’artista a copiare, replicare, riprodurre opere, talvolta cacciandosi in affari che avrebbero potuto mettere in pericolo il suo lavoro, ma che si dimostrarono in realtà solo una rampa di lancio (anche economica) per una delle più prolifiche e mirabili carriere nella storia dell’arte. È questo un aspetto della biografia di Michelangelo che potrebbe sorprendere un neofita, qualcuno che si affaccia per la prima volta alla vita e all’opera dell’artista.
Vasari, suo biografo, cita questa precisa abitudine sin dai primi paragrafi de “La Vita di Michelangelo Buonarroti. Pittore, Scultore et Architetto”. Da giovanissimo artista, oltre ad aver replicato “una carta di Martino tedesco stampata”, (nota oggi come il Tormento di Sant’Antonio) non disdegnava di ricopiare i disegni di altri artisti, dei maestri; invecchiandoli con perizia restituiva ai proprietari le copie, al fine di sottrarre gli originali. Vasari lo ricorda in questo modo:
“contrafece ancora carte di mano di varii maestri vecchi tanto simili, che non si riconoscevano, perché tignendole et invecchiandole con il fumo e con varie cose, in modo le insudiciava, che elle parevano vecchie, e paragonatole con la propria non si conosceva l’una dall’altra”.
Non ci sarebbe da soffermarsi su questa teoria (celeberrimo artista ma anche contraffattore?), che diventerebbe niente, un’audace e romantica interpretazione, se solo il giovane Michelangelo si fosse limitato a ricopiare alcuni disegni dei grandi (si ricordino gli studi sull’Ascensione di San Giovanni Evangelista e Il Tributo); ma, eccezionalmente, egli continuò a praticare, coltivare (e mettere a frutto) questa sua dote, al limite fra illegale e geniale. Nel Giardino di San Marco sviluppò un particolare interesse nella replica e nello studio di opere greco-romane: in questa scuola privata, finanziata da Lorenzo de’ Medici, si permetteva di apprendere la tecnica dello scolpire e del dipingere attraverso l’ispirazione e l’osservazione della personale collezione di statue classiche del mecenate e signore di Firenze.
Si inserisce in questo contesto l’aneddoto della creazione di una testa di fauno (anche questa confondibile con antiche rappresentazioni), opera nata in seguito ad un litigio con il Torrigiani (artista di genio ingiustamente ricordato soprattutto per aver “scolpito” il naso a Michelangelo con un pugno): “et egli inanimito dopo alcuni giorni si misse a contrafare con un pezzo di marmo una testa che v’era d’un fauno vecchio antico e grinzo, che era guasta nel naso e nella bocca rideva”.
Nel Giardino di San Marco a Michelangelo è permesso di esercitare la sua arte con una certa libertà: crea, tra l’altro, la Centauromachia, bassorilievo che ha come argomento la battaglia fra i Centauri ed il re Piritoo, in cui il giovane apprendista si misura con il linguaggio plastico dell’arte greca, dimostrando anche un certo talento per l’arte concettuale.
In particolare dell’arte dentro l’arte; al lato sinistro del bassorilievo ritrae, infatti, Fidia, il grande scultore greco che, a sua volta, si era ritratto nello scudo della dea Atena scolpita al lato del Partenone. Contemporaneamente arricchisce il suo bagaglio di nozioni sulla storia classica e dell’antologia mitica.
Non sono di interesse, almeno per rispettare il tema dei falsi, gli anni seguenti alla chiusura del Giardino: semplicemente, del breve periodo di soggiorno a Bologna che seguì, non risultano opere frutto di palese falsificazione, anche se non è da escludere che egli si sia dedicato ad incarichi nel privato: solamente quando Michelangelo tornò a Firenze lasciò correre nuovamente la sua antica indole, e produsse volontariamente un Cupido Dormiente. Fu venduto grazie all’intermediazione di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici al mercante d’arte Baldassarre del Milanese. Questi, a sua volta, lo vendette al Cardinale Raffaele Riario, spacciandola per un putto romano: in seguito all’acquisto, il cardinale si rese conto di essere stato ingannato, ma la qualità dell’opera era tale che il compratore si convinse a commissionare una statua scolpita da quel giovane, il quale con tanta perizia aveva replicato le forme di un’altra epoca, distante ormai secoli: pagò il Buonarroti centocinquanta ducati per il servizio, e dieci per comprare il blocco di marmo. Ne nacque il Bacco.
Il Bacco è una scultura di vitale importanza, sia come unicum nella scultura di Michelangelo (progettata per l’osservazione a trecentosessanta gradi), sia come chiave di volta nella ricerca dei falsi nella sua carriera: destinata al giardino di antichità del cardinale Riario, l’artista seppe coniugare la ricerca dell’antico con una nota di moderna interpretazione. La divinità stante, con un piccolo satiro ai suoi piedi, è visibilmente ebbra del vino che tiene in mano, ma è pronta a bere ancora dalla coppa che alza in alto, in un brindisi alla vita, all’ubriachezza: sembra quasi che il brindisi stesso sia l’unione del mondo reale, quello del pubblico che osserva, e quello fantastico in cui vive lo spirito del Bacco. L’opera fu privata di qualsiasi elemento che suggerisse la recente fattura, ma un attento osservatore avrebbe potuto scorgere il talento del suo scultore attraverso un’interpretazione più attenta delle curve, ma soprattutto della posizione della figura: rappresentare un Bacco barcollante voleva dire mettere in discussione la sua divina natura, i suoi culti, e di sicuro un antico non si sarebbe mai permesso di criticare i costumi di un popolo e di una divinità con una rappresentazione così sottile. Forse per questo motivo, per la velata critica all’antichità in un giardino in cui l’antichità stessa faceva da protagonista, il committente rifiutò l’opera così scolpita, anche se questa era perfettamente coerente con l’ambiente in cui sarebbe dovuta essere posta: almeno lo era dall’aspetto, invecchiato e rovinato con precisione (il braccio fu riparato con la mano e la coppa solo nel 1553, e la qualità del blocco era discutibile, caratteristica che in realtà aiutò l’artista a mascherare la fattura coeva alla vendita per il giardino).
Fin qui, le suggestioni in un senso. La Catterson ammette però che, da un punto di vista stilistico, il Laocoonte non appartiene in nessun modo allo scolpire michelangiolesco; suggerisce, però, allo stesso tempo che, con una certa dose di fantasia, si possono trovare delle analogie da un punto di vista prospettico: mettendo a confronto la vista aerea della Pietà e del Laocoonte, si nota infatti che il soggetto posto di fronte al pubblico si riduce alla visione della sommità del capo, mentre gli elementi ai lati prevalgono.
Tale argomentazione non dovrebbe, però, essere sufficiente a convincere il pubblico di una presunta paternità michelangiolesca. Più calzante potrebbe essere la tesi dei cosiddetti ‘illogici corporei’: i figlioletti del sacerdote – ragazzi che hanno appena superato l’età infantile – sono scolpiti usando proporzioni irreali per dei giovinetti di 10-12 anni: ecco che il disinteresse per la verosimiglianza di alcune figure si unisce armonicamente al tutto, mettendo, anzi, in risalto la figura centrale.
Bisogna poi fuggire l’idea che il Laocoonte sia un “exemplum doloris”, un esempio di dolore, quanto piuttosto un esempio di incredibile ed illogica bellezza. Non gli occhi che gridano o le membra che si contorcono: osserviamo istintivamente ancora oggi i muscoli torniti, le braccia che tentano di divellere i nodi e la dolcezza dei figlioletti. Ma, giustamente, Lynn Catterson spiega anche che, nel caso di un falso, lo stile è imitazione, quindi non necessariamente ricollegabile ad uno specifico artista.
Resterà impresa ardua affermare o escludere definitivamente che Michelangelo sia il vero autore del Laocoonte. L’appartenenza all’arte ellenica rimane una più che valida – e probabilmente giusta – teoria. Così come non si può dire che l’unica fonte a noi pervenuta, quella pliniana, parli effettivamente dell’opera che noi oggi osserviamo con stupore nei Musei Vaticani (se la descrizione coincidesse con l’opera i dubbi sull’attribuzione, infatti, non avrebbero avuto tanta fortuna). Tuttavia si può ragionevolmente ammettere che, almeno grazie al racconto della vita di Michelangelo, soprattutto nel caso lampante del Bacco, ci fosse un fiorente mercato del falso nell’Italia rinascimentale; in particolare nell’area storica di Roma, dove uno sviluppato interesse dell’antico, alimentato dai continui ritrovamenti, dall’imitazione dei costumi latini, e dal collezionismo di arte greca, muoveva un mercato di cui possiamo solo immaginare le dimensioni.
Il contesto storico, ma sopratutto economico, del Rinascimento, avrebbe potuto indurre qualsiasi artista, talento permettendo, a dedicarsi ad attività secondarie su un ricco mercato come quello del falso; oltre agli evidenti ritorni economici (e Michelangelo morì da uomo ricchissimo) l’arte della falsificazione stimolava la sfida a misurarsi con i canoni di perfezione di un’epoca ormai passata, ma le cui glorie artistiche, dopo secoli e secoli, venivano ancora lodate.
Lo stupore del Sangallo, davanti al riemergere dal silenzio dei secoli di un capolavoro, avrebbe senz’altro lusingato un falsificatore rinascimentale elevato a sintesi di tre “sommi artisti” classici. Il gusto della sfida e la curiosità, presumibilmente, l’avrebbe anche spinto sul luogo della messinscena, a lui ben nota. Ammesso che, come ipotizzato, il genialissimo falsificatore dell’altrui genio sia esistito davvero, difficilmente avrebbe rinunciato, per vanità, a vedere la meraviglia cambiare i connotati di chi smuoveva la terra dai “mirabili viluppi dei serpenti”, dal corpo possente del sacerdote troiano. Oltre all’inviato del Papa, che poi comprò la statua, i resoconti ci dicono che anche Michelangelo era lì, al bordo degli scavi, in mezzo alla meraviglia del popolo. Una coincidenza suggestiva, quasi maliziosa, però storica. L’autore di un giallo l’avrebbe amata.
Giovanni Maria SANNA Camaiore (Lu) 5 Febbraio 2023