di Mario URSINO*
*Ringrazio i miei ex colleghi della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, rispettivamente della Biblioteca, dell’Archivio Storico, dell’Ufficio Registrazione, dell’Archivio Bio-Iconografico, del Laboratorio di Restauro, che cortesemente mi hanno fornito le notizie utili e la possibilità di poter consultare testi e documentazione citati nel presente articolo: Giulia Talamo, Nunzia Fatone, Claudio Bianchi, Fabrizio Guglielmino, Stefano Marson, Lucia Lamanna, Clementina Conte, Stefania Navarra, Luciana Tozzi, Rodolfo Corrias, Paola Carnazza e in particolare Letizia Profiri, come detto nel testo, che ha restaurato il dipinto del Mancini, oggetto del nostro passato lavoro”. (M.U.)
Un ritratto de Il Duce di Antonio Mancini nell’Esposizione Internazionale di New York del 1939
Circa ottant’anni fa si tenne a New York una grandiosa Esposizione Internazionale, New York World’s Fair,dal 30 aprile 1939 al 31 ottobre del 1940 [fg.1]. Si era quindi a pochi mesi prima della Seconda Guerra Mondiale, iniziata, come è noto, il 1° settembre 1939 con l’occupazione nazista della Polonia. L’Italia, purtroppo, l’anno successivo, nel giugno del 1940, entrerà in guerra a fianco delle potenze dell’Asse, inevitabilmente, a causa della politica internazionale del governo fascista che, progressivamente, si era allontanato dalle democrazie liberali (Inghilterra, Francia, Belgio), sia per l’aggressione all’Etiopia nel 1935 (quest’ultima era stata un’azione internazionalmente illegittima poiché l’Etiopia era uno degli stati membri della Società delle Nazioni), sia per la partecipazione alla guerra civile di Spagna a fianco dei franchisti contro i repubblicani nel 1936, e ancora nel 1937 per l’Asse con la Germania e il Giappone, e infine per la promulgazione delle deprecabili leggi razziali nel 1938.
Nonostante tutto ciò la democrazia americana accolse con favore la partecipazione dell’Italia fascista a quella prestigiosa manifestazione [fig. 2] che, tra l’altro, ideologicamente, era ispirata ad un mondo di pace e di amichevole scambio culturale, commerciale, tecnologico tra i paesi partecipanti, di cui l’Esposizione Internazionale avrebbe attestato la concreta realtà. Fu così che il Padiglione Italiano fu affidato alla progettazione ed esecuzione del noto architetto Michele Busiri Vici (1894-1981) e della sua squadra circa due anni prima (1937-38) [fig. 3], in accordo con le istituzioni statunitensi. La storia di codesta iniziativa è stata ben esaminata da Lucia Masina nel suo notevole volume Vedere l’Italia nelle esposizioni universali del XX secolo: 1900-1958, Milano, 2016 (cfr. pp. 350-358 e 366-388). Il monumentale edificio del Padiglione Italiano [fig. 4] era alto 20 metri, largo 50 e lungo 144 su una superficie di 1000 mq. in forma rettangolare.
La sommità della facciata era sormontata dalla Dea Roma, replica dell’originale conservato in Campidoglio di fronte al Palazzo Senatorio. Sul bordo dello specchio d’acqua provocato della cascata da un’altezza di 60 metri era posizionata un’effige, eseguita dallo scultore Arturo Dazzi (1881-1966), di Guglielmo Marconi (1874-1937), scienziato molto noto in America [fig. 5].
Va detto che il Padiglione Italiano fu il più premiato tra tutti quelli delle altre nazioni:“Con grande capacità tecnica e gestionale Michele Busiri Vici affronta questa impegnativa esperienza, merito riconosciuto con il premio al miglior padiglione assegnato da una giuria internazionale e l’onorificenza conferitagli dalle autorità statunitensi”. (Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale Archivi, New York, Padiglione Italiano all’Esposizione universale, Michele Busiri Vici, 1938-1939).
Scrive la Masina a pagina 355: “Comunicano le cronache che moltissimi furono quelli che decisero di entrare nel nostro padiglione, incuriositi dal suo contenuto” [fig. 6].
Il successo della partecipazione italiana del resto era pienamente giustificato per la qualità, l’imponenza e l’originalità dell’architettura, edificata nello stile razionalista e monumentale dell’epoca [fig. 7] e per la cura delle sale dedicate al progetto EUR 42, al progresso della tecnologia [fig. 8], alla manifattura e alla moda italiana [fig. 9] (già allora molto apprezzata internazionalmente),
le sale dedicate ad illustrare la buona amministrazione delle colonie italiane, e infine (e come poteva mancare) la sala dedicata all’arte contemporanea italiana, con un considerevole numero di opere di pittura e scultura (138) provenienti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, dalle Gallerie di Firenze, di Torino e di Milano, come si legge nel breve testo introduttivo del Catalogo della Mostra d’Arte Italiana Contemporanea [fig. 10]:
“Questo insieme documenta in grande sintesi lo svolgimento della pittura e della scultura italiana dall’avvento del Governo fascista ad oggi (1922-1939) […]. Dopo il travaglio del dopoguerra l’arte italiana si staccò dall’internazionalismo artistico di moda e cercò di ritrovare la propria salute di grandezza rifacendosi alle lezioni del suo formidabile passato; senza copiare l’antico cercò di riassorbirne lo spirito fondamentale” (p. 34).
A parte il tono retorico di codeste espressioni, nella sostanza è autenticamente così, se si pone mente allo spirito libero del 1926 della corrente “Novecento Italiano” di Margherita Sarfatti (1880-1961), sino al “Premio Cremona”, voluto da Farinacci, che “non fu solo propaganda”, come è stato recentemente scritto sulla stampa, ma ci racconta per immagini lo spirito dell’adesione popolare all’Italia fascista, di cui oggi si fa la storia nella mostra, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, a cura di Rodolfo Bona e Vittorio Sgarbi (dal 21 settembre 2018 al 24 febbraio 2019 nel Museo civico di Cremona. Vedi l’intervista a Vittorio Sgarbi in questo numero di About Art)
E’ interessante notare che, negli stessi anni fu creato il Premio Bergamo (1939-1942), voluto dal più intelligente e colto ministro fascista, Giuseppe Bottai (1895-1959), in contrapposizione al Premio Cremona, con artisti più attenti alle qualità della pittura e alla libertà di espressione (si veda, a titolo di esempio, la famosa Crocifissione, 1940-1941 di Renato Guttuso, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che si aggiudicò il secondo premio nel 1942), e non troppo ideologicamente legati alle tematiche retoriche fasciste imposte da Roberto Farinacci (1892-1945), ex Segretario del Partito Nazionale Fascista. Parimenti vanno segnalate altre due mostre che si collegano in certo qual modo alle opere d’arte contemporanea italiane dell’Expo newyorchese del 1939, a Milano nel Museo del Novecento, e al Mart di Rovereto (dal 21 settembre 2018 al 24 febbraio 2019), dedicate alla figura e all’opera della sopra citata Margherita Sarfatti, mentore di molti di quegli stessi artisti autori delle opere esposte nella Sala dell’arte contemporanea nel Padiglione italiano.
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La sala del Padiglione dell’arte contemporanea italiana si apriva (naturalmente) con il ritratto Il Duce, 1929, un olio su tela, cm. 80×70 [fig.11] di Antonio Mancini (1852-1930) [fig. 12]; l’opera era stata acquistata alla mostra a Roma del Centenario della Società Amatori e Cultori di Belle Arti 1929-1930, (Sala IV, n.1, Il Duce, in cat. p. 27, dove figuravano altri 6 dipinti dell’artista) dal Ministero dell’Educazione Nazionale per le collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, e consegnata al museo il 12 maggio 1930, registrata con numero di inventario 2993, pagato £ 13.000 (come da nota del Ministero dell’Educazione Nazionale del 19 aprile 1930, n. 2917 alla Galleria Nazionale, Archivio Gnam). Il dipinto fu esposto, verosimilmente per la prima volta, nel nuovo allestimento della Galleria nel 1938 dall’allora Soprintendente Roberto Papini (1883-1957), in un numero limitato di sale, poiché tutto l’ampliamento del famoso architetto Cesare Bazzani (1873-1939), oltre a sei sale dell’ala sinistra del museo, erano occupate dalla Mostra della Rivoluzione Fascista dal 1934 agli anni della guerra; il ritratto figurava nella sala XX [fig. 13], insieme ad altre dieci dipinti del Mancini (nella foto dell’epoca si vedono un Autoritratto dell’artista, il ritratto Lydia e il Ritratto di mio padre, citati nel catalogo Elenco delle Opere Esposte nella R. Galleria Nazionale d’Arte Moderna, p. 29, a cura di Ercole Maselli, Roma, 1938). La stampa italiana e straniera diedero molta rilevanza alla riapertura delle sale del museo, in particolare ne “Il Mattino”, Napoli, 26 maggio 1938: “Il Rinnovamento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna”, di Lina Casella, si tiene a sottolineare a proposito dell’allestimento nelle sale: “magnifica quella del Mancini”, e ancora ne “Il Popolo di Trieste”, 28 giugno 1938, il giornalista Spinello Oporti nel suo articolo, “Dopolavoro in Mostra e Rinascita in Valle Giulia”, conclude il suo testo sul ritratto de Il Duce e così scrive: “Una sala dove si lasciano gli occhi ed il cuore, e dove del Mancini, c’è il ritratto del Duce, nell’uniforme di Ministro, con feluca, il capo sollevato a guardare in alto, la bocca dischiusa, che è il più bel ritratto in pittura di Benito Mussolini”.
L’interessante dipinto, nella tipica fattura manciniana, tornerà dall’America a Roma, insieme a tutte le altre opere italiane dell’esposizione, solo nel marzo del 1947 a causa della guerra, nonostante le precedenti richieste del governo italiano dopo la chiusura della mostra nel 1940. La risposta, in una lettera indirizzata alla Galleria il 17 gennaio 1941, n.10007 (Archivio Gnam) del Commissariato Generale d’Italia per l’Expo del 1939, sede di Roma, fu perentoria: “Il ritorno in Patria di tali opere non potrà avvenire che quando in futuro saranno ripresi i normali traffici tra l’Italia e l’America”, assicurando ad esse la migliore conservazione e climatizzazione presso la Manhattan Storage and Warehouse Company. Perciò Palma Bucarelli poté riallestire nuovamente il museo con le collezioni solo a partire dal 1948 in 74 sale suddivise in Ottocento e Novecento, di cui compilò il relativo catalogo nel 1951, ripubblicato poi nel 1973 a cura del Poligrafico dello Stato. La direttrice dedicò al Mancini la sala XXVI, scrivendo tra l’altro: “Autore d’istinto, pieno di impeti generosi, non lo sorresse una cultura pari alle sue doti (opinione, a mio avviso, non condivisibile, ndA) e finì per essere l’accademico dell’antiaccademismo” (p. 26). Nella sala però non figuravano né l’Autoritratto, né Il Duce, né tali opere furono inspiegabilmente citate nell’Elenco degli Artisti e delle Opere del suddetto catalogo alla voce “Antonio Mancini” (p. 146). Il ritratto finì così dimenticato nei depositi della Galleria fino a quando è riemerso (ma mai più esposto nel museo e in Italia dal 1938), in occasione della pubblicazione dell’ottimo catalogo del nuovo ed accurato allestimento della soprintendente Sandra Pinto, in due volumi, delle opere del XIX e XX secolo (2006); nel primo Il Duce compare alla voce “Antonio Mancini” dell’Indice degli artisti e delle opere, p. 406, nel quale si elencano 13 opere del maestro di proprietà del museo (di cui ne furono esposte solo 7). E, a proposito del ritratto che stiamo ricordando, ha scritto la Pinto nel testo introduttivo alla sala ove dette opere erano esposte: “All’artista, scomparso nel 1930, sarà infatti dedicata nel 1938 una presentazione monografica nella sala XX (come già detto più sopra dal sottoscritto): ambiente da presumere di ordinamento imbarazzante per il direttore, considerato l’obbligo di esporre il ritratto dell’ultimo Mancini di un Mussolini nel pieno della sua rappresentatività di vertice”. Stupiscono, in certo senso, queste parole della studiosa, considerato il fatto che Roberto Papini è stato sempre un funzionario perfettamente aderente al governo fascista, dal quale ebbe incarichi pubblici e di docenza, certamente meritati, e quindi non si comprende perché mai il ritratto mussoliniano avrebbe dovuto procurargli imbarazzo; Mussolini visitò la Galleria nel marzo del 1939, come riporta un articolo, Il “Duce visita alcune grandi opere” e “Alla Galleria d’arte Moderna” su “L’Ambrosiano”, Milano, 14 marzo 1939, dove si legge: Il Duce si interessa minutamente, sala per sala, al nuovo ordinamento […] infine esprime il suo compiacimento al direttore della Galleria”. (E’ molto probabile che nella data della visita di Mussolini in Galleria, il suo ritratto non fosse più presente nella sala, poiché il dipinto risultava in partenza, con tutte le altre opere, per gli Stati Uniti il 16 marzo da Napoli con il famoso transatlantico Rex, come si evince dal carteggio d’ufficio, in una nota del 9 febbraio 1939, prot. 4905, sull’avviso dell’invio a New York, Archivio Gnam). Quanto a Papini, va detto che non ci sono prove di un suo ipotetico antifascismo (cfr. Mariastella Margozzi, Roberto Papini, in Dizionario Biografico dei Soprintendenti Storici dell’Arte (1904-1974), a cura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2007, pp. 454-459). Inoltre, la Pinto ha definito il ritratto “un quadro di regime” (cat. cit. p. 213). Giudizio critico personale, a mio avviso, che non può essere accolto: ben altre sono le rappresentazioni di regime, che la Galleria ha dovuto accettare, e valgano per tutte le monumentali sculture in bronzo di S.M. Il Re Imperatore (Vittorio Emanuele III) di Francesco Messina (1900-1995) e del Il Duce di Romano Romanelli (1882-1968) (entrambe alte tre metri, figg. 14-15) che furono poste in apertura della Sala d’Onore [fig. 16] del Padiglione Italiano nel 1939 a New York.
Dette sculture erano state acquistate per l’occasione dal Commissariato Generale d’Italia a New York all’Expo, e successivamente offerte in dono alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna (che ovviamente non le poté rifiutare, come si evince dalla risposta positiva del 1° luglio 1940, Archivio Gnam), e ancora oggi esse sono conservate, dal 1947, nei depositi del nostro museo d’arte moderna: queste sì che sono opere di regime! Ma, a parte i giudizi critici che ciascuno è libero di esprimere, quel misurato, a mio avviso, delizioso ritratto del Mancini ha continuato a creare “imbarazzo”, poiché fu ignorato anche da stimati storici dell’arte come Bruno Mantura ed Elena Di Majo nella loro bella mostra retrospettiva di Mancini a Spoleto nel 1991.
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Il ritratto Il Duce, 1929, di Antonio Mancini, è stato da me riesaminato nei primi sei mesi dell’ ultimo anno del mio servizio al museo, nel 2011, e lo feci trasferire nel Laboratorio di Restauro della Galleria, affidandolo alle cure di una delle migliori restauratrici, Letizia Profiri, che restituì l’opera al suo splendore, dopo un’accurata pulitura; il dipinto infatti era perfettamente integro [v. recto in figg. 17-18-19], ma molto offuscato sulla superficie pittorica dallo sporco e decenni di oblio.
Ancora oggi l’opera è ben conservata nei depositi, ancorché visitabili a richiesta, ma perfettamente ignota sia agli studiosi del Mancini, sia al pubblico in generale, poiché io stesso, a causa del mio pensionamento, non ho avuto la possibilità di presentarlo, anche se solo temporaneamente, in occasione del restauro dell’opera, nelle sale del nostro museo nazionale, come esempio di una singolare effige del dittatore italiano, assolutamente antiretorica: in quella divisa da primo ministro il Mancini l’ha interpretato e rappresentato, data la sua indole ingenua e istintiva, come un personaggio in un costume teatrale su un fondo neutro, cosa assolutamente insolita nella pittura del Mancini. Ma quest’aspetto dell’opera la critica non è stata mai in grado di recepirlo, a causa di un perdurante pregiudizio ideologico, che ha prevalso sempre sulle ragioni dell’arte.
Questo bel ritratto, a mio avviso, è interessante per diverse ragioni: non è affatto un’opera propagandistica (Mussolini non ne aveva certo bisogno in quegli anni, e non risulta che abbia mai posato per il Mancini), non fu perciò commissionata da alcuno a questo fine, fu eseguita dall’artista, ormai molto anziano, verosimilmente nel 1929, un anno prima della sua scomparsa, nella tipica maniera “antiaccademica”, e, come notava acutamente Cipriano Efisio Oppo nel 1940 a proposito della pittura del Mancini, “La materia manciniana è come una forza espressa in eruzione, che si dispone via via in semplici liquidi trasparenti in strati cristallini e più spessi, e sempre più spessi e grumosi; che si calcifica e si immadreperla. Il bianco, questo non colore, è adoperato dal Mancini come luce…”. (C. E. Oppo, Ottocento Pittorico. Antonio Mancini, “Il Frontespizio”, Firenze, Agosto 1940, pp. 425-426). Difatti è proprio così la composizione del ductus pittorico nel ritratto Il Duce: si guardi, ad esempio, quella luminosissima strisciata corposa di bianco che traversa il volto dell’effigiato (rivelatasi in tutta la sua luce dopo il restauro), proprio come dovette apparire all’Expo di New York nel 1939, e così fu riprodotta (foto a p. 37), cat. n. 75, in Mostra d’arte contemporanea italiana, Padiglione Italiano, Editoriale Domus, Milano 1939 sopra citato [fig. 20].
Va ricordato che Benito Mussolini nel 1926 fece una visita ufficiale a Genova, in occasione dell’undicesimo anniversario dell’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, indossando proprio quella divisa da Primo Ministro con feluca, e la stampa dell’epoca diffuse numerose foto del Duce in vari atteggiamenti: in particolare lo scatto più felice fu l’attimo in cui il personaggio sorridente saluta e si ripara dal sole [fig. 21], tale foto del Duce compare anche in una delle illustrazioni del noto volume Mussolini Piccolo Borghese, Garzanti, 1950, p. 256, del famoso giornalista e scrittore Paolo Monelli (1891-1984), compagno di vita e poi marito della mitica Palma Bucarelli; ad un evidente e inedito confronto, il ritratto Il Duce del Mancini coincide perfettamente con la foto sopra descritta, in un momento della sua ascesa al vasto consenso del Paese; a questo proposito ha scritto Monelli nel suo libro:
“Un mio illustre collega, che poi andò a finire al confino per antifascismo, un giorno sfogliava con me una collezione di giornali del 1926; vide quelle notizie nitide, i cambi stabili, le esportazioni in aumento, il paese pacifico, iniziate opere pubbliche di bonifiche, di colture, ospedali, e brefotrofi e asili infantili; eccellenti le relazioni con i paesi stranieri, la voce dei nostri delegati ascoltata nei congressi internazionali…” (p. 170);
si tenga presente che l’anno prima Mussolini aveva partecipato alla Conferenza di Locarno del 1925, con Francia, Regno Unito, Germania, Belgio e Italia, e si era mostrato ben disposto a riconoscere e a salvaguardare i confini dell’Europa definiti dopo la Conferenza della Pace, soprattutto quello tra la Germania e l’Austria repubblicana, che avrebbe garantito anche la nostra frontiera al Brennero. E sono significative, a tale riguardo, le parole pronunciate da Winston Churchill, in occasione di una visita ufficiale a Roma, durante una conferenza all’Ambasciata inglese il 20 gennaio 1927: “Non potei non rimanere affascinato, come tanta altre persone, dal cortese e semplice comportamento dell’Onorevole Mussolini e dal suo contegno calmo e sereno […]. L’unico suo pensiero è il benessere degli italiani…”. Il testo della conferenza dell’allora Cancelliere dello Scacchiere fu pubblicato sul “Corriere della Sera” del 21 gennaio 1927. E’ lecito supporre che questi garbati apprezzamenti di una delle maggiori personalità del Regno Unito, e da altri personaggi del governo britannico, nei confronti del Duce (cfr. al riguardo, Pierre Milza, Mussolini, Carocci, Roma 2005, pp. 455-456), dovettero suscitare anche in Mancini l’idea di rappresentarlo nel felice ritratto in questione, non per commissione, come dicevo, bensì per propria personale ammirazione, cogliendone, attraverso una semplice foto apparsa su molti giornali dell’epoca, un raro tratto gentile e felice di un uomo politico che se avesse condotto con più discernimento, conservando il consenso italiano e internazionale conseguito almeno fino al 1934, avrebbe potuto evitare il tragico epilogo dello Stato italiano nella Seconda Guerra Mondiale.
Mario URSINO Roma novembre 2018