di Francesca SARACENO
LA STRAORDINARIA VICENDA DELLA REGINA CRISTINA DI SVEZIA, NELL’ULTIMO LIBRO DI ANNAROSA MATTEI.
“La regina che amava la libertà. Storia di Cristina di Svezia dal nord Europa alla Roma barocca”
Tra le figure storiche che nel tempo hanno affascinato, incuriosito e appassionato studiosi ed estimatori, Cristina di Svezia, oggi, ambisce sicuramente al podio se non al primato. Sorretta da quell’aura intrepida di ardimento e trasgressione che tanto sollecita i sensi dell’uomo moderno, ingabbiati nel recinto stretto delle convenzioni sociali e del “politicamente corretto”, Cristina si erge come un faro di grandeur che affranca dall’appiattimento culturale nel quale versa la nostra pavida e indolente società. E come accade per tutti i grandi eroi ribelli, anche per l’indomita Cristina la letteratura – come anche il cinema – non ha lesinato inchiostro, pagine e anni di studi e indagini, alla ricerca forse di quella chiave di lettura che meglio ne rendesse la personalità poliedrica e scandalosa.
Ma a differenza di quanto possa fare un saggio scientifico o un romanzo storico, o ancora un’opera cinematografica che, per loro stessa natura, rispondono a logiche narrative e strutturali ben definite, il libro di Annarosa Mattei, “La regina che amava la libertà. Storia di Cristina di Svezia dal nord Europa alla Roma barocca” (Salani editore, 2023), si propone al lettore come opera compendiaria, in cui confluiscono in maniera del tutto naturale biografia, storia, arte, mistero, analisi, riflessioni; in un flusso continuo, limpido e corposo, di informazioni e considerazioni su un personaggio la cui vita è già un romanzo. Anzi, una fiaba.
E infatti…
“C’era una volta un re … No! C’era una volta una regina che voleva essere un re”, scrive la Mattei.
Eppure, in questo libro – come nella vicenda di Cristina di Svezia – nulla è “romanzato” perché la realtà che racconta, in gran parte derivata dalle cronache autografe della stessa protagonista, ha già molto di fiabesco. Se un merito va attribuito subito all’autrice è proprio quello di aver saputo evitare la facile trappola – e forse anche la tentazione – di mitizzare oltremodo quella che è prima di tutto una figura storica, al solo scopo di rendere ancor più intrigante il racconto. Non ce n’era affatto bisogno, perché la natura stessa di Cristina fu tale che ogni altro “eccesso” sarebbe stato superfluo e forse stucchevole. La Mattei dimostra, in questo senso, un’estrema consapevolezza nel ripercorrere le orme nette e profonde di un personaggio come Cristina, e lo fa in maniera ineccepibile. Ci dà conto di tutte le autorevoli fonti dell’epoca che registrano puntualmente gli avvenimenti e gli spostamenti della regina, conferendo al suo saggio un indiscutibile rigore storico; sia quando le fonti si dimostrano accondiscendenti con l’indole libertaria di Cristina, sia quando ne mettono in luce gli aspetti più negativi e le critiche verso il suo stile di vita così sregolato. L’impersonalità nella narrazione, lungi dal voler evitare una presa di posizione in un senso o nell’altro, è un valore aggiunto che va assolutamente riconosciuto alla Mattei, la quale rifugge così dal pericolo di santificare o demonizzare una figura controversa e per questo affascinante, lasciando al lettore un’assoluta libertà di giudizio.
D’altra parte questo è anche il primo elemento che viene evidenziato dal Claudio Strinati nella sua prefazione, quando afferma che nel libro si ripercorre la vita della regina
“con la massima attenzione a distinguere la verità dalla leggenda, l’aneddotica stratificatasi sulla figura dalla concretezza dei documenti e delle testimonianze”.
E infatti la Mattei, senza indugiare più di tanto sulle vicende più personali e scandalistiche di Cristina, pur dandone conto, è molto attenta a sottolineare la grande intelligenza relazionale e politica di questa donna nonostante le difficoltà, i colpi di testa e i pericoli a cui costantemente si espose, sostenuta da una visione del mondo forse utopistica ma perseguita con determinazione e caparbietà.
In questo senso, le pagine introduttive del libro risultano per il lettore un’opportuna carrellata di eventi, nomi e circostanze che lo conducono e lo preparano all’incontro con un personaggio decisamente atipico che, proprio per questo, è assolutamente necessario inquadrare nel contesto storico e nell’ambiente sociale in cui visse la propria straordinaria vicenda umana. Allo stesso modo, procedere per gradi iniziando dalle origini del casato dei Vasa di Svezia, è utile a definire le radici territoriali e culturali di una donna che in realtà, in quell’ambiente così algido e privo di alcuna bellezza, si sentì sempre fuori posto, come aliena nel suo stesso pianeta; lei sanguigna e passionale, ardeva di un fuoco inestinguibile e inspiegabile, che la consumò fino all’ultimo giorno della sua esistenza. La Svezia di Cristina, delineata dalla Mattei, si staglia come un’arida rupe sullo sfondo glaciale delle più estreme latitudini, dove un popolo poco avvezzo alla bellezza e molto invece alla guerra, stentava a trovare un posto di rilievo nel complesso scenario delle grandi potenze europee del XVII secolo.
L’autrice, forte di una scrittura agile e – per questo – senza timore alcuno di scadere nel tedioso, si sofferma nell’annoso racconto della Guerra dei Trent’anni, pienamente in corso mentre veniva al mondo Cristina, riassumendo il ruolo centrale di Gustavo Adolfo II, padre della futura regina, il quale seppe agire da grande stratega, conquistando alla sua nazione una posizione militare dominante e, attraverso quella, una maggiore considerazione da parte degli altri regni. Assicurando in tal modo alla piccola Cristina un futuro in cui il regno di Svezia non sarebbe rimasto ai margini. E il rapporto di Cristina con il padre è uno dei passaggi più importanti e meglio definiti dell’intera vicenda da parte dell’autrice, poiché proprio da esso venne forgiato il carattere inossidabile della futura regina. Nessuno riuscì mai a domare la sua indole selvaggia.
Lo spirito libero e indomito della regina di Svezia nasce insieme a lei, a cui nemmeno la natura aveva potuto imporre dominio conferendole un’identità di genere ben definita. Cristina Alessandra Maria di Svezia fu, come scrive la Mattei, “un ossimoro vivente da che venne al mondo”, a partire dalle sue caratteristiche morfologiche per le quali, sulle prime, venne scambiata per un maschio e solo dopo attenta analisi ne venne accertata l’identità femminile. Ma proprio quell’anomalia così peculiare indusse forse il padre ad assecondare quello che sembrava un segno premonitore, e farla educare come un ragazzo; Cristina era destinata ad assumere il ruolo del perfetto “principe”, il cui prototipo per lei era Alessandro Magno.
Il racconto dell’infanzia di Cristina – divisa tra l’adorazione verso il padre (perduto troppo presto) e il rifiuto della figura materna – e della sua adolescenza, trascorsa nel più severo rigore tra studio “matto e disperatissimo” ed esercizio fisico al limite dell’autolesionismo, che la stessa aspirante “principe” si era imposta, scorre chiaro e veloce, seguendo il filo di una scrittura mai artificiosa, mai pesante, nella struttura come nell’esposizione. E anche quando riferisce le primissime esperienze di governo di Cristina, educata all’arte del comando dal fido reggente Oxenstierna, dopo l’eroica morte del re in battaglia e i tetri anni di lutto e isolamento trascorsi insieme alla madre, con l’obbiettivo di farne davvero una regina degna del proprio ruolo come di quello della Svezia, l’autrice non tralascia di sottolineare i suoi modi “connaturati” da ragazzaccio sfrenato, ma sembra voler mettere in luce soprattutto la capacità di Cristina – in quanto “anche” donna – di porsi come mediatrice, rispetto alle logiche belligeranti tipiche degli uomini; e in tal senso fa riflettere su quanto questo aspetto sia, ancora oggi, un punto di forza e un valore aggiunto nelle azioni politiche delle donne.
Grandissimo spazio nel libro è dedicato agli interessi culturali della regina vero motore di ogni sua azione, esistenziale e politica. Già dalla prefazione, dove Claudio Strinati si sofferma ampiamente sulla passione della regina per le arti – tutte le arti – e sulle sue ricchissime collezioni, di cui l’autrice dà conto insieme alle loro collocazioni all’interno di Palazzo Riario alla Lungara, sua ultima e stabile residenza romana, in modo da delinearne, attraverso la scelta delle opere, quella che era la personalità eccentrica e poliedrica, nonché di colta intenditrice.
Cristina trasfigurava se stessa in questa imponente raccolta, che alla sua morte purtroppo si disperse e molte delle opere si trovano oggi in diversi musei del mondo. Indugiare sulle collezioni d’arte dedicandovi diverse pagine, non è per l’autrice un mero esercizio documentaristico ma un mezzo per inquadrare alla perfezione un personaggio e un’epoca – il barocco – assolutamente identitari l’uno dell’altra e viceversa.
Allo stesso modo la Mattei riferisce delle infinite ore di studio e ricerca di Cristina sugli amati testi di filosofia antica, di filologia, nonché di scienze e alchimia (sua grande passione), fino ai più quotati intelletti che in quel periodo storico emergevano (Cartesio, Bourdelot, Gassendi, Pascal, Bernini, Borri, Palombara, solo per citarne alcuni), e che si avvicendarono di volta in volta alla sua corte, talché il lettore percepisca – in tutta la sua prorompente vastità – la portata enorme delle conoscenze da lei acquisite; questa fame insaziabile di sapere, che la consumava e che tendeva a raggiungere ciò in cui nessuno ancora era mai riuscito: “L’armonia tra gli opposti, non solo maschile e femminile ma tra la pace e la guerra”, tra le libertà individuali e la ragion di stato, tra il piacere e il dovere. Tutte le passioni cocenti che da sempre laceravano il suo animo costantemente in cerca di pacificazione.
Come il sentimento d’amore, a cui l’autrice nel suo libro – senza mai scadere nel racconto “da cappa e spada” o nel romanzo “rosa-scandalistico” – dedica lo spazio “biografico” necessario a definire il peso e il posto che esso occupò nella vicenda umana della regina. La quale, pur vivendo ogni relazione, anche la più peccaminosa, in maniera appassionata e senza freni inibitori, forse non sperimentò mai pienamente l’amore, perché ciò le avrebbe imposto ogni volta una scelta di genere (nonché di status, dal momento che rifiutò sempre categoricamente il matrimonio) che non era disposta a fare e che avrebbe condizionato la sua esistenza, togliendole quella libertà che per lei contava più di ogni altra cosa. Lo visse più che altro, scrive la Mattei, come “esplorazione di sé nell’attrazione verso l’altro da sé.”
E tra le questioni che afferiscono alla sfera dell’anima, grande attenzione viene posta a quella forse più delicata ed essenziale per Cristina, ovvero la fede. Un argomento nel quale sarebbe stato probabilmente facile impantanarsi, se non fosse che l’autrice ha ben chiaro il “pragmatismo” con cui l’impavida regina – al di là di un comunque possibile anelito spirituale, sebbene la sua stessa condotta ne escluderebbe qualunque peso – prese la decisione di convertirsi al cattolicesimo, ben sapendo di tirarsi addosso l’ira funesta del Senato svedese dal quale dipendeva in gran parte il mantenimento del suo tenore di vita. La Mattei, senza minimamente cedere a personalismi di sorta, evidenzia come Cristina considerasse il cattolicesimo principalmente uno strumento utile all’ottenimento di quelle libertà che il rigore protestante le aveva sempre negato; anche perché i successi carrieristici dei dotti religiosi cattolici che erano stati suoi maestri, l’avevano convinta che il cattolicesimo dovesse essere, tutto sommato, una religione più tollerante e inclusiva con gli intellettuali di quanto non fosse il tetro luteranesimo.
E a lei interessava essenzialmente questo: libertà di pensiero, libertà di azione. Stoccolma non le garantiva nulla di tutto ciò, nemmeno in qualità di regina. Roma invece si. E se per ottenere il suo scopo serviva rinunciare al regno di Svezia e inchinarsi al pontefice, lei era assolutamente disposta a farlo. L’impeto dei suoi desideri prevaleva sempre sulla ragione. L’idea di libertà ottenuta abdicando al trono di Svezia, per Cristina, non comprendeva però le ovvie difficoltà che si sarebbero presentante nell’immediato futuro; e la Mattei sottolinea come – forse ingenuamente o forse no – Cristina pensasse di lasciare solo un incarico politico ma non tutti i privilegi a cui era stata abituata fin dalla nascita e che riteneva propri del suo rango. Ma l’autrice, giustamente, si chiede – e invita il lettore a chiedersi – se davvero quella rinuncia al trono fosse necessaria e i motivi dai quali maturò la decisione:
“perché intendeva convertirsi? Perché non intendeva in nessun caso sposarsi? Perché voleva essere assolutamente libera? O perché aveva in mente un progetto politico di rinnovamento totale nel quadro mutato degli equilibri europei?”
Ciò che appare chiaro è che, nonostante lei la considerasse una pura formalità, la sua abdicazione rischiava di ledere i delicati equilibri geopolitici in cui la Svezia, che tanto aveva faticato a costruirsi un ruolo, restava indebolita.
Che poi la religione cattolica, così come le era stata spiegata, le apparisse davvero più vicina al suo ideale spirituale, è ciò su cui l’autrice riflette; ovvero sull’idea che Cristina si era fatta del cattolicesimo e sulle reali motivazioni che l’avevano indotta alla conversione. Una conversione in senso più filosofico che precettistico; infatti Cristina, che mai aveva osservato i riti luterani, certamente altrettanto non avrebbe fatto con quelli cattolici. Si era convertita a un ideale cristiano che percepiva come libero e inclusivo, in cui ciascuno avrebbe potuto professare liberamente il proprio credo, e pensava che il papa sarebbe stato un interlocutore molto meno rigido di quanto non lo fosse il clero luterano. In realtà, come opportunamente fa notare la Mattei, Alessandro VII Chigi, salito al soglio pontificio nell’aprile del 1655, nonostante le giustificate riserve che nutriva nei confronti della chiacchieratissima regina di Svezia, la accolse in città con tutti gli onori perché riteneva politicamente utile ed efficace per il potere della Chiesa, ostentare come una grande vittoria la conversione pubblica di una regina luterana.
Ciò che emerge dalle pagine di questo libro è che Cristina di Svezia, in realtà, fu trattata sempre come una pedina in quel complesso gioco di equilibri politici sul quale si reggevano le sorti dei regni europei. Ne fu un esempio lampante la vicenda della possibile concessione del regno di Napoli, che in realtà fu solo uno specchietto per le allodole per Cristina, perché i francesi volevano ottenere il trono di Napoli ma non certo attraverso le mire assolutistiche di una regina svedese del tutto inaffidabile. Lo stesso dicasi per il tentativo di guadagnare il trono di Polonia, dove i senatori non avrebbero mai eletto una donna, asserendo che “quella” in particolare avrebbe fatto meglio a sposarsi.
La fama diffusa della sua duplice identità di genere, la precedente esperienza di governo, la grande cultura di Cristina, le sue capacità diplomatiche e le relazioni internazionali che aveva intessuto nel tempo, valsero a nulla di fronte all’intransigenza di una società in cui il ruolo della donna era sempre e comunque sottoposto al controllo di un uomo. Chi le fece balenare delle possibilità di regnare lo fece solo per puro opportunismo. Perfino i tanti colti maestri che la regina chiamò al suo cospetto da ogni parte d’Europa, non fecero che assecondare quelle convinzioni che lei aveva maturato già da tempo, orientandole e smussandole a seconda dei loro intenti politici; ora in favore della Spagna, ora della Francia.
Ma d’altra parte anche Cristina, come acutamente evidenzia la Mattei, fece lo stesso con Luigi XIV, con l’Imperatore Ferdinando III d’Asburgo, con il re di Spagna, con lo stesso papa; ogni volta che si pose come mediatrice nelle aspre questioni territoriali e di influenza politica tra i grandi d’Europa, Cristina perseguì essenzialmente uno scopo personale. Un regno tutto suo, anzitutto, in cui instaurare quel sistema di governo tanto ambizioso quanto utopistico, nel quale il suo assolutismo avrebbe garantito – per paradosso – tante libertà altrimenti impossibili. E poi l’ottenimento di quei finanziamenti senza i quali sarebbe stato impossibile, a una regina senza regno, mantenere un tenore di vita sfacciatamente opulento, ai limiti della decenza. Se un elemento può essere individuato in tutto ciò, questo è certamente il cinismo; dall’una e dall’altra parte.
Ecco, il valore di un libro di storia si misura anche dalla lucidità e imparzialità con cui si analizzano fatti e circostanze, e la Mattei dimostra in questo una grande accortezza.
Bellissimo il capitolo in cui viene descritta la Roma che accolse Cristina nell’inverno del 1655 “come un vasto e operoso cantiere”. Un opificio di bellezza e conoscenza che certamente sollecitò tantissimo la curiosità della regina. L’autrice si sofferma non poco sullo stupore che ogni nuova scoperta, ogni visita o spettacolo messo in scena dalle grandi famiglie romane per compiacerla, suscitava nell’animo di Cristina, sottolineando in tal modo la grande fame di bellezza e di sapere che muoveva ogni suo passo; mai paga, mai sazia, come se percepisse negli occhi e nell’anima il concretizzarsi di un sogno, ciò per cui sentiva di essere nata. E in effetti la scrittura della Mattei, in certi tratti, sembra proprio quella di una fiaba in cui si racconti di Roma come di un mondo incantato, e di Cristina come una nuova Alice nel paese delle meraviglie.
Ma come spesso accade nelle favole, la regina a volte non è quel fiorellino candido che ci si può immaginare, e nel caso specifico di Cristina, la Mattei non si esime dal riferirne anche gli aspetti più crudeli e intolleranti. Tanto con i suoi numerosi amanti quanto con i suoi collaboratori; Cristina governava come una donna ma puniva come un uomo, come non avesse sentimenti in caso di tradimento. E tanti caddero sotto la lama fredda della sua vendetta. Di notevole importanza come l’autrice – anche a mezzo nota – sia meticolosa nel tratteggiare con scrupolo i personaggi che di volta in volta entrano in scena al fianco della protagonista, perché il lettore ne sia edotto e possa meglio riflettere sulle influenze che da quelle frequentazioni scaturivano per la regina, nonché contestualizzare in maniera corretta ed efficace il particolare momento storico in cui la narrazione si svolge.
Infine, un doveroso elogio per l’accuratezza con cui la Mattei riferisce delle tante Accademie che fiorivano in quel “secolo d’oro” che fu il Seicento e di come Cristina ne fu entusiasta sostenitrice, appassionata al punto da fondarne di sue; l’Amaranta in giovinezza, e poi l’Accademia Reale nell’ultimo suo periodo romano, dove realizzò quell’ideale luogo di cultura enciclopedica, cosmopolita, inclusiva, in cui qualunque studioso o intellettuale, nelle più disparate discipline, potesse esprimere liberamente il proprio pensiero e coltivare senza ostacoli il proprio talento. Un’esperienza che i sodali di Cristina continuarono dopo la sua morte dando vita all’Arcadia che ne proseguì le attività e gli intenti culturali, sebbene in maniera più prudente e morigerata rispetto all’entusiasmo travolgente con cui Cristina aveva sempre condotto ogni sua attività.
L’amore per il teatro, anch’esso considerato luogo eletto per la libertà di espressione, che Cristina riuscì a concretizzare facendo ristrutturare un edificio dismesso a Tordinona. E poi l’imponente mole di volumi (oltre 6000, tra libri a stampa e manoscritti) che arricchirono l’immensa biblioteca romana della regina, specchio della sua sterminata cultura e dei suoi molteplici interessi. Spiccavano tra le migliaia di volumi soprattutto testi di filosofia antica e alchimia, ma nessun ambito del sapere era escluso, e tutte le sezioni vennero sapientemente curate di volta in volta da fedelissimi bibliotecari scelti dalla regina in persona, come tutti i suoi stretti collaboratori.
Se non un territorio sul quale governare, Cristina ebbe almeno un luogo – Palazzo Riario – da plasmare a sua immagine somiglianza; come scrive la Mattei “il regno perseguito e infine trovato da Cristina fu quello delle idee”.
Per Cristina, regina di Svezia e di Roma
“Questo mondo è un tempio grande e magnifico, di cui la terra dove siamo è un superbo altare”.
Fu lei stessa a ribadire questo concetto in uno dei suoi tanti scritti autografi, dei quali la Mattei riferisce attraverso citazioni in lingua originale avendo cura di riportarne la traduzione nelle note. Ricca e dettagliata la bibliografia di questo volume, che l’autrice stessa tiene a precisare non completa ma di certo sufficiente a suscitare nel lettore il desiderio di una consultazione più larga e approfondita sul personaggio.
Dalla prima all’ultima pagina l’autrice evidenzia il forte contrasto in cui si dibatteva la mutevole natura di questa donna, coltissima studiosa e promotrice di ardue battaglie ideologiche, eppure incapace di vedere i propri limiti, di ammettere il seppur minimo errore. Forse una conseguenza del tempo vorticoso in cui visse, o forse un vero e proprio difetto del suo carattere, ma la Mattei fa riflettere su quanto Cristina sia stata autrice del proprio destino nel bene e nel male.
Personalità estremamente moderna, quasi anacronistica rispetto al suo tempo, Cristina venerò la libertà sopra ogni cosa; non ammise mai alcuna forma di controllo sulle libertà individuali. Ma non bisogna cadere nell’errore di considerarla una “progressista” in senso stretto; le libertà che difendeva erano anzitutto le sue, e poi quelle di tutti coloro che lei riteneva degni in quanto sapienti. Non si batteva certo per i diritti del popolo; nel suo mondo la distinzione tra nobili e popolani era un dato di fatto, e anche se la Mattei – giustamente – si guarda bene dal farne un discorso “di classe” il lettore non fa fatica a trarre le sue conclusioni, in questo senso. Ma fu comunque straordinario l’impegno di Cristina per un valore assoluto e senza tempo, e di fatto mai pienamente compiuto.
In definitiva, nelle oltre trecento pagine di questo eccellente volume, Cristina di Svezia vive e incarna quella che l’autrice definisce la “cultura della meraviglia”, ovvero la cultura barocca; che discende dalla “prisca philosophia” degli antichi, compendio di ogni forma di sapere, e che si sviluppa nel tempo in occidente – e nel Seicento in particolare – sempre alla ricerca del senso della vita e della ragione delle cose, dei fenomeni naturali. Contraddittoria e in continuo fermento, la cultura barocca viveva ogni cosa con l’incanto della scoperta, con l’esaltazione orgogliosa di ogni nuova acquisizione, in un dialogo costante tra tutti gli ambiti della conoscenza, senza limiti e senza pregiudizio.
Questo fu il mondo di Cristina. Questo fu Cristina, la cui sontuosa e controversa figura Annarosa Mattei ha saputo raccontare magnificamente, in un libro avvincente e assolutamente per tutti.
©Francesca SARACENO Catania 5 Novembre 2023