“Questo diletto era una catena che tutti legava”. Da Caravaggio a Bernini; quando Arte, Vita e Teatro si fondono nei due più grandi Geni del Seicento.

di Claudia RENZI

Dì la battuta, mi raccomando, come io te l’ho letta, varia, giocata sulla lingua: per sentirla berciare – come troppi attori fanno – tanto varrebbe affidassi i miei versi al banditore di piazza. E non trinciare l’aria con le mani, così, ma gestisci con garbo perché nel torrente, nella tempesta, nel turbine, diciamo, della passione sta in voi [attori] trovare e rendere una misura che le dia grazia. Oh, mi ferisce fino all’anima sentire un guitto imparruccato snaturare una passione, metterla in pezzi, in proiettili, per spaccare i timpani agli spettatori i quali generalmente d’altro non sono avidi che di inesplicabili contorsioni e rumori. […] Attento però a non restarmi in sottotono. Lasciate che il gusto sia la vostra guida; misurate il gesto sulla parola, la parola sul gesto, con la regola di non soverchiare mai la modestia di Natura: perché l’errore di chi vuol fare troppo è estraneo al concetto dell’arte drammatica la quale in origine, come ora, aveva lo scopo di porgere, diciamo, uno specchio alla vita, mostrando alla virtù la sua immagine, al vizio la sua guisa, e alla società la sua struttura, come il tempo la determina. Invece l’esagerazione o la sciatteria, se muovono al riso il pubblico della domenica, non possono che spiacere all’intenditore, della cui censura dovete fare più conto che degli applausi di un teatro esaurito. Ci sono attori che ho visto recitare e ho udito il prossimo coprirli di lodi eccelse, per non dire sacrileghe, che non avendo accento di cristiani né grinta di cristiani, pagani o uomini, si gonfiavano e spolmonavano tanto che io credetti qualche manovale della Natura li avesse impastati alla meglio, così pietosamente essi imitavano l’umanità.”[1].

Quanto Caravaggio, nell’allestire i suoi dipinti, si è condotto come un puntiglioso e geniale regista è quesito che molti, nel corso degli anni, si sono posti[2]. Compaiono infatti presto, prestissimo, nei suoi dipinti, il sapore di messa in scena, i fasci di luce alla “occhio di bue”, il ricorrere di alcuni modelli che, proprio come attori di una consolidata compagnia teatrale, si cambiano di panni da un dipinto all’altro (a volte, anzi, perfino nello stesso dipinto).

Sembra quasi di vederlo, Caravaggio, dare indicazioni al modello di turno per assumere una certa posa, mimare una certa smorfia, aggiustare il costume per farlo cadere in un certo modo, mostrando lui per primo, magari, all’interprete come doveva atteggiarsi, qual era il “fermo-immagine” che lui, maestro, aveva in mente di fissare sulla tela.

Le istruzioni che Amleto – che simula un’inesistente pazzia, finzione nella finzione – impartisce agli attori della compagnia teatrale capitata a Elsinore perché mettano in scena la pièce drammatica da lui stesso scritta con l’intenzione di smascherare il fratricidio dello zio Claudio potrebbero essere parafrasate per la pittura, con il pittore che raccomanda ai modelli:

Non caricate troppo la scena, che altrimenti diventa bambocciata, non esagerate nella maschera, o lo spettatore coglierà l’artificio e non sarà più emotivamente coinvolto, non strafate perché il vero talento non ha bisogno di esagerare. Less is more: via paesaggi che distraggono, se non sono strettamente necessari, ma contrasto netto di buio e luce, dal quale emerga quello che davvero volete presentare soltanto, copione in testa, ciak si gira! E niente improvvisazione, che l’Arte è una cosa seria”.

Che il teatro sia entrato nella vita del giovane Michelangelo Merisi già quand’era a Milano è altamente probabile: della Festa del Paradiso (1490) di Leonardo si discute ancora oggi; il suo maestro Simone Peterzano era in rapporti di amicizia con Giovanni Paolo Lomazzo (pittore, teorico dell’arte e attore a sua volta[3]) e in quegli anni i Gesuiti portavano in scena, proprio nella città natale del genio lombardo, drammi a scopo didattico propagandistico[4].

Quando giungerà a Roma Caravaggio ritroverà, amplificato, quel clima: dove più che a Roma, che aveva avuto persino un imperatore vantatosi attore, si poteva apprezzare e sostenere la teatralità in ogni sua forma?

I primi dipinti noti romani di Caravaggio rivelano di fatto sottili, a volte sulle prime impensabili, legami con il mondo del teatro.

Così il Mondafrutto (1594, Roma, coll. privata), legato all’Accademia degli Insensati [5] o la Buona ventura caratterizzata, in entrambe le versioni (1594-5, Roma, Pinacoteca capitolina; Parigi, Musée du Louvre) da un gusto comico[6], quasi da sketch – senza perdere tuttavia il sottinteso messaggio moraleggiante, come evidenziato da Mina Gregori:

Numerosi elementi dei due dipinti ci riportano alla commedia, in primo luogo il tema dell’inganno, che costituiva un topos teatrale fin dall’antichità.”[7].

Nonostante nella Buona ventura non sia immediatamente leggibile l’atto di sfilare l’anello al giovane sprovveduto, il senso della scena era palese, atto a suscitare nello spettatore dapprima il sorriso – che sul volto della bella truffatrice spunta invece già – e poi la riflessione.

La ragazzina che impersona la birichina zingarella è la stessa in entrambe le versioni[8] (Figg. 1 e 2), mentre il modello maschile cambia:

Figg. 1 , 2 Caravaggio, La Buona Ventura part. (in alto Roma, Musei Capitolini; in basso, Parigi, Louvre)

nella versione romana compare il giovane che poserà come Bacco (1595, Firenze, Galleria degli Uffizi); mentre nella versione parigina il giovane raggirato è il modello già visto come “Eros” ne I musici (1594, New York, Metropolitan Museum of Art) e che poi comparirà come angelo nel San Francesco riceve le stimmate (1595, Hartford, Connecticut, Wadsworth Ateneum), come ingenuo ne I Bari (1595, Fort Worth, Texas, Kimbell Art Museum), come “bravo” impennacchiato nella Chiamata di Matteo (seduto accanto al futuro apostolo, 1599-1600, Roma, San Luigi dei Francesi), ecc.; ne I bari (Fig. 3), che ha un carattere di slapstick forse ancora più marcato che la Buona ventura, figurano ben tre modelli che si ritroveranno in altri dipinti.

Fig. 3 Caravaggio I bari 1596-1597 ca., Kimbell Art Museum, Fort Worth, Texas, U.S.A.

Oltre al suddetto ingenuo (il modello forse più ricorrente nei dipinti romani di Caravaggio), il barbuto è San Francesco che riceve le stimmate, sorretto dall’angelo che ne I bari impersona l’ingenuo; il baro di spalle lo si ritrova qualche anno dopo (sempre di spalle) nella Chiamata di Matteo, ecc., ovvero già molto presto Caravaggio individuerà quei modelli che ricorreranno spesso e volentieri nei suoi dipinti romani creando un gruppetto che sa molto di consolidata “compagnia teatrale”. Anche l’immediatezza della scena de I bari suscita sulle prime un sorriso, per indurre subito dopo alla riflessione e alla prudenza; il dipinto, pur per certi versi “leggero” non perde mai di vista l’intento evidentemente moraleggiante, proprio come la Buona ventura.

Un sapore di messa in scena accuratamente studiata lo presenta senza dubbi la Maddalena penitente (1595, Roma, Galleria Doria Pamphili – Fig. 4),

Fig 4 Caravaggio, Maddalena Penitente, Roma, Galleria Doria Pamphilj

con gli attributi disposti in terra come oggetti di scena tanto che lo  stesso Bellori, forse inconsapevolmente, ne enfatizzò il carattere artificioso con la nota descrizione

Depinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno in atto di asciugarsi i capelli: la ritrasse in una camera, ed aggiungendovi in terra un vasello d’unguenti, con monili e gemme, la finse per Maddalena[9] [tondo mio].

La modella tornerà almeno in un altro dipinto, in posa vagamente simile, nei panni della Madonna nel Riposto dalla fuga in Egitto (1595, Roma, Galleria Doria Pamphili); l’ipotesi che vada identificata come Anna Bianchini detta “la Rossa”, collega di Fillide Melandroni, non trova tuttavia riscontri incontestabili.

Anche il San Francesco riceve le stimmate ha un’impostazione fortemente teatrale, con la luce che veicola tutta l’attenzione sull’evento (Fig. 5) per rendere il quale il più realistico possibile, Caravaggio si premurò di far indossare al modello un vero saio e all’angelo un paio d’ali che sono costume in piena regola.

Fig. 5 – Caravaggio San Francesco riceve le stimmate, Wadsworth Atheneum, Hartford

Com’è noto, il 28 agosto 1603 fu registrata la querela presentata da Giovanni Baglione contro Caravaggio, Orazio Gentileschi, Onorio Longhi e Filippo Trisegni che, secondo il querelante, sarebbero stati autori e diffusori di un anonimo libello denigratorio nei suoi confronti. Il 14 settembre Orazio afferma:

Deve essere sei o otto mesi che io non ho parlato al Caravaggio, se bene à mandato a casa mia per una veste da cappuccino che gliela imprestai et un par d’ale, che la veste deve essere da dieci giorni che me la remandò a casa.[10].

Non è da escludere che il saio (restituito) (e le ali) menzionato nella deposizione sia quello impiegato qualche anno prima per il San Francesco riceve le stimmate, fatto indossare sia al protagonista che – in un secondo momento, dato che Caravaggio lavorava facendo posare un modello alla volta – al piccolo, quasi invisibile fra’ Leone accoccolato in secondo piano.

Il drappo rosso che domina lo sfondo di Giuditta e Oloferne (1599, Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica Barberini Corsini, Palazzo Barberini – Fig. 6) rimanda pure, immediatamente, al teatro, come fosse un gran sipario.

Fig. 6 Caravaggio Giuditta e Oloferne,, Roma, Palazzo Barberini.

Gli attori sono tre: Oloferne, Giuditta (impersonata da Fillide Melandroni che ha qui, rispetto alla Buona ventura, i capelli schiariti[11]) e la serva di lei, Abra. La presenza di Abra accanto alla padrona sembra essere un inserimento originale di Caravaggio, poiché nella Bibbia Abra attende al di fuori della tenda. La variante il pittore l’ha forse mutuata da una rappresentazione teatrale ben precisa: tra i più rinomati drammaturghi gesuiti del tempo figura padre Stefano Tuccio (1540 – 1597), che fu a Roma dal 1572. Padre Tuccio scrisse drammi religiosi di grande successo, i più celebri dei quali sono Golia (1563) e Giuditta (1564), entrambi aventi per tema la lotta tra Bene e Male, luce e ombra, alla fine della quale trionfa il Bene grazie alla misericordia divina che aiuta e consola.

Le tragedie dei Gesuiti erano composte in latino, ma dato che la Controriforma imponeva agli artisti di creare opere che potessero essere capite anche dagli illetterati, opere che dovevano essere quindi chiare e trasversali, a volte erano affissi dei riassunti in lingua locale e, soprattutto, esistevano “libretti” in italiano, per chi non comprendeva il latino[12].

Si è proposto che l’opera di Tuccio, i cui drammi tanto popolari pare abbiano molto contribuito alla causa della conversione[13], possa avere in qualche modo influenzato il giovane Caravaggio[14], in particolare il suo Giuditta (unico dramma gesuita con un’assoluta protagonista femminile), la cui maggiore novità era, stando alle notizie pervenute, la rappresentazione in scena del taglio della testa di Oloferne[15] laddove prima si ricorreva all’espediente del testimone che racconta l’evento dopo che questo si era verificato “fuori campo”[16].

La Giuditta di Tuccio presenta in effetti delle tangenze col celebre dipinto caravaggesco: dall’atteggiamento vigile e impaziente della serva – “Qua, Abra, affrettati: poni nelle bisacce i capelli cosparsi di sangue e il capo…” – che, come nella rappresentazione di Tuccio, è al fianco di Giuditta; un unico fendente di spada (anziché i due della Bibbia) per uccidere Oloferne; la stoffa quasi trasparente della camicia di Giuditta – “il petto si copra di velo sottile” disponeva Tuccio – laddove nella Bibbia si menzionano genericamente delle belle vesti e gioielli (tra cui degli orecchini) [17]; la posa scomposta del comandante assiro [18], ecc.

Va tuttavia rilevato che un immediato precedente visivo per un drappo rosso nella scena di Giuditta e Oloferne Caravaggio può e deve averlo visto nella Cappella Sistina, in cui Michelangelo Buonarroti (1508, Musei Vaticani, Città del Vaticano) nella vela con la Decapitazione di Oloferne (nel suo caso, già avvenuta) mostra il corpo senza vita di Oloferne riverso sul letto, incorniciato dal drappo rosso della tenda molto simile anch’esso a un sipario, mentre la testa (autoritratto?) è già sul vassoio retto da Abra (fuori dalla tenda) pronta per essere coperta da Giuditta che distoglie lo sguardo voltando il capo (Fig. 7).

Fig. 7 – Michelangelo Buonarroti, Decapitazione di Oloferne, Cappella Sistina, part.

È probabile, in sostanza, che Caravaggio abbia fuso, e rielaborato alla propria maniera, più fonti iconografiche, tra cui è ragionevole contemplare anche delle rappresentazioni teatrali in stretto senso. In alcuni casi, com’è noto, Caravaggio non ha disdegnato di comparire lui stesso in qualità di comparsa in alcuni suoi dipinti quali I musici (in posizione defilata, con il corno sulle spalle); il Giove, Nettuno e Plutone (1597, Roma, Casino Boncompagni Ludovisi già Del Monte, nei panni di Nettuno); il Martirio di Matteo (1599-1600); nella Presa di Cristo (1602, Dublino, National Gallery of Ireland); il Martirio di sant’Orsola (1610, Napoli, Palazzo Piacentini).

L’uso mirato, teatrale della luce sembra essere del resto il risultato di una scelta scenica e tecnica ben precisa:

Lumeggiare con lume unito che venghi d’alto senza riflessi, come sarebbe in una stanza da una finestra con le pareti colorite di negro che così, avendo i chiari e le ombre molto chiare e molto oscure, vengono a dar rilievo alla pittura, ma però con un modo non naturale, né fatto, né pensato da altro secolo[19]

e niente affatto improvvisata (“modo non naturale”) che portava alle estreme conseguenze gli studi leonardeschi con l’effetto collaterale di lanciare una nuova moda tra i pittori più giovani i quali, come ebbe a lamentare Bellori

Mirando l’opere sue lo seguitavano a gara, spogliando modelli, e alzando lumi[20].

Questa svolta “teatrale” raggiungerà la sua acme, e sarà nota a tutti, con la realizzazione dei due dipinti laterali per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, la Chiamata di Matteo e il Martirio di Matteo (1599-1600, Roma, San Luigi dei Francesi – Fig. 8).

Fig 8 Caravaggio, Storie di San Matteo, Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli

Rispetto alle opere precedenti, ci sono molti più personaggi ed è accentuata l’impressione di venire catapultati sulle tavole di un palcoscenico – “Nella cappella Contarelli Caravaggio allestisce un palco per una rappresentazione […] tutto l’insieme è teatro[21] – e assistere a una rappresentazione in piena regola, una sorta di mystery play aggiornato all’anno 1600 dove però non c’è più bisogno di parole poiché i gesti e le attitudini sono (e soprattutto erano e dovevano essere, per gli spettatori anche illetterati dell’epoca), a ben guardare, inequivocabili.

Un’impostazione teatrale caratterizzerà infine, poco dopo, anche la pala d’altare, commissionata a Caravaggio nel 1602, raffigurante San Matteo e l’angelo : Matteo poggia un ginocchio sul traballante sgabello che dal palco sta per cadere in platea mentre l’angelo (ancora lui, ma cresciuto, il truffato della Buona ventura del Louvre, ecc.) è “calato dal cielo come in uno yo-yo di panni[22].

L’elemento del drappo-sipario a suggerire una sorta di quinta scenografica, già visto in Giuditta e Oloferne, tornerà in seguito in opere quali la Morte della Vergine (1605-6, Parigi, Musée du Louvre), in cui due modelli in primo piano – il barbuto semicalvo e il giovane riccioluto – impersonano più ruoli: ben tre per il più anziano (a sx con le braccia conserte; al centro con le braccia a mezz’aria, accanto alla Vergine mentre si porta i pugni agli occhi a celare le lacrime) e due per il più giovane (piangente ai piedi della Madonna e contrito sulla dx); poi, appena accennato, nel David con la testa di Golia (1606, Roma, Galleria Borghese); eclatante nell’affollato Madonna del Rosario (1606-7, Vienna, Kunsthistorisches Museum), con tanto di colonna (forse paronomasia per indicare il committente) a suggerire la profondità dello spazio scenico, nonché un “cameo” di Tommaso Campanella (alle spalle di san Pietro da Verona che, proprio come a teatro, si rivolge direttamente al pubblico, come altrove “Pilato” nell’Ecce homo); ancora scuro e non immediatamente percepibile nel Martirio di sant’Orsola (1610, Napoli, Palazzo Piacentini), quadro quest’ultimo caratterizzato da un nero pesto dal quale emergono, spettrali, soltanto le figure dei (di nuovo pochi) personaggi.

Nelle rappresentazioni teatrali dell’epoca spesso era il potere evocativo delle parole a dover suggerire elementi quali la notte o l’arrivo di un esercito a cavallo

(“Pensate, se vi parliamo di cavalli, di vederli voi stessi stampar gli zoccoli superbi sul molle terreno che li riceve. Saranno infatti i vostri pensieri a rivestire i re di ricche vesti, a trasferirli ora di qua ora di là, saltando le stagioni, concentrando anni in un giro di clessidra[23]),

mentre nella pittura il fine ultimo è la commozione data dall’impatto visivo, eppure Caravaggio, nel Martirio di sant’Orsola, riuscirà a evocare quello che non appare: le 11.000 vergini compagne di Orsola non le ha dipinte, nemmeno accennate, ma se ne percepisce la presenza in quel cono d’ombra che avviluppa il dipinto: sembrano essere lì, spettatrici come noi.

Teatrale è l’impostazione della maggior parte delle opere di Caravaggio, dalla Cena in Emmaus (1601, Londra, National Gallery, con il braccio del commensale a dx che “buca” la tela analogamente a quanto già visto con lo sgabello del secondo San Matteo e l’angelo), alla Deposizione (1602-3, Musei Vaticani, Pinacoteca); alle Sette opere di misericordia (1606-7, Napoli, Pio Monte della Misericordia); alla Negazione di Pietro (1607, New York, Metropolitan Museum of Art), fino alla Decollazione del Battista (1608, La Valletta, Malta, Oratorio di Giovanni dei Cavalieri), passando per le grandi quinte del Seppellimento di santa Lucia (1608, Siracusa, Santuario di Santa Lucia al Sepolcro) e della Resurrezione di Lazzaro (1608-9, Messina, Museo Regionale); come teatrale è la presenza, in dipinti quali la Crocifissione di san Pietro (1600-1, Roma, Santa Maria del Popolo, nel quale compare per la prima volta, ed entra quindi nella “compagnia” dei modelli, il gettonatissimo modello canuto) e la Crocifissione di sant’Andrea (1607, Cleveland, Ohio, The Cleveland Museum of Art), di boia affannati come “Zanni” – rispetto ai quali hanno perso però qualsiasi aspetto comico – probabilmente debitori di certe pose acrobatiche di Tintoretto quali quelle visibili ne Il ritrovamento del corpo di san Marco (1562, Milano, Pinacoteca di Brera), con personaggi affaccendati che sembrano maestranze di retroscena all’opera (Fig. 9).

Fig. 9 – Tintoretto, Ritrovamento del corpo di san Marco, part. MIlano, Pinacoteca di Brera

Se quelli di Caravaggio sono modelli che diventano “attori di teatro fotografati nel momento fondamentale dell’azione scenica[24], altrettanto può dirsi dei modelli immortalatati da Bernini, per il quale tutta “la vita è palcoscenico[25].

L’inclinazione per l’immagine dal realismo spiazzante Bernini la manifesterà piuttosto presto quando, ancora ragazzino, licenzierà il Busto di Antonio Coppola (1614, Roma, San Giovanni dei Fiorentini), primo ritratto nel quale è palese e irreversibile la svolta caravaggesca impressa alla ritrattistica scolpita (ancora manieristi, infatti, il Bustino di Giambattista Santoni, 1613, Roma, Santa Prassede, e la testina di Clemente VIII nella altrimenti paterna Incoronazione di Clemente VIII, 1610-3, Roma, Santa Maria Maggiore), che aprirà quella strada costellata di capolavori quali il Busto di Pedro de Foix Montoya (1622, Roma, Santa Maria in Monserrato che doveva essere, nel progetto originale, affiancato nel monumento dalle teatralissime Anima dannata e Anima beata, Roma, Ambasciata di Spagna) e culminerà nei celeberrimi “ritratti parlanti” (Ritratto di Costanza Bonarelli, 1634, Firenze, Museo del Bargello; Busto di Scipione Borghese, 1632, Roma, Galleria Borghese[26]; Busto di Innocenzo X, 1647, Roma, Galleria Doria Pamphili, ecc.), passando per i regali Carlo I d’Inghilterra (1637, già White Hall) e Luigi XIV (1665, Parigi, Musée du Louvre) o lo strepitoso Francesco I d’Este (1649, Modena, Galleria Estense) fino all’ultimo, sempre e ancora teatrale, Busto di Gabriele Fonseca (1670, Roma, San Lorenzo in Lucina).

Come Caravaggio, Bernini ha ritratto i soggetti più disparati: dal popolano al papa, dal cardinale alla donna, al bambino – “Tutto il mondo è un palcoscenico, e uomini e donne, tutti, sono attori; hanno proprie uscite e proprie entrate…”[27] – senza negare a nessuno dedizione e fatica, dando il meglio di sé proprio laddove l’impresa era più titanica, riuscendo a trasformare in teatro sia feste (con la palestra degli apparati effimeri) che funerali, come è evidente nei monumenti funebri di Urbano VIII (1628-47, San Pietro, Città del Vaticano) e Alessandro VIII (1672-78, San Pietro, Città del Vaticano) nei quali anche Morte diventa un personaggio: qui scrive il nome del “chiamato” Urbano – “Chi è di scena?!” – sul suo grande libro; là irrompe volante sollevando con un braccio il drappo (che sembra stoffa, in realtà è duro diaspro siciliano) mentre con l’altro regge l’impietosa clessidra.

Se in Caravaggio la luce è l’unica certezza in un mondo di tenebre, in Bernini può anche diventare illusionistico strumento di inganno[28].

Quando a Caravaggio (luglio 1599) fu affidata la realizzazione dei due dipinti laterali della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi il taglio della luce da dare alle opere che vi sarebbero state collocate fu uno dei primi problemi da affrontare: il pittore lo risolse brillantemente, sfruttando la direzione della luce naturale entrante dalla lunetta in alto[29]; molti anni dopo Bernini – che si può soltanto immaginare quante volte avrà visitato e osservato la cappella Contarelli – applicherà lo stesso concetto per rendere parte dell’opera la luce che avrebbe interessato la cappella Cornaro (1647-52, Roma, Santa Maria della Vittoria): non pittura, qui, ma scultura quasi vivente, manco degli attori fossero andati in scena imbiancati di farina: anche nella cappella Cornaro, infatti, la luce cala dall’alto, ma in questo caso da una fonte nascosta, per realizzare la quale Bernini ha modificato il set, la struttura del sacello (il particolare si coglie soltanto dall’esterno della chiesa) sfoderando, a tutti i livelli, la sua magistrale padronanza del cosiddetto bel composto (Fig. 10).

Fig. 10 – Gian Lorenzo Bernini, Cappella Cornaro, Roma, Santa Maria della Vittoria

Nella cappella Cornaro la luce naturale entra dall’alto, prosegue idealmente nei raggi luminosi in bronzo (che stanno a significare la presenza divina) e nelle pitture eseguite nella volta dalla bottega, andando a illuminare le due pareti laterali dalle quali, come in altrettanti palchetti d’Opera, i membri della famiglia Cornaro e lo stesso committente (il cardinale Federico) assistono alla Transverberazione di santa Teresa in amabile conversazione (Fig. 11)

Fig. 11 – Gian Lorenzo Bernini, Cappella Cornaro (part.)

in un allestimento erede ed evoluzione di quel siparietto delizioso che molti anni prima il padre Pietro aveva messo a cornice dell’Incoronazione di Clemente VIII con i tre personaggi che mimano animata discussione (Fig. 12),

Fig. 12 – Pietro Bernini, Incoronazione di Clemente VIII, Roma, S. M. Maggiore, part.

ma qui tanto spettacolare da far quasi dimenticare che si tratta, alla fine, di una tomba, di cui ci si ricorda soltanto quando, abbassando lo sguardo, si notano i due scheletri “risorgenti” che, dal pavimento, alludono all’attesa Resurrezione.

Fig. 13 – Gian Lorenzo Bernini, Cristo deriso, coll. priv.

Tutto era teatro, per Bernini: intere piazze come quinte, dalle progettate ma irrealizzate Fontana di Trevi e scalinata di piazza di Spagna, al trionfo della piazza “Pamphilia” Navona (1647-52), fino all’abbraccio del colonnato di San Pietro (1656-67); scenografico anche l’allestimento pensato per i gruppi (il Ratto di Proserpina, 1622, Roma, Galleria Borghese, che Scipione Borghese aveva regalato a Ludovico Ludovisi, era collocato nella perduta villa del nipote di Gregorio XV addossato a una parete sulla quale era dipinta, in nero totale, una finta porta, alludente all’Ade[30]); drappi-sipari impiegati nella Verità (1646, Roma, Galleria Borghese che, in origine, avrebbe dovuto essere “svelata” dalla figura del Tempo), nella Visione di Costantino (1662-9, San Pietro, Città del Vaticano) – drappi utili a risolvere a volte imprevisti di natura logistica (Costantino) o tecnica (Monumento funebre di Alessandro VII) – e anche nella pittura di Gian Lorenzo: nel Cristo deriso (1635, coll. priv. – Fig. 13) lascia intravedere la colonna, strumento della Passione, dando l’impressione di una scena immortalata durante una pausa in un back-stage con il maestro che

ritrasse dal naturale un facchino, seduto su un muretto e con accanto una coperta, e “lo finse per” un Cristo[31],

proprio come Caravaggio aveva “finto” anni prima, per Maddalena, una popolana.

Il teatro sarà anche luogo di incontri fortunati per Bernini: curando l’allestimento del Sant’Alessio nel teatro (prima effimero e poi stabile) dei Barberini al Palazzo alle Quattro Fontane, stringerà infatti amicizia col suo autore, quel Giulio Rospigliosi futuro Clemente IX che, una volta papa, gli commissionerà, tra le altre cose, lo scenografico – è il caso di dirlo – Ponte degli angeli (1668-9, Roma).

Bernini amava tanto, inoltre, il teatro vero e proprio da farne un’attività che, sebbene dilettantesca, coinvolgeva tutta la sua bottega, dai fratelli agli allievi [32]. Degli allestimenti delle proprie commedie[33]  Bernini curava tutto: era attore, scenografo, sceneggiatore, macchinista, regista e sembra fosse molto esigente per la messa in scena, al limite del dispotismo:

In quegli anni per l’appunto nel tempo di carnevale, soleva il Bernini nella stanza della Fonderia Vaticana rappresentare delle commedie, nelle quali recitava egli medesimo, e il suo fratello Luigi, che per la novità del capriccio, per l’arguzie, per i falli, per la vaghezza delle scene, e per la curiosità della rappresentazione, benché mordaci e pungenti rendevano diletto, e meraviglia. L’Abbatini, come spiritoso, era uno degl’interlocutori, e rappresentava la parte del Trappolino Bergamasco con buona maniera, e vivezza. Questo diletto era una catena che tutti legava strettissimamente, perché a cagione di un mese di divertimento il Bernini li teneva tutto l’anno obbligati al lavoro, ed un anno collegava l’altro, finché fra il disegnare, e il recitare era una perpetua insopportabile alternativa per la misera gioventù.”[34].

Del resto anche il cardinale Richelieu, che Gian Lorenzo col suo Busto (1638-42) renderà “personaggio” ancor prima della penna di Dumas, lo avrebbe voluto a un certo punto a Parigi come consulente teatrale: uno che aveva saputo rendere l’effimero (degli apparati di festa) permanente persino nel Baldacchino di San Pietro (1624-33, San Pietro, Città del Vaticano), sul cui basamento prende vita, in una pantomima sorprendente, la “maschera” della cosiddetta partoriente [35] (Fig. 14), chissà che sarebbe stato capace di inventarsi per stupire il pubblico d’oltralpe.

Fig. 14 – Gian Lorenzo Bernini, Baldacchino di san Pietro, part.

In conclusione, i due più grandi geni del Seicento hanno mutuato, tramite percorsi diversi, molto dal teatro; entrambi hanno saputo innestare quanto appreso nella propria arte, di pittore uno e scultore l’altro, arricchendole entrambe, con un’unica fondamentale regola a guidarli: “L’arte sta nel far che tutto sia finto, e paia vero.”[36].

© Claudia RENZI Roma, 17 dicembre 2023

NOTE

[1] William Shakespeare, Amleto, Atto III; Scena II.
[2] Si veda Maria Cristina Terzaghi, Per le fonti del Naturalismo in Caravaggio: il teatro, in: Sibylle Ebert-Schifferer, Laura Teza, Caravaggio e i letterati, Todi, 2020, pp. 79-97, con biblio precedente.
[3] Per Lomazzo attore e accademico: Dante Isella (a cura di), Giovan Paolo Lomazzo. Facchini della Val di Blenio, Torino, 1993; Carlo Bertelli, Dante Isella (a cura di), Rabisch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento. L’Accademia della Val di Blenio, Lomazzo e l’ambiente milanese, Milano, 1998. Per i “facchini” fondatori dell’Accademia di cui Lomazzo divenne abate e per il significato del suo Autoritratto (1568 ca., Milano, Pinacoteca di Brera), si veda anche Carlo Bertelli, Giovanni Paolo Lomazzo, Autoritratto (scheda), in: AA. VV, Caravaggio e il suo tempo, Napoli, 1985, pp. 60-62.
[4] Allo stato attuale degli studi la prima messa in scena a Milano di un dramma gesuita, avente per tema la conversione di sant’Agostino, risale al 23 febbraio 1588, periodo in cui Caravaggio era ancora a bottega da Simone Peterzano. Per il teatro gesuita a Milano in quel tempo si veda Gianfranco Damiano, Drammaturgia e spettacolo al collegio milanese di Brera. Dalle origini all’Hermenegildus di Emanuele Tesauro, in: M. Chiabò, F. Doglio (a cura di), I Gesuiti e i primordi del Teatro Barocco in Europa, XVIII Convegno internazionale, Roma, 1994, pp. 331-348.
[5] Laura Teza, Caravaggio e il frutto della virtù. Il Mondafrutto e l’Accademia degli Insensati, Milano, 2013. Ma su questi argomenti riguardanti gli Insensati e le relative iconografie caravaggesche vedi i saggi di Michele Frazzi “Come leggere Caravaggio”. Parte I – VII,  già pubblicati e in uscita su About Art (passim)
[6] Francesco Porzio, Caravaggio e il comico: alle origini del Naturalismo, Milano, 2017.
[7] Mina Gregori, Caravaggio, oggi, in: AA.VV., Caravaggio e il suo tempo, Napoli, 1985, pp. 28-47; La Buona Ventura (scheda), pp. 215-220, p. 215. Tra i primi a cogliere rapporti tra alcuni dipinti di Caravaggio e la commedia dell’arte, Barry Wind, Pitture ridicole: some late Cinquecento comic genre paintings, in: «Storia dell’Arte», n. 20, 1974, pp. 25-35; Idem, Genre as season; Dosso, Campi, Caravaggio, in: «Arte Lombarda», n. 42-43, 1975, pp. 70-73.
[8] Per l’identità della modella della Buona ventura con Fillide Melandroni rimando al mio Caravaggio e il ritratto femminile: Fillide Melandroni. Una storia di modelle e di riconoscimenti, in: «About Art online» del 06.08.2023 https://www.aboutartonline.com/caravaggio-e-il-ritratto-femminile-fillide-melandroni-una-storia-di-modelle-e-di-riconoscimenti/
[9] Giovanni Pietro Bellori, Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Roma, 1672, pp. 215.
[10] ASR, Tribunale del Governatore, Processi del XVII secolo, vol. 28 bis, c. 390v. Trascrizione completa del verbale in: Michele Di Sivo, Uomini valenti. Il processo di Giovanni Baglione contro Caravaggio, in: (a cura di) Michele Di Sivo, Orietta Verdi, Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, Roma, 2011, pp. 90-108.
[11] Per la questione cfr nota 8.
[12] Per questi “libretti” si veda Bruna Filippi, Il teatro al Collegio Romano: dal testo drammatico al contesto scenico, in: M. Chiabò, F. Doglio (a cura di), I Gesuiti e i primordi del Teatro Barocco in Europa, XVIII Convegno internazionale, Roma, 1994, pp. 161-182
[13] Helen Langdon, Caravaggio. Una vita, Palermo, 2001, p. 165
[14] Kathy Johnston-Keane, Caravaggio’s drama: Art, Theatre and Religion during Italy’s Spanish Age, Pittsburg, 2010, pp. 250-258; Guglielmo Scoglio, Stefano Tuccio s.j. Ispirò Caravaggio e Shakespeare, Firenze, 2017.
[15] G. Scoglio, op. cit., p. 100.
[16] Tratta la questione dei canoni della rappresentazione in Tuccio, Silvia Danesi Squarzina, Pittura e rappresentazione: Caravaggio e il teatro della crudeltà, in: Claudio Strinati, Rossella Vodret (a cura di), Caravaggio e la luce nella pittura lombarda, Milano, 2000, pp. 89-101.
[17] G. Scoglio, op. cit. p. 105.
[18] G. Scoglio, op. cit., p. 106.
[19] Adriana Marucchi, Luigi Salerno (a cura di), Giulio Mancini. Considerazioni sulla Pittura, 1617-21, Roma, 1956-57, 2 voll., I, p. 108.
[20] Giovanni Pietro Bellori, op. cit., pp. 217-8; approfondisce la questione Gianni Spogliando modelli e alzando lumi. Scritti su Caravaggio e l’ambiente caravaggesco, Napoli, 2014.
[21] Howard Hibbard, Caravaggio, Londra, 1988 [1983], p. 116.
[22] Tomaso Montanari, Il Barocco, Torino, 2012, p. 44.
[23] William Shakespeare, Enrico V, Atto I; Sc. I (coro).
[24] G. Scoglio, op. cit., p. 92.
[25] Maurizio Fagiolo Dell’Arco, L’immagine al potere. Vita di Gian Lorenzo Bernini, Bari, 2004, p. 134.  Imprescindibile per lo studio completo della figura e dell’opera berniniana il recente volume di M.Grazia Bernardini, Bernini.Catalogo delle sculture, Torino, 2022
[26] Per il ritratto di Scipione fatto da Caravaggio, e per il cfr con quelli di Bernini, rimando al mio Per Scipione Caffarelli Borghese: il ritratto (qui riconfermato) di Caravaggio e il doppio busto del Bernini. Da Caravaggio a Bernini: ritratto di Scipione Caffarelli Borghese, in: «About Art online» del 27.08.2023 https://www.aboutartonline.com/per-scipione-caffarelli-borghese-il-ritratto-qui-riconfermato-di-caravaggio-e-il-doppio-busto-del-bernini/
[27] William Shakespeare, Come vi piace, Atto II; Sc. VII.
[28] Maurizio e Marcello Fagiolo Dell’Arco, Bernini. Una introduzione al gran teatro del barocco, Roma, 1967, p. 73.
[29] Per la seconda, artificiale fonte di luce che interessa in particolar modo la Chiamata di Matteo rimando ad altra sede, nella quale affronterò esaustivamente la questione.
[30] Per l’originaria collocazione del Ratto di Proserpina si veda Tomaso Montanari, Il significato del “Plutone e Proserpina” di Gian Lorenzo Bernini, in: Novella Barbolani (a cura di), Arte e politica. Studi per Antonio Pinelli, Firenze, 2013.
[31] Tomaso Montanari, Bernini pittore, Milano, 2007, p. 59.
[32] Per le commedie scritte e interpretate da Gian Lorenzo Bernini, e per la sua attività teatrale, si veda Filippo Baldinucci, Vita del Cavaliere Gio. Lorenzo Bernini, Firenze, 1682, pp. 75-78; Domenico Bernini, Vita del Cavalier Gio. Lorenzo Bernini, Roma, 1713, pp. 53-57; Cesare D’Onofrio, La Fontana di Trevi. Commedia inedita di Gian Lorenzo Bernini, Roma, 1963, e da ultimo Elena Tamburini, Gian Lorenzo Bernini e il teatro dell’Arte, Firenze, 2014.
[33] Per la cui analisi ed elenco si rimanda a E. Tamburrini, op. cit.
[34] Giambattista Passeri, Vite de’ Pittori, Scultori e Architetti che hanno lavorato in Roma, morti dal 1641 fino al 1673 di Giambattista Passeri pittore e poeta, Roma, 1772, p. 243 (Vita di Guido Ubaldo Abbatini).
[35] Per il cui significato si rimanda a Cesare D’Onofrio, Mille anni di una leggenda una donna sul trono di Pietro, Roma, 1978, pp. 211-234.
[36] Filippo Baldinucci, Vita del Cavaliere Gio. Lorenzo Bernini, Firenze, 1682, p. 78.

BIBLIOGRAFI

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