di Massimo FRANCUCCI
È forse la più celebre delle pasquinate quella che inchioda i Barberini alla colpa di aver spoliato il bronzo del Pantheon, ma questo rapportarsi con troppa leggerezza alle memorie dell’antico, difetto tra l’altro condiviso con altri pontefici dei secoli rinascimentali e barocchi, non deve far dimenticare il momento di esuberante ricchezza vissuto dall’arte e dalla cultura negli anni del pontificato di Urbano VIII.
Tale è l’obiettivo di una mostra ambiziosa e molto ricca di prestiti eccezionali, allestita fino al 30 luglio 2023 nel palazzo di famiglia, sede ora della Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma, sotto la curatela di Maurizia Cicconi, Flaminia Gennari Santori e Sebastian Schütze.
Ancora nel Seicento era forte la convinzione che per realizzare opere dedicate alla gloria di Dio si potesse dimenticare qualche atteggiamento un po’ spregiudicato e in questa ottica l’entourage del pontefice creò la leggenda secondo cui il ricercato metallo fosse stato sottratto al portico del Pantheon per rendere possibile la realizzazione del baldacchino di San Pietro ma, come ha definitivamente chiarito Louise Rice, la stragrande maggioranza del bronzo venne destinato ai cannoni di Castel Sant’Angelo, che dovevano rassicurare la città in un momento in cui forte era il timore che uno dei conflitti che infiammavano l’Europa coinvolgesse persino Roma.
A testimonianza di tale sciagurata decisione, in mostra si può ammirare uno dei pochi “chiodi” sopravvissuti in quanto riservati come macabro ricordo a familiari dei Barberini o ad ambasciatori. L’esemplare presentato è infatti appartenuto a Giovanni Pietro Bellori, il grande biografo, per essere in seguito acquistato dal re di Prussia ed entrare infine nelle raccolte dello Staatliche Museen di Berlino. In ogni caso, una scelta così sacrilega per chi tributasse il giusto culto nei confronti dell’antico, come anche i Barberini a parole si riproponevano di fare, creò le prime crepe nel rapporto tra il popolo romano e Urbano VIII, una frattura che di fatto non fu più riconciliabile.
Eppure, l’elezione di Maffeo Barberini era giunta sotto i migliori auspici poiché il giovane e colto cardinale, formatosi in ambito gesuitico e apprezzato e beneficiato sia da Clemente VIII che da Paolo V, alimentava le attese più ottimistiche. Il papa Borghese gli aveva garantito la porpora che lo aveva raggiunto in Francia, dove Maffeo era impegnato in una importante e fruttifera nunziatura: il 14 ottobre 1606, a Fontainebleau, Enrico IV pose il berretto rosso in testa al nuovo cardinale alla presenza della corte reale, dopo aver a lungo perorato questa causa col pontefice. Siamo oramai pronti a incontrare Maffeo che, ancora giovane monsignore, ci osserva con sguardo indagatorio da una tela riferita a Caravaggio.
Solitamente conservata nella sua sede principesca fiorentina, si presta in mostra a uno studio ravvicinato e più accurato: a ragione Schütze nel relativo scritto in catalogo pone alcune perplessità sull’autografia; mi sembra infatti che manchi ancora un tassello nella produzione giovanile del maestro lombardo che ci permetta di far quadrare i conti e di collocare con certezza il bel ritratto nel percorso di maturazione del pittore. Non ha di questi problemi il Sacrificio di Isacco del Merisi, proveniente da Firenze, sponda Uffizi, capolavoro che merita di aprire la mostra in quanto commissionato dallo stesso Maffeo sullo scorcio del primo lustro del Seicento.
Lo affianca un vibrante dipinto dedicato da Ludovico Carracci al raro tema del San Sebastiano gettato nella cloaca Maxima, voluto anche questo da Maffeo per la cappella di famiglia in Sant’Andrea della Valle, nel 1612, ma dirottato poi nella propria collezione privata.
Il cardinale ne apprezzava le qualità devozionali, avendo invece temuto in un primo momento, cosa che ci apparirà alquanto paradossale, confrontandolo col Caravaggio, che il naturalismo del più anziano dei Carracci non fosse adatto a tale scopo. Il pittore bolognese aveva poi deciso di concentrare le sue attenzioni su quel momento di estrema violenza e concitazione del martirio del santo e non sul ritrovamento del suo corpo che, secondo la leggenda, era avvenuto dove poi sarebbe sorta la cappella Barberini: presentato a un’asta londinese nel 1971, il quadro di Ludovico è entrato nelle collezioni del Getty Museum.
Prima di salire sul soglio di Pietro, Maffeo mostrava di privilegiare artisti intenti al rinnovamento verso il naturale che rimanessero inseriti nella tradizione rinascimentale, favorendo inoltre quelli appartenenti alla scuola toscana: si ricordano ad esempio il Passignano, Cigoli e il Pomarancio del quale ancora Schütze pubblica, purtroppo senza averla in mostra, una Lotta di Giacobbe molto intensa, da poco giunta al Minneapolis Museum of Art.
Dopo l’elezione, Urbano VIII affiderà la sua effigie agli artisti ai quali solitamente lo associamo: è esposto ad esempio un vibrante ritratto dipinto da Pietro da Cortona (Roma, Pinacoteca Capitolina), mentre si deve a Bernini la fusione del busto in bronzo proveniente dalla collezione Corsini di Firenze; più in là si incontrerà una versione in marmo. È indubbio che sia stato proprio l’astro dell’artista napoletano a caratterizzare il pontificato Barberini e questo fin da subito, se è vero l’episodio riportato dai biografi di Bernini, tra i quali anche quel Francesco Milizia, che non risparmiava certo critiche al barocco.
Si racconta che subito dopo il conclave vittorioso il pontefice abbia convocato Gian Lorenzo per confidargli:
“È gran fortuna la vostra di veder Papa il Cardinal Maffeo Barberini; ma assai maggiore è la nostra, che il Cavalier Bernini viva sotto il nostro Pontificato”.
Era già chiara l’intenzione di legare il proprio nome al genio dell’artista, che anche grazie a una simile stima si sarebbe presto liberato dall’insidia rappresentata da Francesco Borromini e la sua mirabile inventiva architettonica. Pietro da Cortona aveva a sua volta un avversario nella figura di Andrea Sacchi, favorito di Antonio Barberini, del quale è qui esposto l’enigmatico ritratto di Taddeo Barberini in abiti di prefetto di Roma, del 1631, (Roma, INPS), un anno cruciale per le sorti del confronto che arriderà a Berrettini e alla sua capacità di esaltare il casato e le sue api, incoronato, sotto l’egida della trionfante Divina Provvidenza, dalla personificazione dell’Immortalità. L’infinito turbinio di moti, di colori e di richiami alla mitologia, che si ammira nel salone monumentale eclisserà in un attimo, agli occhi dei committenti, le raffinate allegorie messe in campo da Sacchi nel suo Trionfo della Divina Sapienza.
Il tema della decorazione cortonesca era stato stilato da Francesco Bracciolini, che incontreremo al piano nobile in un virtuosistico ritratto di Giuliano Finelli, cui sta proprio stretto il ruolo di mero collaboratore di Bernini col quale viene solitamente ricordato. Ma è ancora presto per salire lo scalone monumentale, poiché ci attendono prima dei capolavori imperdibili, come il Martirio di Sant’Erasmo da Gaeta, affidato a Nicolas Poussin per il tramite di Francesco Barberini e destinato a decorare la cappella eponima in San Pietro e ora alla Pinacoteca Vaticana. Il modo ovattato e idealizzato con cui il pittore francese dà vita alla scena violenta mostra il diverso sentire l’arte rispetto al Caravaggio, secondo lui venuto al mondo per distruggere la pittura, nella testimonianza di André Félibien. Tra preziosi bronzetti e pale famose, varrà la pena di soffermarsi sul Martirio dei beati francescani a Nagasaki, piccolo capo d’opera di quel raffinato naturalismo perfezionato da Tanzio da Varallo, solitamente sperduto nelle collezioni di Brera e qui giustamente valorizzato.
Ma è nel salone seguente che i raggiungimenti dell’arte sotto i Barberini trovano la massima espressione, con un vortice di bellezza che, da solo, varrebbe il biglietto. Questo a prescindere dall’Allegoria dell’Italia di Valentin de Boulogne, che sarà in mostra solo da inizio maggio.
In questa fantasmagorica creazione del pittore francese appare, come una visione spettrale, la personificazione dell’Italia che emerge, con i suoi colori caldi e veneteggianti, dal fondo scuro, esaltata da un lume che investe, oltre che i meravigliosi brani di natura morta delle cornucopie rigogliose, le figure dell’Arno e del Tevere, che con i gemelli testimoniavano i luoghi di origine della famiglia pontificia, così come quelli di approdo nella Roma dei papi, erede di quella antica. Nel frattempo, ci accontenteremo, trattandosi di un’altra opera stupenda, del Sansone di Cleeveland, realizzato per lo stesso committente: anche qui la figura emerge dal fondo scuro e il pittore si esalta nella vivida resa delle diverse superfici materiche, così come dei sentimenti contrastanti dell’eroe biblico.
I Barberini ebbero come detto ottimi uffici con la Francia, almeno per buona parte del regno di Urbano VIII, forse sono questi i motivi del favore riservato a geniali pittori transalpini trasferitisi in Italia e sarà Poussin, che aveva intrapreso vie divergenti rispetto a Valentin, a chiarircelo ancora una volta. Qui è la Morte di Germanico, ora al Minneapolis Museum of Art, a testimoniare, se ce ne fosse ancora bisogno, il gusto di Francesco Barberini per gli uomini illustri dell’antichità: già nel Seicento, dunque, la figura di Germanico era assurta a esempio di virtù.
Detto ciò, sarà immediato capire le ragioni del perché, quando alla fine del Settecento i grandi dell’antichità torneranno a rivestire il ruolo di modello ideale, si cercherà ispirazione anche nelle invenzioni di Poussin. L’antico aveva sempre saputo sopravvivere sotto molteplici e variegate forme, anche quelle particolarmente intriganti del Pan disteso assegnato alla cerchia del Sangallo.
Non si è mai messo abbastanza in luce quanto importante fosse la musica in questi anni, ne è qui testimonianza la celebre Arpa Barberini, immortalata nella Santa Cecilia di Giovanni Lanfranco: dal Metropolitan di New York la raggiunge un capolavoro di Andrea Sacchi, il Ritratto allegorico di Marcantonio Pasqualini incoronato da Apollo quale cantante supremo protetto dal cardinale Antonio Barberini.
In questa carrellata di opere meravigliose e un po’ inattese, fatica ad emergere, per misure e per collocazione risicata, la Fornarina dell’ultimo Raffaello: è paradossale constatare come la padrona di casa, protagonista assoluta delle collezioni della Galleria, non si trovi a proprio agio in questo allestimento.
Il ritratto fu tra le sedici opere scelte dallo Stato quando fu siglato lo scriteriato accordo che metteva fine al fedecommesso delle raccolte Barberini, consentendo la dispersione di più di seicento pezzi.
Ci si potrebbe chiedere se i Barberini considerassero l’arte come un qualcosa da apprezzare con effetti catartici o se ne prediligessero l’uso politico con lo scopo di autopromuoversi; se la verità come al solito sta nel mezzo è anche vero che Urbano VIII e i suoi seppero spingere la propaganda verso nuovi confini: lo dimostra, nel salone del Cortona, la presenza di alcuni dei migliori arazzi realizzati nella manifattura di famiglia, fondata alla metà degli anni Venti del Seicento da Francesco Barberini, che toglieva a Firenze il primato dell’unica arazzeria di livello presente in Italia.
Si sa che questi manufatti davano lustro ai propri proprietari già solo per il loro altissimo valore materiale, prestandosi inoltre, con la loro mobilità, a essere messi in opera solo nei giorni di festa. Il loro costo elevatissimo era dovuto alla preziosità dei materiali, nonché alla necessità di assoldare pittori affermati per averne progetti, poi messi in opera da alacri e talentuosi operai che, combinando manualità e ingegnosità, trovavano il modo migliore di trasporre il cartone sul telaio.
Ammiriamo quindi tre esemplari ognuno impegnato a richiamare le serie principali realizzate dall’arazzeria di famiglia, accompagnati per di più dal relativo cartone: si tratta di Costantino combatte contro il leone, su disegno di Pietro da Cortona (1636 ca), del Battesimo di Cristo, realizzato su progetto di Giovan Francesco Romanelli (1651) e infine dell’Elezione di Urbano VIII, arazzo tratto dalla serie dedicata alla vita del pontefice, su cartone di Fabio Cristofani.
Saranno ancora da ammirare dipinti di Simon Vouet, da Napoli e dalla Pinacoteca Capitolina, da dove proviene l’Allegoria dell’Intelletto, della Volontà e della Memoria che ha in mostra il meritato risalto e un’illuminazione perfettamente calibrata.
Non passa inosservato lo scintillante Ritrovamento di Mosè di Romanelli, dal Louvre, né tantomeno il ritratto marmoreo di Richelieu, realizzato da Bernini sulla base di un modello simile al triplo ritratto di Philippe de Champaigne che lo affianca in mostra. Il villain dei Tre moschettieri, dopo aver brigato a lungo per ottenere un busto realizzato dal più famoso artista italiano del momento, ottenendolo grazie al beneplacito dei Barberini, pare non aver apprezzato troppo il marmo, ritenendolo vivido, ma di scarsa somiglianza. Si giunge così inebriati all’ultima sala, dove ci attendono tele di grandi dimensioni, tre dedicate a eternare feste e celebrazioni ‘effimere’ delle quali altrimenti non sarebbe rimasta traccia, e i due capolavori di Andrea Camassei, il Riposo di Diana e la Strage dei Niobidi, restaurati e pronti per essere scandagliati da breve distanza così da dimostrare che pittore di razza fosse l’umbro.
La mostra si rivela dunque un’occasione ben costruita per risarcire i Barberini di una fama non sempre benigna e noi, anche se gli estremi dell’esposizione sono molto più larghi, di aver perso con l’abolizione del fedecommesso una collezione unica e irripetibile.
Massimo FRANCUCCI Roma, 26 Marzo 2023