Raffaello, il pittore delle certezze. Sarà pronto il mondo incerto in cui viviamo a celebrarne la grandezza?

di Ivo BOMBA

 Il pittore delle certezze.

Forse oggi è difficile accettare un artista che a vent’anni fu un Maestro. Raffaello fu il maestro di tutti i moderni che sono riusciti a vedere e a mostrare l’Idea che è oltre ogni dato naturale e che lo può rendere eterno.

Ancora condizionati dal retaggio della cultura romantica che aveva consacrato Michelangelo e Shakespeare, i maestri del dubbio, molti moderni hanno guardato con diffidenza l’arte dell’urbinate. Eppure a Delacroix che si fece travolgere dal tumulto michelangiolesco, rispose Ingres, radicalmente moderno, guardando lucidamente a Raffaello e lo consegnò a Picasso.

E noi?

Ogni opera è stata pensata e realizzata da Raffaello per permetterci di vedere il nostro lato più nobile, per metterci nella condizione di elevarci spiritualmente, di riconoscerci perfettibili e di ambire alla perfezione. Qualità specifica della sua arte è la proprietà del disegno, della composizione, atta ad esprimere i valori morali, quello che Vasari chiamava il “costume”. Raffaello riesce ad elaborare una ineguagliata perfezione tecnica per rivelarci che la perfezione è possibile. Quale messaggio potè essere più rilevante di questo per la religione dell’Uomo perfetto? La sua fu una risposta vitale e potente ai dubbi introdotti nel campo della cristianità dalla Riforma luterana.

La virtù del discernimento, l’istintiva capacità selettiva, fu propria di Raffaello tanto nel campo creativo quanto nella scelta dei propri ispiratori. Seppe vedere ed apprezzare le specifiche qualità sia degli altri artisti che dei suoi collaboratori. A bottega dal Perugino, comprese la sua modernità in quella capacità di sposare la grazia degli antichi a quella cristiana in uno spazio naturale quieto, semplice. Di Michelangelo apprezzò la forza espressiva e di Leonardo la profondità ombrosa dei valori psicologici.

Il suo fu un coltivato buonsenso, la consapevolezza di quella dote naturale che lo fece sentire perfettamente a proprio agio con la corte papale e con i suoi potenti committenti, cardinali, Papi e un re, con gli artisti e i più raffinati intellettuali del suo tempo: Baldassarre Castiglione, Pietro Bembo, Tommaso Inghirami, Bernardo Dovizi da Bibbiena, Baldassarre Peruzzi, Fabio Calvo, Andrea Fulvio, e tanti altri. Una cultura radicata nel passato e aggiornata con intelligenza gli dette la certezza di essere sempre all’altezza dei compiti che vennero a lui affidati e gli dette l’ardire di proporsi a Leone X come il conservatore della grandezza della Roma antica e come l’ideatore della sua nuova magnificenza.

A vent’anni fu accolto in Vaticano dove gli venne affidato l’incarico di decorare gli appartamenti di papa Giulio. E qui Raffaello potè dimostrare, fin dalla decorazione della prima stanza, la propria convinzione sul ruolo determinante della storia nell’attuazione del disegno divino, in antitesi a Michelangelo che non riconosceva né alla storia né alla natura alcun ruolo nella propria visione spiritualistica del mondo. Immediatamente Raffaello dimostrò di essere all’altezza della fiducia accordatagli traducendo, ventenne, all’indomani del suo arrivo a Roma, in immagine un dogma della chiesa su una parete della prima stanza e riassumendo il senso della filosofia universale su quella di fronte. La sua formazione e il suo straordinario intuito ne fecero l’artista più celebrato nel suo e nei secoli a venire.

Figlio dell’artista Giovanni Santi, bene introdotto alla corte di Federico da Montefeltro ad Urbino, Raffaele crebbe in quella città ideale all’ombra dell’architettura di Laurana, a contatto con le opere di Giusto di Gand, di Melozzo da Forlì, tra gli altri, ma sopratutto di Piero della Francesca che, per Federico da Montefeltro, aveva da poco dipinto la grande pala d’altare per la chiesa francescana di San Bernardino costruita da Francesco di Giorgio Martini e poi affidata a Donato Bramante che la concluse proprio negli anni dell’infanzia di Raffaello. Il ruolo primario che avrà l’architettura nella sua opera risale a quei primi anni della formazione e la connessione ideale con Bramante segnerà tutta la sua arte.

Ille hic est Raphael, temuti qui sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori”.

La grande mostra alle Scuderie del Quirinale – chiusasi subito dopo l’apertura ma oggi visitabile sul web (Il video completo  è disponibile sul sito delle Scuderie del Quirinale oltre che sui social http://YouTube: Scuderie del Quirinale.- ) apriva con il distico attribuito a Bembo inciso sulla lapide del semplice sarcofago nel quale riposa Raffaello Sanzio al Pantheon, il monumento tanto studiato ed amato dall’artista dove, artista sovrano, ebbe l’onore di essere sepolto. Essa lo celebra sommamente per più motivi.

La Natura, la “grande genitrice delle cose”, è sempre stata consorte dell’artista, e “temette di essere vinta quando lui era in vita e di morire insieme a lui quando egli morì”, come è inciso lungo il margine della lastra che sigilla il suo sepolcro.

L’arte classica, in ogni tempo, è sempre fondata su questa unione inscindibile con la Natura e Raffaello, il più classico dei moderni, ha consumato come nessun altro questo matrimonio. Per lui questo legame fu facile e la “facilità” è la qualità che la Natura gli donò per distinguere l’arte sua da quella di chiunque altro. E’ quella specificità che, di fronte all’unicità delle opere dell’urbinate, ci fa sentire a nostro agio, adeguati a tanta bellezza, naturalmente e facilmente nobilitati. Facilità. Il funzionamento dei meccanismi estremamente complessi della natura appare facile quando osserviamo i suoi fenomeni. Le creature vivono a proprio agio nell’ambiente naturale grazie all’istinto. Il talento artistico di Raffaello è istintivo, non sembra nascere dallo studio né da sforzo alcuno.

Trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcun altra: e cioè fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi…
Però si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte; né più in altro si ha da poner studio che nella nasconderla”. (Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, XVI).

Raffaello fece propria la regola dell’amico, quella sprezzatura che fa apparire l’arte meravigliosa come facile, frutto semplicemente di un talento naturale. L’opposto della “difficultà” michelangiolesca: difficoltà del vivere e fatica del fare. L’opera di Raffaello appare naturalmente perfetta, come la bellezza in natura.

Davanti alla lapide che onora Raffaello pensiamo anche alla carica a lui data da Leone X di praefectus marmorum et lapidum omnium, colui che fu preposto alla conservazione dei marmi e delle lapidi antiche, apprezzate sia per la nobiltà del latino che per la bellezza dei caratteri della scrittura, per salvarle dall’uso, ormai a quel tempo consolidato fin dall’alto medioevo, di ridurle in calcina per la costruzione. “Classico” viene da “classe” e l’Ideale ci libera dall’utile quando questo è ignobile.

Raffaello riuscì a restituire con naturalezza la perfetta sintesi tra la natura e l’antico che è propria del classicismo rinascimentale. Riuscì a farlo in modo assolutamente personale e profondamente rispettoso dell’Idea della forma che è l’essenza dell’arte classica. (1)

1 Raffaello, Studio di uno dei cavalli di marmo di Montecavallo, 1513, Washington National Gallery

Il disegno ha dato uniformità a tutta la sua produzione. Guardando i suoi disegni preparatori, scompaiono le differenze stilistiche tanto evidenti nelle opere definitive dei diversi periodi e ci appare l’omogeneità del suo corpus grafico. Questo è un mondo parallelo, sempre uguale perché aderente al naturale che non cambia: il disegno preparatorio per la figura di un angelo col tamburello è un garzone con il berretto in testa. E’ già in nuce quella rivoluzione che, proprio in nome del ritorno al naturalismo di Raffaello, i Carracci, alla fine del secolo, fecero dai banchi della Accademia degli Incamminati per predisporsi a raccontare i miti dell’antichità nei fregi affrescati e l’agiografia dei santi nelle pale d’altare.

Sfogliando il corpus dei disegni di Raffaello, si comprende quanto il naturalismo sia il fondamento di ogni forma di autentico classicismo, ma, proprio sul disegno, in quel frangente, si andò formando, grazie all’impulso della ricerca michelangiolesca, una tendenza diametralmente opposta: l’esercizio del disegno come esercizio di stile, esasperato fino alla consacrazione del primato del disegno per la cultura manierista. Disegno come modo per conoscere il naturale, secondo le indicazioni di Leonardo, contrapposto al disegno per cavare l’espressione fuori dalla forma.

2 Raffaello, Autoritratto con l’amico, 1518 ca., Louvre, Parigi

La poetica di Raffaello è totalmente aderente al suo modo di essere, la sua arte è bella quanto la sua condotta morale. Da qui lo stato psicologico del maestro che comunica a livello profondo con chi guarda la sua opera e in essa riesce a vedere l’Idea. La calma, la certezza del valore che l’immagine esprime, sollecita chi la guarda. Il legame psicologico parte dagli stati d’animo delle figure rappresentate, secondo le modalità già perfezionate da Leonardo, e coinvolge il riguardante attraverso uno schema comunicativo fondato sulla tradizione ma sempre rinnovato, adattato alle esigenze. Si pensi all’Autoritratto con l’amico del Louvre (2), un’opera esemplare sulle relazioni, quella tra l’artista e il suo amico, forse il suo collaboratore più importante, Giulio Romano: il primo si ritrae frontalmente e da quella posizione ci guarda catturando il nostro sguardo, la sua è la frontalità della figura sacra (3);

3 Raffaello, Autoritratto con l’amico (dett.), 1518 ca., Louvre, Parigi
4 Raffaello, Autoritratto con l’amico (dett.), 1518 ca., Louvre, Parigi

il secondo, al centro della composizione, è rivolto con lo sguardo all’altro rafforzandone così la centralità ideale e si rivolge a noi con il gesto della mano, raffigurata in scorcio, che si avvita verso il nostro spazio fuori dal quadro in un vortice già completamente manierista e barocco (4). E’ la figura “di aggancio” che ci introduce al quadro, quella che, generalmente nella pittura di storia, indica l’evento centrale.

Raffaello più volte esplorò le strade che porteranno alla ‘meraviglia’ del barocco: basti pensare alla tridimensionalità della manica di damasco bianco strabordante della sua  Velata che prelude ai panneggi di Bernini. Nel secolo del barocco, il sentimento che animerà la pittura sacra di Guido Reni, nasce di fronte alla Santa Cecilia bolognese di Raffaello, con gli occhi rivolti a quel cielo già correggesco.

La concezione medievale dell’immagine sacra rimase ancora viva nell’età moderna e Raffaello fu tra i principali artefici di questo rapporto vitale nel Rinascimento. Per secoli i fedeli avevano riconosciuto la forma del divino nei semplici schemi definiti dai pochi colori canonici delle icone della tradizione bizantina. Nelle chiese, romane e non, le immagini più venerate erano ancora quelle antiche immagini, più o meno di origine orientale.

5 Raffaello, Cristo benedicente, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo, Fondazione Brescia Musei

Il Cristo benedicente dipinto da Raffaello giovane 5 (1505-6, Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia), è una piccola tavola dipinta a Firenze per la devozione di un committente urbinate. Forse un autoritratto, la figura è rappresentata frontalmente, nella postura caratteristica dell’icona medievale, ma, alla bidimensionlità di quella tradizione, Raffaello oppone una perfetta resa della volumetria del corpo nello spazio: dalla mano che indica il costato, al busto, al volto, alla mano che indica il regno dei cieli, tutto è esaltazione di una volumetria scultorea neo greca che ci riporta a Piero della Francesca, l’artista sul quale si era formato ad Urbino.

Il giovane Raffaello, negli anni fiorentini, creò nuove icone per la devozione della coltissima committenza della città dipingendo quelle che chiamiamo la Madonna del Cardellino (1505-6, Uffizi, Firenze), la Madonna del prato (1506, Kunsthistorisches Museum, Vienna), e la Belle Jardinière (1507, Louvre, Paris). Rispettando lo schema piramidale già proposto da Leonardo e personalizzandolo con una policromia semplificata, simbolica e preziosa che ripropone sempre identica, crea un nuovo canone personale. Il rosso, il blu e il verde risplendono alla luce tersa che illumina ed uniforma il paesaggio. La somma semplicità dell’icona.

La sacralità e la frontalità proprie della raffigurazione arcaica del divino furono da da Raffaello associate alla visione prospettica che ne rappresenta la dimensione storica e naturale. A Firenze, di fronte all’affresco di Fra’ Bartolomeo, artista che tanto ammirò, per Santa Maria Nuova, Raffaello ebbe l’intuizione da cui nacque la sezione di cupola costituita dai piani in affondo delle nuvole nella Trinità di San Severo a Perugia (1505). Quella architettura d’aria giunse a perfezione quando ebbe l’incarico di immaginare la gloria della Trinità che ambientò al centro di una simile cupola aerea nel grande spazio naturale della cosiddetta Disputa del Sacramento. 6

6 Raffaello, Disputa del Sacramento, Stanze Vaticane

Qui è magnificata la spazialità architettonica dell’ampio paesaggio ed esaltato il valore simbolico dell’architettura: a sinistra Bramante, con gli occhi fissi sulla Trinità, indica ai giovani allievi, col gesto della mano, la corrispondenza tra la visione celeste e la tavola del libro che tiene con l’altra mano. Un edificio è in costruzione nello sfondo lontano alle sue spalle e, nel secondo piano a destra, il basamento di un grande edificio marmoreo.

Siamo così introdotti alla Idea di architettura con cui l’artista illustra il tema teologico.

Al centro dell’immenso paesaggio, punto di fuga simbolico sul cielo appena sopra la linea azzurrina dell’orizzonte, la particola è glorificata nell’ostensorio, un piccolo disco bianco che irradia luce. Salendo lungo l’asse centrale del mondo naturale, partendo da questo cerchio più piccolo, giungiamo al cerchio un po’ più grande irradiato dallo Spirito Santo, in corrispondenza del centro del piano mediano che, a sua volta, è la base della cupola cosmica del cielo sovrannaturale che poggia sul “tamburo” costituito dal cielo naturale. Sopra a quello dello Spirito Santo è il cerchio ancora più grande che incornicia la figura del Figlio seduto in trono, al centro del ripiano fatto di nubi animato dagli spiriti angelici. Sopra di lui il Padre, immerso nel più grande dei cerchi di luce, tanto grande che noi possiamo vederne solo una parte. I cerchi, piani, frontali, corrispondenti al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo sono allineati in ordine di grandezza sull’axis mundi, al centro dell’immenso spazio tridimensionale della natura e della storia. Un ragionamento per immagini organizzate come in una struttura architettonica per dimostrare facilmente che l’Eucarestia è la diretta emanazione della Trinità divina.

Un semplice schema geometrico organizzato intorno a tre figure geometriche piane che intersecano uno spazio tridimensionale, una architettura fatta di luci naturali e divine che si addensano in forme. Nuovamente il ricordo di Piero.

Al centro del piano della Chiesa trionfante, la figura di Cristo in trono, con le braccia aperte, è affiancata da quelle di Maria e di Giovanni Battista, riproponendo la deesis, il tema iconografico della tradizione bizantina che ritroveremo poi nella tela dipinta da Giulio Romano per portare a compimento il progetto del maestro (1519-20, Galleria Nazionale, Parma). In quel momento estremo della sua esistenza, Raffaello adottò la stessa dialettica formale tra tridimensionalità e bidimensionalità anche nella grande pala della Trasfigurazione (1518-20, Pinacoteca Vaticana).7

In essa Raffaello unì due episodi prossimi ma separati nel racconto evangelico: la liberazione del fanciullo ossesso e la Trasfigurazione sul monte Tabor; per riuscire in un’impresa tanto ardita si servì di un marchingegno comunicativo simile a quelli che abbiamo visto, a sua volta facilmente riconducibili a quelli delle pale giovanili, per esempio della Crocifissione Gavari, 8 dipinta per la cappella in san Domenico a Città di Castello nel 1503 (National Gallery, Londra).

Nella pala tifernate il Crocifisso nel registro superiore è raffigurato frontalmente, sotto ai simboli medievali del sole e della luna, in uno spazio circolare definito dalla curva dell’orizzonte, sullo stesso piano delle figure degli angeli quasi bidimensionali; nella sfera in basso la Vergine, san Giovanni, i santi Maddalena e Girolamo, sono disposti in modo da suggerire la profondità dello spazio.

Nella Trasfigurazione due grandi sfere sovrapposte: quella in alto vista frontalmente, su un piano quasi bidimensionale, astratto, uno spazio assoluto, non in relazione con le cose e lo scorrere del tempo; quella in basso vista da un piano leggermente rialzato che sottolinea, in una visione fortemente tridimensionale, lo spazio dell’esistenza umana in cui la profondità del paesaggio corrisponde a quella del tempo. Il Cristo trasfigurato, simile a quello della Disputa e a quello della Deesis, è animato da una forza radiante e la luce che emana riempie la sfera superiore. La figura è frontale e le dita delle mani, quelle dei piedi e i capelli suggeriscono la stesso flusso lineare centrifugo. A questa figura del Cristo trasfigurato si riferirà, di lì a poco, Sebastiano del Piombo nel catino della cappella Borgherini in san Pietro in Montorio.

L’episodio evangelico della trasfigurazione è soggetto privilegiato nella tradizione greco-ortodossa che evidentemente Raffaello conosceva a giudicare da uno dei disegni preparatori alla Trasfigurazione ora al British Museum. lo schema compositivo di quell’icona bizantina è costituito dalla sovrapposizione della sfera del divino a quella dell’umano, a sottolineare che il Cristo, in quell’unico episodio tra quelli riportati dai Vangeli, volle mostrare la propria natura divina che affianca quella umana.

9 Raffaello, Madonna del Granduca, Firenze, Galleria Palatina

Alexander Nagel, in un capitolo del suo The Controversy of Renaissance Art del 2011, si è dedicato a rintracciare le ascendenze della cultura figurativa medievale sull’arte del pieno Rinascimento, e di Raffaello in particolare.

La Madonna del Granduca (1506-7, Uffizi, galleria Palatina), 9 quasi un gioiello di rubino, smeraldo e zaffiro, può considerarsi esemplare della relazione tra immagine e riguardante. La sua funzione è paragonabile a quella che era stata delle icone bizantine, è una ‘porta regale’ tra lo spazio esterno al quadro e lo spazio sacro da cui emerge la Vergine che vediamo, lì, sub limen, nel momento in cui ci appare. Il fondo nero, come accade anche nella coeva pittura veneziana che echeggia quella nordica (Bellini, Durer, Lotto), sostituisce quello dorato della tradizione medievale. La tanto dibattuta tela di bottega che rappresenta San Luca che dipinge la Vergine all’Accademia di San Luca, sembra raccontare l’apparizione della Madonna del Granduca “da dietro le quinte”. Il Maestro assiste all’evento mirabile: l’evangelista protettore degli artisti ha gli occhi fissi sull’apparizione che è conforme in tutto e per tutto a quella del dipinto di Raffaello nella Palatina, solo che qui è visto da un lato.

Il secondo decennio del ‘500 corrisponde al periodo centrale dell’attività di Raffaello, quello in cui ha creato le sue opere più celebrate ed originali. La Madonna di Foligno (1511, Pinacoteca Vaticana) e la Madonna Sistina (1512-3 Dresda, Gemäldegalerie) sono tra le pale d’altare più innovative di tutto il Rinascimento grazie ad una riproposizione modernissima degli schemi comunicativi propri della tradizione medievale in un contesto totalmente nuovo. Con la Madonna Sistina Raffaello creò una imponente apparizione, modernissima, ma legata profondamente alla tradizione figurativa medievale.

La sua funzione di “porta regale” è qui resa ancora più evidente dalla tenda verde, allusiva alla natura, che, come il velo che copre le icone bizantine, viene scostata a svelare l’apparizione della Vergine col Bambino che risalta su un fondo di luce abbagliante che cancella ogni rapporto spaziale, una luce popolata da innumerevoli spiriti, versione naturalizzata, quindi classica, dell’oro dei mosaici medievali, animati dalle animate scintille alate e preste tanto amate, di lì a poco, da Vittoria Colonna. Quando Raffaello dipinse la Madonna Sistina, la frequentazione dell’arte cristiana medievale, che sarà consueta nel Cinquecento della Controriforma, è ancora di là da venire; quella che sarà una delle armi più acute e penetranti che la Chiesa cattolica abbia usato per rispondere agli attacchi del luteranesimo, Raffaello la usa, grazie al proprio intuito, già all’inizio del secondo decennio. La forza comunicativa dell’arte medievale nel dialogo tra l’immagine e il devoto era stata già intuita da Raffaello e fatta propria nella Madonna di Foligno (1511, Pinacoteca Vaticana) nella quale egli riprende la simbologia del disco di luce accompagnato all’arcobaleno che si può ammirare nella decorazione a mosaico dorato della cupola dell’ascensione nella basilica di San Marco a Venezia (XI sec.).

La Stufetta e la Loggia per il Cardinal Bibbiena, le Logge Vaticane per il papa, la Loggia per Agostino Chigi, la Villa per il cardinale Giulio de’ Medici sul Monte Mario furono, tra le altre realizzazioni di Raffaello dei tardi anni venti, la realizzazione del sogno antiquario dei suoi committenti e dovettero apparire all’artista come l’inizio di quel programma di rinascita di Roma da lui proposto a Leone X. Non sapeva che la morte e poi il sacco della città avrebbe interrotto quel sogno e finché visse collaborò come nessun altro alla renovatio urbis. E’ di quegli anni l’ideazione delle grandi decorazioni a stucco delle Logge e di villa Madama che rinnovarono gli splendori della Domus Aurea.

Raffaello, Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, Firenze, Uffizi

Leone X de’ Medici, figlio del Magnifico, che Raffaello ritrae con in mano una lente usata per gustare le minute meraviglie di un codice miniato, deve sicuramente avere stimolato nel pittore un ulteriore allargamento degli orizzonti culturali. Caratteristico di quel pontefice fu un gusto estremamente sofisticato e di respiro internazionale, aperto a suggestioni nordiche che affiancarono quelle nel campo dell’arte antica ed in quello dell’arte medievale. Per lui Raffaello si impegnò nella elaborazione degli arazzi per la Cappella Sistina poi tessuti a Bruxelles nel laboratorio di Peter Van Aelst, lo stesso dove vennero realizzati anche gli arazzi per il letto dei paramenti da installare in occasione della cerimonia di vestizione del papa nella sala dei Palafrenieri. Questo gusto per la preziosità dei manufatti fiamminghi lo indusse, molto probabilmente a pensare ad arazzi per la rappresentazione degli episodi della vita terrena di Psiche nella loggia della villa Chigi e ai finti arazzi per gli affreschi che decorano le pareti dell’immensa sala di Costantino, primo esempio di quell’uso che si imporrà verso la metà del secolo nella grande decorazione manierista, a cominciare dal Salviati in palazzo Farnese.

Voglio qui cogliere il suggerimento con cui Sylvia Ferino Pagden conclude il saggio nel catalogo della mostra alle Scuderie del Quirinale per un’altra riflessione: come ci potremmo immaginare la vera “opera tarda” di Raffaello visto che quella che chiamiamo così non è altro che quella della sua maturità? Cosa sarebbe successo se, invece di morire prematuramente all’età di trentasette anni per una “grandissima febbre”, fosse vissuto fino a sessant’anni, non dico fino a novanta come Michelangelo o Tiziano, ma se semplicemente avesse superato la maturità e fosse diventato anziano? Sicuramente avrebbe visto la parete del Giudizio ed è molto probabile che, nel ’45, avrebbe incontrato un Tiziano quasi coetaneo nel corso del soggiorno romano quando il maestro veneto venne invitato dai Farnese; avrebbe seguito l’evolvere della gloriosa carriera dei suoi più stretti collaboratori, anche dopo la loro fuga dalla Roma saccheggiata nel 1527; possiamo solo immaginare quanto lo avrebbe destabilizzato questo tragico evento considerando che già lamentava lo stato di degrado della città eterna poco prima della sua morte nella lettera indirizzata a Leone X. Se poi fosse diventato vecchio come Michelangelo avrebbe addirittura potuto incontrare Taddeo e Federico Zuccari che, a Caprarola, in Vaticano, in giro per l’Italia e fino all’Escorial predicavano il suo culto, celebrando la sua grande pittura di storia, sopratutto quella del periodo leonino, quella della Stanza dell’Incendio e della Sala di Costantino.

Come sarebbe stata la sua pittura se fosse vissuto ancora?

A giudicare dalla sua evoluzione nell’arco pur breve della sua vita, sarebbe cambiata ancora molte volte. In soli vent’anni, la sua produzione cambiò tanto che possiamo distinguerla in fasi diverse, molto diverse fra loro. Da giovane riuscì a riassumere i presupposti del Rinascimento quattrocentesco e, alla sua morte, consegnò ai posteri un linguaggio completamente rinnovato che avrebbe stimolato la ricerca dei manieristi e poi degli artisti del ‘600. Pochi artisti, tuttavia, furono coerenti quanto lui pur nella multiformità.

Pensiamo ai gruppi della Madonna col Bambino, con o senza san Giovannino, con o senza sant’Anna o san Giuseppe, dipinti nel corso di tutta la vita, con negli occhi, sempre, i prototipi di Leonardo. Quelli degli anni fiorentini che lo hanno consacrato ancora ventenne: le figure sono immerse in uno paesaggio immenso, peruginesco, percorso da un’aria lievemente mossa, cristallina; illuminate da una luce che rimanda a quella zenitale di Piero. E poi quelle dipinte meno di una quindicina di anni più tardi, nel période sombre, che, a prima vista, sembrano far parte del catalogo di un altro artista ma che, a ben vedere, ripropongono il medesimo prototipo iconografico e compositivo.

Nelle prime aveva rintracciato, respirando ancora l’aria del platonismo a Firenze, la divinità nell’Idea di Natura, nelle seconde privilegiò la Storia, collocando quelle sacre famiglie tra i resti di Roma antica la cui magnificenza studiava e voleva restaurare. Natura e Storia, le compagne inseparabili su cui si fonda ogni forma di vero classicismo.

La struttura piramidale del gruppo di figure al centro dello spazio è lo stesso nelle Madonne dei primi anni del secolo e in quelle del periodo leonino, ma ne risultano opere assolutamente diverse. Le prime entusiasmarono la critica neoclassica dopo secoli di relativo oblio, oscurate da quelle romane 10.

10 Raffaello, Sacra Famiglia della Quercia, 1518 -20, Madrid, Prado
11 Raffaello, Vergine col Bambino, San Giovannino e Santa Elisabetta, 1518 ca., Museo del Prado, Madrid

Nel ‘600 Filippo IV di Spagna, considerava la “perla” della sua favolosa collezione la Vergine col Bambino, San Giovannino e Santa Elisabetta (1519-20, Museo del Prado, Madrid) 11. Dipinta da Raffaello per Ludovico Canossa quando questo tornò dalla Francia, quindi tra il 1519 e il ’20, opera estrema nella cronologia raffaellesca, contemporanea alla seconda fase della Trasfigurazione, si ricollega ai gruppi leonardeschi della Sant’Anna Metterza con la figura della Vergine seduta in grembo alla donna anziana. San Giuseppe, in disparte, si intravede tra i ruderi alle spalle del gruppo principale; le antiche architetture in rovina sono rappresentate in controluce, scure come le rocce della Vergine col Bambino, San Giovannino e un angelo dipinta da Leonardo più di trent’anni prima, e sapientemente illuminate da lumi di fiaccole distribuiti per renderne la profondità e quelle in lontananza sono qua e là rischiarate da fuochi che sembrano fatui 12.

12 Raffaello, Vergine col Bambino, San Giovannino e Santa Elisabetta (dett.), 1518 ca., Museo del Prado, Madrid

Se la città antica in lontananza rimanda a Mantegna, il paesaggio che occupa la metà destra del fondo, così vicino a quello della Trasfigurazione, ribadisce l’ammirazione per gli sfondi di Sebastiano del Piombo che, iniziata guardando il suo Polifemo nella Loggia di Galatea, Raffaello continuò a nutrire fino a quei giorni.

Le grandi Madonne del periodo leonino, dipinte in stretta collaborazione con Giulio Romano e Giovan Francesco Penni, si distinguono, oltre che per il gusto aristocratico per un antico alessandrino, opulento e lussuoso, per quel gusto quasi romantico per le rovine al crepuscolo, per l’oscurarsi delle atmosfere. Per Raffaello quegli anni corrisposero ad una nuova riflessione su Leonardo, una rinnovata comprensione del valore della sua ombra e del valore delle sottili tensioni psicologiche che avevano caratterizzato i suoi capolavori. Raffaello aveva rivisto Leonardo a Roma nel 1514 quando fu a Roma, ospite di Giuliano de’ Medici.

Della fine del secondo decennio è anche l’imponente pala della Lapidazione di Santo Stefano a Genova, commissionata a Raffaello da Gian Matteo Giberti, già segretario di Giulio de’ Medici e amico personale di Giulio Romano il quale la portò poi a termine dopo la morte del maestro, prima della partenza per Mantova. Lo sfondo di quella imponente pala è costituito da un ampio paesaggio autunnale dai toni drammatici con, a sinistra, i resti di un grande edificio che ricorda la Domus Aurea ancora in parte interrata in uno strato dove la terra è mista a cocci antichi, e a destra una veduta di Roma antica che, come quella della “perla”, rimanda agli antecedenti di Mantegna nella Camera mantovana 13.

13 Giulio Romano, Lapidazione di Santo Stefano (dett.), 1521, chiesa di Santo Stefano, Genova
14 Giulio Romano, Pala Fugger, 1522, Roma, Santa Maria dell’Anima

Allo stesso Giulio, proprio a ridosso del 1520, nel tempo in cui il pittore si dedicava a portare a termine le opere lasciate incompiute dal maestro, il banchiere Jakob Fugger commissionò, per la cappella di famiglia in Santa Maria dell’Anima, una Sacra Famiglia con san Giovannino, san Giacomo Maggiore e san Marco. La sacra conversazione è ambientata su uno sfondo costituito da un grande deambulatorio antico con soffitto a lacunari e sculture nelle nicchie. L’estetica delle rovine, la stessa che  affascinò Hubert Robert e poi i romantici, unì Raffaello a Giulio Romano 14.

Gli sfondi crepuscolari con rovine del periodo leonino di Raffaello denunciano la vicinanza a quelli che caratterizzarono l’opera di Sebastiano del Piombo: il Bulicame e Santa Maria in Silice a Viterbo nel paesaggio notturno della Pietà per la chiesa di San Francesco 15;

15 Sebastiano del Piombo, Pietà (dett.), 1516-7, Museo Civico, Viterbo

il Settizonio, illuminato da una luce che rimanda direttamente a quella della Tempesta di Giorgione, sullo sfondo della Resurrezione di Lazzaro 16,

16 Sebastiano del Piombo, Resurrezione di Lazzaro (dett.), 1517-9, National Gallery, Londra

la grande pala d’altare commissionata dal cardinale Giulio de’ Medici, destinata, insieme alla Trasfigurazione di Raffaello, alla Cattedrale di Narbonne. L’antagonismo tra i due che culminò proprio in occasione di questa commissione così importante non può distrarci da quello che fu sicuramente un rapporto di profonda considerazione reciproca.

Magnifico notturno, ma non più sacra conversazione, il Ritratto di donna in veste di Venere che ha suscitato la fantasia di Ingres, di Picasso e di Man Ray, venne dipinto da Raffaello nel suo ultimo anno di vita (1519-20, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma) 17.

6 Raffaello, Ritratto di giovane donna (dett.) 1519-20, Galleria Nazionale di Arte Antica, Roma

Il pittore ha ritratto la Fornarina di notte, qui il tempo dell’amore: mentre un lume di fiaccola illumina il corpo seminudo, il copricapo di seta d’oro e i gioielli, la luce lunare illumina il cielo blu che spicca oltre la siepe di mirto, la pianta sacra alla Dea che abbonda nel giardino della villa di Agostino Chigi alla Lungara dove il pittore potè trascorrere del tempo con la sua amante grazie al privilegio a lui concesso dal suo committente di sempre.

Illuminato da un fascio di luce lunare che penetra in quella stessa loggia alla Lungara verrà rappresentato, dal fratello Federico, a fine secolo, Taddeo Zuccari intento a disegnare e a studiare gli affreschi che Raffaello aveva lì dipinto insieme ai suoi collaboratori.

Ivo BOMBA   Roma 29 marzo 2020