di Nica FIORI
Le ricorrenze relative a un grande artista sono sempre occasione di nuove indagini sulla sua opera.
Così il quinto centenario della morte di Raffaello Sanzio, che per un caso sfortunato ha coinciso con il periodo della pandemia da coronavirus, tanto da aver costretto moltissimi a rinunciare alla visione delle mostre che gli sono state dedicate, ha stimolato il noto e stimatissimo storico dell’arte Marco Bussagli ad approfondire la sua figura nell’ampio volume intitolato “RAFFAELLO. Nella pittura un dio mortale” (Giunti Editore 2020). Un libro di 320 pagine che unisce all’assoluto rigore scientifico una scrittura chiara e attraente e, corredato com’è da un ottimo apparato illustrativo a colori, è un piacere per gli occhi e per la mente.
Già l’ossimoro del sottotitolo – dio mortale – ci spinge a riflettere sulla morte di Raffaello, che lo colse nel 1520 a soli 37 anni, eppure nel suo breve arco di vita egli era riuscito a ottenere una fama enorme grazie alle sue straordinarie doti artistiche e umane e, se è vero che “muor giovane colui che al cielo è caro”, come già scriveva Menandro, gli antichi avrebbero potuto vedere nella sua morte una vera apoteosi, l’immortalità riservata alle persone eccezionali. Quella morte prematura, del resto, gli avrebbe evitato la decadenza fisica e soprattutto quel sacco di Roma, che sarebbe stato compiuto dai Lanzichenecchi 7 anni dopo la sua scomparsa, gettando la città e il pontefice Clemente VII (Giulio de’ Medici) in una terribile desolazione.
Sappiamo tutti che Raffaello fu un abilissimo pittore e architetto, osannato da papi e principi. La composizione ariosa delle sue pitture, l’armonia leggendaria delle proporzioni e del colore hanno reso popolarissime le sue creazioni: dalle celeberrime madonne ai ritratti, fino ai capolavori assoluti degli affreschi nelle Stanze Vaticane. Ma quanto sappiamo veramente della sua vita, dei suoi amori, dei suoi rapporti con i grandi protagonisti del suo tempo? In questo volume viene analizzata tutta la sua vita e vengono svelati tanti di quei particolari, che ci aiutano a capire la grandezza dell’artista e la sua modernità, le ampie vedute culturali e la nascita del suo mito che si è riverberato fino alla contemporaneità.
“Bello, ricco e famoso, forte di un successo personale a tutto campo, Raffaello fu il prototipo dell’artista moderno”, afferma nell’introduzione Bussagli, paragonando l’affascinante divo del Rinascimento alle superstar di questo secolo o di quello appena trascorso, evidenziandone le capacità imprenditoriali e cogliendo le differenze rispetto agli altri giganti della sua epoca, come fa nel confronto con Michelangelo Buonarroti:
“La solarità di un successo che arrise all’artista fin da giovane e la felice condizione di un aspetto di riconosciuta avvenenza sono peculiarità che non possiamo ritrovare, per esempio, in Michelangelo, la cui fisicità condizionò la vita del grande artista sfociando in un tormento interiore che non trova riscontro nell’esistenza di Raffaello… Se Michelangelo si arrovellava su profondi temi teologici, a lui perfettamente noti, offrendo straordinarie soluzioni visive in grado di mantenere la stessa profondità di pensiero tradotta in immagini dal medesimo spessore speculativo, Raffaello era capace di ammantare il pensiero teologico della cultura ufficiale di un’apparenza visiva sfavillante e solare che finiva per essere il manifesto di un’epoca”.
Riguardo a Leonardo da Vinci, l’autore constata, invece:
“Mentre Leonardo era spinto dalla curiosità di sapere e d’indagare le ragioni del mondo al fine di raffinare al meglio i temi pittorici che andava affrontando, Raffaello considerava la propria arte come il mezzo migliore per affermare se stesso e l’impiegava come un vero e proprio ascensore sociale. In questo senso, come si leggerà, fece propria e amplificò la lezione del padre Giovanni Santi che viveva all’ombra del duca di Urbino”.
Un artista, Giovanni Santi, che è stato nel passato ingiustamente sottovalutato (Vasari lo definisce “pittore non molto eccellente”), probabilmente perché schiacciato dalla fama del figlio, e la cui vita è ricostruita insieme all’ambiente urbinate di Federico da Montefeltro, presso cui lavorarono grandi artisti quali Piero della Francesca, Pedro Berruguete e Giusto di Gand.
Giovanni Santi era poeta e uomo di cultura umanistica, oltre che raffinato pittore: rappresentava, come si legge nel testo, “la sintesi completa e felice degli ideali artistici e culturali di Federico da Montefeltro; ideali che aveva contribuito a forgiare e dei quali era il più alto esponente”. Bussagli riferisce anche che la famiglia Santi era in rapporto con una delle più importanti confraternite di Urbino, quella del Corpus Domini, il cui significato sarebbe stato in seguito affrontato dallo stesso Raffaello nell’affresco della Messa di Bolsena, che celebra il miracolo dell’ostia sanguinante che è alla base della festa del Corpus Domini.
Tra le notizie riportate dall’autore, mi ha particolarmente colpito il fatto che Giovanni Santi avesse concesso alla madre di Raffaello, Magia, di allattare personalmente il piccolo, invece di mandarlo a balia come si faceva di norma, perché s’intendeva anche di puericultura ed era perciò consapevole della bontà di quella scelta. Può darsi che questo tenerissimo rapporto con la madre (morta quando Raffaello aveva otto anni), sia alla base di quella capacità raffaellesca di raffigurare il tema della maternità divina con una grazia infinita, approfondendolo nell’arco di tutta la vita.
Al di là della genialità di Raffaello, il suo successo è dovuto in gran parte proprio all’educazione ricevuta in famiglia, sostiene Bussagli:
“Tutto quel che sarà Raffaello: architetto, imprenditore, pittore, urbanista e perfino poeta nasce dall’esempio paterno. Oggi, infatti, procediamo con parametri diversi, ma allora i dieci anni (dal 1483, anno della nascita del futuro maestro, al 1494, data della morte di Giovanni Santi) che videro lo sviluppo di un intenso rapporto padre-figlio furono fondamentali per la personalità dell’artista. Anche perché, allora, si entrava a bottega a sette anni; ma nel caso di Raffaello, la bottega era casa sua e tutto il quotidiano ruotava intorno all’impresa artistica di famiglia ...”.
Certo Giovanni Santi voleva il meglio per il figlio e, conscio del talento del bambino, lo portò da Pietro Vannucci, detto il Perugino, che era all’apice della carriera dopo aver lavorato alla Cappella Sistina. Anche questo capitolo della vita di Raffaello è ampiamente sviluppato, con un’accurata analisi delle fonti e interessanti riflessioni, come quando Bussagli spiega il racconto di Vasari, ipotizzando che l’incontro dell’Urbinate con il Perugino ebbe due momenti: prima, quando era ancora bimbo; e poi, quando andò a lavorare nella sua bottega. Doveva essere stato un allievo eccezionale se è vero che, come scrive Vasari, Raffaello imitò talmente bene la maniera di Pietro, “che i suo’ ritratti non si conoscevano degl’originali del maestro e fra le cose sue e di Pietro non si sapeva certo discernere”.
Dopo la morte di Giovanni Santi, avvenuta nel 1494, l’undicenne Raffaello dovette portare avanti l’impresa di famiglia, potendo contare, però, sulla collaborazione e sul sostegno di pittori che, da anni, erano a bottega dal padre: Timoteo Viti ed Evangelista di Pian di Meleto. Agli esordi della carriera dell’Urbinate appartiene lo Stendardo della Trinità, oggi nella Pinacoteca comunale di Città di Castello. Nonostante le pessime condizioni conservative, dovute all’uso durante le processioni, l’opera “mantiene la freschezza di un esordio proiettato verso quella maturità che farà di Raffaello uno dei più grandi artisti di tutti i tempi”.
Il tema, secondo Bussagli, è da porre in relazione con l’epidemia di peste del 1499, come conferma la presenza di San Sebastiano e di San Rocco, ambedue invocati contro le pestilenze. Poco dopo dovrebbe collocarsi la Pala di San Nicola da Tolentino, detta Pala Baronci (ne conosciamo quattro frammenti sparsi in vari musei), della quale possiamo farci un’idea generale dal disegno del Palais des Beaux-Arts di Lille che attribuisce tutta la composizione a un Raffaello diciassettenne. Nel caso di quest’opera, l’artista è indicato per la prima volta come magister nel contratto di allocazione risalente al 10 dicembre 1500.
Gli anni fra la morte di Giovanni Santi e la commessa per lo Stendardo della Trinità sono quelli che devono aver visto il giovane Raffaello apprendista dal Perugino, “magari con un ruolo crescente e, forse, intermittente”, visto che contemporaneamente doveva mandare avanti la sua bottega. Il periodo compreso fra il 1494 e il 1499 è per Bussagli
“l’unica parentesi temporale, proprio perché c’è un vuoto documentario, che può “ospitare” quel momento di crescita professionale che dovette per forza esserci e del quale non si può dubitare”.
Al 1501 risalirebbe la tavola con la Madonna col Bambino e i santi Girolamo e Francesco, della Gemäldegalerie di Berlino, che da taluni è ritenuta la prima con questo soggetto (a parte l’affresco di casa Santi a Urbino), primato che contende a un’altra opera della stessa Galleria berlinese, la Madonna Solly, che ha in mano un libro aperto, a simboleggiare il Verbo, mentre il Bambino ha un cardellino che allude al futuro sacrificio.
Da allora è tutto un succedersi di dolcissime Madonne che caratterizzano gli esordi di Raffaello, che, dopo aver abbandonato Urbino (al tempo del duca Valentino, Cesare Borgia), si sposta a Perugia, Siena e Firenze, dove arrivò con il patrocinio di Giovanna Feltria (figlia di Federico da Montefeltro), della quale è riportata la lettera di raccomandazione al gonfaloniere Pier Soderini. Si tratta di quel Soderini che commissionò ai due massimi pittori del momento Leonardo e Michelangelo gli affreschi, mai portati a termine, rispettivamente della Battaglia di Anghiari e della Battaglia di Cascina.
Raffaello ebbe modo di confrontarsi con la cultura artistica fiorentina, che lasciò una traccia profonda nella sua pittura, con una propensione iniziale più per il linguaggio di Leonardo che per quello di Michelangelo. A Firenze continuò a dipingere Madonne, ma anche ritratti di privati, come quelli dei coniugi Doni, e non interruppe i rapporti con le nobili famiglie di Urbino e di Perugia, come dimostra la Deposizione commissionata da Atalanta Baglioni, in memoria del figlio Grifonetto, ucciso nelle lotte per la signoria di Perugia.
Collocata nel 1507 nella cappella di famiglia, la pala fu prelevata nel 1608 da Scipione Borghese e portata allo zio Paolo V, che la donò ufficialmente al nipote. Si tratta di un’opera che ebbe una lunga elaborazione, testimoniata da una straordinaria serie di disegni, ed è emblematica per cogliere l’attrazione che Raffaello cominciava a sentire per la classicità romana, in particolare i rilievi con il trasporto di Meleagro, nome accomunato nel mito a quello di Atalanta.
Seguono gli interessanti capitoli dedicati al successo a Roma alla corte dei papi e presso il banchiere Agostino Chigi, per il quale lavorò nella splendida villa alla Lungara (nota ora come Farnesina), il cui affresco del Trionfo di Galatea potrebbe essere stato il banco di prova per verificare la capacità di affrescare da parte di Raffaello, prima che egli si accingesse ad affrescare le Stanze Vaticane, secondo un’ipotesi dovuta a Claudio Strinati e condivisa da Bussagli. La data di realizzazione della Galatea viene pertanto retrocessa dal 1511 al 1509, tenuto conto che Raffaello dovrebbe essere arrivato a Roma nel 1508. È in questo contesto romano che Bussagli ci parla della vita amorosa di Raffaello, accennando anche a un ipotetico matrimonio segreto con la sua amante più nota, la cosiddetta Fornarina, come pure a un fidanzamento con una nipote del cardinal Bibbiena.
Certo quando pensiamo alla donna realmente amata da Raffaello, in mancanza di dati certi, la immaginiamo come La Velata, che è conservata a Firenze, o come La Fornarina della Galleria Barberini a Roma. Dal punto di vista iconografico la prima potrebbe essere assimilata a una Venere Mundana (terrestre) e la seconda a una Venere Urania (celeste), “anticipando così il tema che diverrà poi celebre con L’Amor sacro e l’Amor profano di Tiziano”.
Fu Bramante a “raccomandare” il giovane Raffaello (ma già celebre a Urbino) al pontefice Giulio II della Rovere (1503-1513), sotto il quale il Sanzio iniziò le Stanze Vaticane. Questo grande pontefice ebbe la felice idea di far lavorare Raffaello mentre Michelangelo era impegnato nella Sistina.
Un aneddoto vuole che Raffaello riuscisse a vedere di nascosto gli affreschi del Buonarroti, grazie alla complicità del Bramante, che aveva le chiavi della Cappella, “acciò che i modi di Michelangelo potesse comprendere”, come narra Vasari, e da allora la pittura di Raffaello sarebbe cambiata, perché egli avrebbe fatto entrare quei modi nel suo linguaggio. E anzi Raffaello volle fare un omaggio al Buonarroti inserendolo nel grande affresco della Scuola d’Atene nella veste del filosofo Eraclito (Leonardo nello stesso affresco è raffigurato come Platone). Bussagli esamina a fondo l’operato di Raffaello nelle Stanze, la sua padronanza della tecnica, che a un certo punto divenne più fluida e veloce, i contenuti teologici e filosofici e le architetture raffigurate negli affreschi, facendoci notare che la Disputa del Sacramento è invece “all’aperto, nella natura che è l’architettura di Dio”.
La fama che scaturì dopo la conclusione della prima Stanza procurò a Raffaello committenze da personaggi di primo piano della Curia romana. Tra i ritratti si ricordano quello di Alessandro Farnese, oggi conservato a Napoli (Capodimonte), quello di Tomaso Fedra Inghirami e il Ritratto di cardinale (Madrid, Museo del Prado), la cui identificazione è stata risolta proprio da Bussagli a favore del cardinale di Santa Pudenziana Matthäus Schiner, ritratto nel 1511.
Sotto il successivo pontefice Leone X de’ Medici (1513-1521), Raffaello si affermò ulteriormente, tanto da essere celebrato come il più grande artista vivente. L’enorme numero di commissioni e l’incarico di architetto della fabbrica di San Pietro, assunto nel 1514, oltre a quello di praefectus delle antichità – è in questo contesto che si colloca l’“epistola” di Raffaello e Baldassarre Castiglione indirizzata al pontefice nel 1519 per il progetto di recupero, conservazione e valorizzazione degli antichi monumenti dell’Urbe – lo obbligarono a circondarsi di una schiera di collaboratori e allievi capaci di affiancarlo nel lavoro.
Ma il celebre Ritratto di Leone X con due cardinali (Uffizi, Firenze) è tutto di mano di Raffaello. Il pontefice, figlio di Lorenzo il Magnifico, è stato raffigurato accanto ai cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, mentre con una lente in mano sta per ammirare una Bibbia miniata. Culmina in questi anni il confronto con l’antico, nella stufetta del cardinale Bibbiena in Vaticano e nelle logge di Leone X. Raffaello si rivela il primo pittore moderno in grado di ricreare ambienti all’antica con pitture, stucchi, sculture e marmi policromi. Appartengono a questo periodo capolavori non solo pittorici, ma anche di architettura, come la splendida Villa Madama, realizzata per il cardinale Giulio de’ Medici (futuro papa Clemente VII).
La biografia termina con la morte del pittore, avvenuta a Roma il 6 aprile 1520 “il giorno medesimo ch’e’ nacque che fu il Venerdì santo”, come scrive Vasari, il quale racconta anche che “Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel veder il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ogni uno che quivi guardava.”
Il dolore per la sua morte inaspettata, dopo diversi giorni di febbre (secondo Vasari in seguito a eccessi amorosi), fu tale da avvicinarlo alla stessa immagine di Cristo, contribuendo alla nascita del suo mito e a una sorta di santificazione. Pietro Bembo compose l’epitaffio, inciso sulla lapide in portasanta presso la sua tomba al Pantheon, che termina così: “Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci rerum magna parens et moriente mori” (Qui sta Raffaello in persona, per il quale la gran genitrice delle cose, la Natura, temette di essere vinta quando era vivo, e ora che egli è morto, teme di morire).
Dopo la biografia dell’artista, l’autore affronta alcuni argomenti, scelti tra i principali temi che hanno attraversato tutta la sua carriera, “intrecciandosi tanto con gli interessi culturali dell’epoca quanto con quelli della sua complessa personalità”. Ognuno di questi argomenti meriterebbe una monografia – sostiene Bussagli – ma per motivi di spazio sono state privilegiate le componenti connesse alla formazione culturale di Raffaello, piuttosto che i temi iconografici già inseriti nell’intreccio della vita dell’artista. Anche al tema del ritratto è stato dato minore risalto perché l’autore, in questo stesso 2020, ha avuto modo di pubblicare un fascicolo monografico dedicato all’argomento per la rivista “Art e Dossier”, cui rimanda per i dovuti approfondimenti.
Bussagli si è concentrato, pertanto, su una seria riflessione sull’antico che emerge prepotentemente in quell’epoca rinascimentale, di cui il pittore urbinate è uno dei principali esponenti. Un altro tema è quello della sezione aurea,
“che viene incontro alla necessità di sottolineare come l’arte del Sanzio si sia nutrita di quel pensiero che passava per Luca Pacioli e gli altri, divenendo la pietra angolare della nuova visione teoretica del Rinascimento, incentrata sul concetto di armonia”.
L’attenzione all’anatomia, a parte gli interessi di Bussagli, docente di Anatomia artistica
“è alla base del modo di procedere di Raffaello che vede la figura umana come esempio massimo di armonia e affronta l’immagine del corpo come il riflesso dell’anima e degli affetti”.
Strettamente correlato a questi temi è l’attività di architetto del grande urbinate, la quale discende esattamente dai presupposti già trattati. Infine viene approfondito il tema “La bottega di Raffaello: impresa e progetto”, dove è evidenziata la capacità d’impresa del Sanzio e la sua bottega, in quanto “riflesso e strumento della prima, nonché segno di una modernità visionaria che pare prefigurare la farm di Andy Warhol”.
Tutti questi argomenti di carattere storico-critico sono affrontati nella prima sezione del libro, mentre la seconda (diversa nella carta e nella grafica) è dedicata all’approfondimento delle opere della produzione raffaellesca ed è suddivisa in “Opere cosiddette minori”, “Le grandi opere”, ”I capolavori”. Come specifica l’autore, non si tratta di un catalogo generale, ma comprende i principali capolavori del maestro che vanno a integrare le opere che sono citate e, non di rado, analizzate nelle altre pagine del testo.
L’analisi di queste opere, da quelle meno note ai capolavori, tiene conto di tutti gli studi e delle novità emerse nei recenti restauri e nella grande mostra del 2020 alle Scuderie del Quirinale ed è densissima di informazioni e acute osservazioni che sfuggono ai nostri occhi, ma non certo a quelli attenti di Marco Bussagli.
La lettura di questa parte del libro mi ha fatto scoprire, in effetti, numerosi dettagli che senza le sue illuminanti spiegazioni mi sarebbero sfuggiti. Ne cito uno su tutti: la presenza della Torre delle Milizie nel paesaggio della Santa Cecilia della Pinacoteca di Bologna. La stessa torre che l’autore riconosce anche nello sfondo della Madonna Esterházy di Budapest. E pensare che io, che abito a Roma in via Panisperna, praticamente vedo quella torre tutti i giorni!
La dovizia di informazioni, lo studio dei documenti e delle fonti bibliografiche e gli acuti collegamenti e confronti denotano nello studioso una passione per la ricerca e una preparazione della quale non nutrivamo dubbi, date le sue precedenti pubblicazioni e la curatela di importanti mostre, che hanno lasciato il segno nella pubblicistica d’arte. In questo suo imponente lavoro ripercorre la formazione culturale e la produzione di uno dei più geniali artisti del Rinascimento con parole e immagini affascinanti, da cui viene fuori anche il “vissuto” storico di un passato, la cui lezione non viene così dimenticata: un’epoca in cui bisognava avere maestria e genialità per emergere, ma anche l’appoggio dei potenti. E in questo Raffaello ci seppe talmente fare da diventare “nella pittura un dio mortale”, e per noi un mito immortale.
Come scrive l’autore nella conclusione del volume
“Raffaello ha così tanto influito sulla visione artistica del suo tempo e di quelli a venire, da essere considerato il crinale di passaggio fra due modalità differenti d’intendere la pittura. Si crearono, in qualche modo, due fazioni: una ammirata e coinvolta dal magistero del Sanzio e l’altra preoccupata di cedere alle lusinghe della sua arte” .
Mentre la prima si basava sulla sua lezione, giungendo a copiare di sana pianta i suoi capolavori (come nel caso delle Logge dell’Ermitage a San Pietroburgo), la seconda, (quella dei Nazareni tedeschi e dei Preraffaelliti inglesi) considerava “la bellezza sontuosa” della sua pittura una sorta di “peccato originale” della bellezza, ma si lasciò comunque ammaliare dal Raffaello ancora peruginesco, ossia quello che mostrava uno stile vicino al Quattrocento italiano.
Come ci ricorda Bussagli, nessun secolo fu esente dalla “contaminazione felice” con l’arte di Raffaello che accese la creatività di giganti della pittura (Ingres) e della scultura (Canova, Thorvaldsen) e perfino di letterati. In particolare egli cita Dostoevskij, che nel romanzo I demoni fa dire a Stepán Trofimovic:
“Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello sono più in alto della chimica, quasi più in alto di tutta l’umanità. […] e sapete voi, sapete che l’umanità può vivere senza la scienza e senza il pane, soltanto senza la bellezza non può vivere, giacché non avrebbe nulla da fare al mondo!”.
Nica FIORI Roma 15 novembre 2020