di Nica FIORI
In occasione della grande mostra su Raffaello, che si è tenuta nelle Scuderie del Quirinale per celebrare il cinquecentenario della sua morte (6 aprile 1520), grande interesse ha suscitato la Lettera a Leone X sulla necessità di tutelare le opere antiche di Roma (datata al 1519-1520 e proveniente dall’Archivio di Stato di Mantova), che Baldassarre Castiglione avrebbe scritto insieme a Raffaello, ma che non fu mai completata, né tantomeno spedita, per la morte precoce dell’Urbinate.
Data l’importanza del documento, esposto accanto ai ritratti dei protagonisti, tutti di mano del Sanzio, insieme al biglietto della mostra è stato distribuito ai visitatori un libretto del noto archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis, dall’emblematico titolo “Modernità di Raffaello. Dalla Lettera a Leone X alla Costituzione italiana”. In effetti, il pensiero espresso in quello scritto sembra anticipare la moderna concezione di salvaguardia dei beni culturali, come quando lo scrivente si rivolge al pontefice con queste parole: “Non debe adonque, Padre Santissimo, esser tra gli ultimi pensieri di Vostra Santitate lo haver cura che quello poco che resta di questa anticha madre de la gloria e grandezza italiana …, non sia estirpato e guasto dalli maligni et ignoranti …”.
Fortemente colpito da quel testo meraviglioso, nel quale sentiva “vibrare una personalità artistica come quella di Raffaello”, Salvatore Settis è tornato sull’argomento, approfondendone lo studio insieme alla paleografa Giulia Ammannati nell’ampio e accuratissimo saggio “Raffaello tra gli sterpi. Le rovine di Roma e le origini della tutela”, edito da Skira (Milano, 2022).
Nella prima parte del libro, dovuta a Settis, l’autore risponde, per quanto possibile, alle domande What, Who, When, Where, Why, How, per passare poi a parlare di “Un artista bifronte”, “Le reliquie di Roma alla prova del disegno”, “La speranza di grandissime cose”, e quindi il “Prima” (Quanti pontifici hanno atteso a ruinare) e il “Dopo” la Lettera (i Commissari alle Antichità).
Viene subito precisato che la Lettera è giunta attraverso tre manoscritti e una stampa settecentesca, che si fonda su un manoscritto perduto: vi sono, pertanto, alcune varianti che sembrano portare a una forma finale, alla quale però non si arrivò mai. Due sono i manoscritti essenziali per la costituzione del testo: quello di Mantova, autografo del Castiglione, e quello di Monaco, che presenta rispetto all’altro una lunga aggiunta e numerose correzioni. Di entrambi la Ammannati fa la sinossi dei testi nella seconda parte del libro, fornendo una completa informazione filologica.
Chi ha scritto la lettera?
È questa indubbiamente la domanda che ha suscitato nel tempo più interrogativi. Se il linguaggio più protocollare e forbito è dovuto a Castiglione, le correzioni e le aggiunte nel manoscritto di Monaco non possono che essere di Raffaello, presumibilmente frutto di una rilettura alla presenza dell’Urbinate. In effetti sembra proprio lui l’io narrante che si rivolge al papa, perché era lui che esplorava le rovine dell’Urbe “con molta diligentia e faticha, perscruttando per molti lochi pieni de sterpi inculti e quasi inaxessibili”, come si legge in una bozza.
E qui il nostro pensiero corre a quella Roma sotterranea, comprendente le misteriose “grotte esquiline”, che altro non erano che i resti della Domus Aurea obliterati dalle successive Terme di Tito, dove alcuni artisti audacemente si calarono – come risulta dalle loro firme graffite o tracciate a nerofumo sulle pareti – e, affascinati dai motivi pittorici e dagli stucchi delle volte di età neroniana, trassero da essi ispirazione per le loro “grottesche”. Fu proprio Raffaello, in effetti, il vero iniziatore di quel genere decorativo, a partire dalla Stufetta del cardinale Bibbiena in Vaticano (1516).
Probabilmente è stato proprio Raffaello a rivolgersi all’amico letterato, il celebre autore de Il Cortegiano, per scrivere la Lettera con la dovuta eleganza stilistica, ma il tutto è stato redatto in volgare, mentre è lecito supporre che, se l’idea fosse stata di Castiglione, quest’ultimo si sarebbe espresso in latino. L’io parlante è, secondo le parole di Settis,
“un artista intento a ricercare, disegnare e misurare i resti delle antiche architetture immaginando come ricostruirne l’intero a partire dalle mutile reliquie che ne restano. Non si limita a condividere con tanta cultura del suo tempo il frequentissimo topos del lamento sulle rovine di Roma, ma fa molto di più: si dichiara egli stesso testimone impotente di nuove distruzioni, negli undici anni del suo soggiorno romano”.
Lo stesso Raffaello, in effetti, dopo essere stato nominato nel 1514 architetto di San Pietro, fu incaricato da Leone X di raccogliere quanti più marmi possibili per l’antica Roma, da riutilizzare nella nuova basilica. Probabilmente gli piangeva il cuore nel dover contribuire a distruggere proprio quei monumenti che egli avrebbe voluto restituire ai posteri nelle migliori condizioni.
L’intento dei due autori del saggio è quello di “ricostruire il gioco delle parti” tra Raffaello e Castiglione nel testo della missiva e allo stesso tempo
“offrire gli elementi per intendere quale possa essere stato il contributo della Lettera al costituirsi dell’idea di tutela del patrimonio storico e artistico nella tradizione culturale e giuridica dell’Italia, prima e dopo la sua unificazione”, come scrive Settis.
Viene proposta, pertanto, un’edizione critica dei due manoscritti, ma allo stesso tempo genetica, in quanto le varianti vi sono ordinate secondo la plausibile sequenza compositiva. Inoltre l’edizione è anche sinottica, perché il libro
“offre per la prima volta la possibilità di leggere l’una accanto all’altra, disposte su colonne parallele, le varie versioni del testo, dalle bozze iniziali alla forma che aveva alla morte di Raffaello”.
La Lettera a Leone X mira a convincere il destinatario mediante argomentazioni razionali ed emotive. La prima parte è quella propriamente persuasiva, mentre nella seconda parte lo si vuole affascinare attraverso le conoscenze tecniche, dalla strumentazione necessaria alla codificazione delle regole dell’architettura. Viene descritto minuziosamente il metodo del disegno architettonico, quello che oggi chiamiamo di proiezioni ortogonali, l’unico possibile – secondo lo scrivente – per un architetto, mentre la prospettiva è il metodo di rappresentazione grafica specifico dei pittori. Raffaello, che aveva certo letto il De architectura di Vitruvio nella traduzione in volgare fatta apposta per lui da Fabio Calvo, domina completamente le due modalità del disegno, perché sa praticarle entrambe. Quando parla delle proiezioni ortogonali, lo fa in riferimento al grandioso progetto di rilievo della Roma Antica, a partire dalla divisione della città nelle 14 regioni augustee, ognuna con i suoi nobili edifici: un’impresa colossale che fu forse appena iniziata da Raffaello. Questa sorta di catalogo completo dei rilievi delle architetture antiche rappresentava, presumibilmente, un primo passo verso la loro tutela.
La prima parte della Lettera è la più bella dal punto di vista letterario. Si esalta la magnificenza dei monumenti antichi e si denuncia l’incuria in cui versano: vi si lamentano le distruzioni dovute ai Goti, ai Vandali e ad altri perfidi nemici, ma anche a coloro che avrebbero dovuto salvaguardare le opere, ovvero i pontefici. Sotto diversi papi si scavavano le fondamenta degli edifici “per pigliar terra pozzolana” e si distruggevano le statue e altri marmi per farne calce.
Da quando è a Roma – lo scrivente specifica che ancora non è l’11° anno, corretto in “dodici anni” nella versione di Monaco – sono state “ruinate molte cose belle”, tra cui “la Meta che era nella via Alexandrina” (un monumento a forma di piramide), un arco, templi e colonne: un elenco che nel testo di Monaco viene aggiornato aggiungendo l’arco che era all’entrata delle Terme di Diocleziano, il Tempio di Cerere nella via Sacra, una parte del Foro Transitorio e altre cose, mentre viene cancellato il nome di “Bartolomeo de la Rovere”, citato come distruttore nel manoscritto di Mantova.
Ci si appella al papa regnante, di maggior valore e grandezza d’animo rispetto ai predecessori, perché tuteli le antichità. Per la prima volta è un architetto che si esprime con parole atte a convincere e non un semplice poeta o un letterato. Parlando dei principali edifici della città, dà anche giudizi sull’arte antica, che tende a peggiorare con gli ultimi imperatori, pur mantenendo una buona architettura:
“E questo conoscer si può da molte cose, e tra l’altre da l’Arco di Constantino, il componimento dil quale è bello e ben fatto in tutto quello che apartiene all’architectura, ma le sculpture dil medemo Arco sono sciocchissime, senza arte o bontate alchuna. Ma quelle che vi sono delle spoglie [di Traiano e di Antonino Pio] sono excellentissime e di perfetta manera”.
La storia ci dice che la Lettera fu interrotta dalla morte di Raffaello, ma quanto leggiamo ci basta per pensare che non si trattasse di una semplice missiva, ma di una prefazione dedicatoria a quella che doveva essere la sua grande opera illustrata sulle antichità di Roma.
La Lettera, quando venne pubblicata nel 1733 a nome di Castiglione, non fece scalpore, mentre quando nel 1799 venne attribuita a Raffaello in un dotto opuscolo di Daniele Francesconi, suscitò un enorme interesse, divenendo il testo fondativo dell’idea stessa di tutela dei monumenti. Un’idea che avrebbe avuto un grande sviluppo nella legislazione dei secoli successivi e che resta nelle norme della Repubblica italiana, concretandosi nell’articolo 9 della Costituzione.
Come spiega Giulia Ammannati, la paternità raffaellesca del testo di Monaco non è mai stata affermata con nettezza dal principale editore della Lettera, Francesco Paolo Di Teodoro, il quale a tutt’oggi tende a pensare che la revisione si debba non a Raffaello, ma piuttosto alla sua cerchia. Secondo il parere della paleografa, invece, il diretto intervento dell’Urbinate è documentabile in modo concreto, per via di una serie di elementi paleografici e filologici, che prima non erano emersi o non erano stati sufficientemente valorizzati. Quindi il testo è proprio riconducibile a Raffaello (è stata anche evidenziata una parola sicuramente autografa), mentre il Castiglione non vi mise mano, anche perché ormai lontano da Roma.
Nonostante l’apparente difficoltà del tema trattato e la rigorosa impostazione scientifica, la lettura del libro è scorrevole e fruibile anche per i non filologi: assolutamente consigliabile perché permette di immergersi in quella Roma rinascimentale che vide il genio di Raffaello e di scoprire un aspetto particolarmente emozionante del pittore e architetto: quel suo trasformarsi in archeologo che vuole riportare alla luce le reliquie del passato e che si rivolge al suo mecenate, senza vergogna, dicendo chiaramente quello che il pontefice, certo superiore ai suoi predecessori, deve o non deve fare.
Anche le immagini che accompagnano il testo fanno rivivere quel momento storico e le grandi personalità che sono implicate nella Lettera, dall’Autoritratto con amico conservato al Louvre, del 1518-20 ca., un olio su tela dove il pittore, sulla sinistra, appare nel pieno della maturità, all’eccelso Ritratto di Baldassarre Castiglione (1513 ca. o 1519, Museo del Louvre), al Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi (1518). In questo dipinto, conservato agli Uffizi di Firenze, il colto e raffinato pontefice (figlio di Lorenzo de’ Medici) è stato raffigurato al suo tavolo da lavoro, con una lente in mano e una preziosa Bibbia miniata.
Sulla copertina del libro è invece raffigurato un paesaggio con rovine e città, tratto dalla Madonna del diadema blu (1511, Museo del Louvre), che sembra prefigurare metaforicamente l’ultimo Raffaello alle prese con le sue indagini sulle antichità di Roma.
Nica FIORI Roma 24 Luglio 2022
Salvatore Settis e Giulia Ammannati
Raffaello tra gli sterpi. Le rovine di Roma e l’origine della tutela
Biblioteca d’Arte Skira Pagine 264 – Euro 28