di Isabella PASCUCCI (foto dell’autrice)
«La scultura è il commento migliore che un pittore può fare sulla pittura». Questa frase, da più parti attribuita a Pablo Picasso, ben si adatta, comunque, allo spirito metamorfico che, come nella pittura, caratterizza anche la produzione plastica del maestro spagnolo.
A ricostruire questo viaggio affascinante attraverso forme di esplodente energia e creazioni echeggianti le sperimentazioni cubiste è la mostra inauguratasi in questi giorni alla Galleria Borghese di Roma, Picasso. La scultura (fino al 3 febbraio 2019, www.galleriaborghese.beniculturali.it/it/mostre-ed-eventi/in-corso), e che si inserisce nel programma internazionale Picasso-Méditerranée, avviato da Laurent Le Bon, direttore del Musée National Picasso-Paris.
L’esposizione, che prosegue la serie di mostre dialoganti con l’emozionante collezione permanente del museo romano, annovera 56 sculture picassiane realizzate tra il 1905 ed il 1964, oltre a fotografie di atelier che ricostruiscono i contesti da cui, di volta in volta, il Piccolo Goya – come lo soprannominarono gli amici francesi in gioventù – trasse ispirazione per le sue creazioni tridimensionali.
L’esposizione ha il pregio di tentare un colloquio amichevole e rassicurante con gli abbaglianti marmi del Bernini e con i gioielli pittorici della Collezione Borghese, ma tradisce inevitabilmente il limite di un colloquio impari, in cui, come nella Sala del Sileno, la potenza della poetica caravaggesca domina completamente, schiacciando le inoffensive e flebili argomentazioni della Natura morta con bicchiere di ispirazione cubista che tenta un tête à tête con il trionfante cesto di frutta del Ragazzo con la canestra del Merisi. Un’intesa che la grande bellezza del genio lombardo sembra snobbare, con la piccola composizione picassiana rimpicciolita in un angolo.
Altrettanto fragile è l’accostamento compiuto nel superbo Salone degli Imperatori, in cui due grandi teche presentano una serie di sperimentazioni plastiche di piccolo formato dominate dal tema anatomico e risalenti agli anni ’30 con il risultato di solleticare la mera curiosità dei visitatori al cospetto della vera mano del genio spagnolo. Si può osservare, infatti, il calco in gesso della mano dell’artista – ancora con la fede russa al dito, sebbene il matrimonio con Ol’ga Chochlova fosse naufragato già da due anni – e la corrispondente scultura in bronzo, entrambi datati al 1937.
Decisamente più efficace la collocazione della Donna a braccia aperte del 1960 che con i suoi spigoli vivi e la ruvidezza della lamiera tagliente e della rete dipinta fronteggia spavalda la morbida carnalità del Ratto di Proserpina del Bernini, in un eloquente contrappunto di bianchi, di pieni e vuoti, di linee curve e linee rette.
Altrettanto pregevole è l’efficace sintonia che la Donna con bambino (1961) instaura con l’energia avvolgente dell’Apollo e Dafne dell’artista barocco: una solida lamiera che dona l’etereo origami d’un ritaglio di carta, un assemblaggio di vite e di emozioni infantili, di maternità primitiva e di immacolata sensualità, in una frantumata e riassemblata identità umana fatta di ruoli eterni e di ancestrali paure.
La mostra romana traccia un ritratto poliedrico del Picasso scultore, sperimentatore ingegnoso ma anche artigiano laborioso, come raccontano i bronzetti e i gessi delle Bagnanti.
Ma è la sequenza di Teste nel Salone Mariano Rossi, all’avvio dell’esposizione rappresenta il vero fulcro espressivo della mostra, il solo luogo della Galleria in cui l’alchimia di sguardi tra il Picasso giovane ammiratore di Bernini (nel 1917 fu a Roma con Jean Cocteau e Igor Stravinskij e rimase colpito dall’artista barocco della Borghese) e della scultura classica, e poi artista maturo, dilaniato dal dramma della guerra civile spagnola, intona il suo canto più sublime e lacerante, come il coro in una tragedia di Sofocle. La sequenza di opere, in gesso e bronzo, eseguite nel 1931 e che cadenzano la sfilata dei busti dei Dodici Cesari del Della Porta e di alcuni tra i più preziosi pezzi della statuaria classica, restituiscono uno spaccato dell’atelier normanno del castello di Boisgeloup, acquistato da Picasso nel 1930 e immortalato nelle fotografie-documento di Brassaï che per il primo numero della rivista “Minotaure” (1933) realizzò un servizio fotografico sui due studi in cui operava il genio spagnolo.
Ma non solo, perché le teste ritratto di Boisgeloup furono scelte da Picasso quale personale contributo al Padiglione della Spagna Repubblicana all‘Esposizione Universale di Parigi del 1937. Ed entrando nel salone della Galleria, i ritratti di Marie-Thérèse, la sposa bambina dell’artista, con le orbite esplodenti, il naso che si dilata in una proboscide antropomorfizzata, le guance che si tendono in una turgida ed innaturale rotondità sembrano le fotografie crude e disincantate di un’altra Guernica in scultura, dei volti gonfi e deturpati di corpi in decomposizione, lo spettro di una bellezza talmente umana da tradurre in icona anche il suo più drammatico declino. È in questo contrasto tra l’incorruttibile perfezione della classicità e la scelta di immortalare proprio la corruttibilità dell’umana apparenza che le sculture di Picasso riescono ad emozionare lo spettatore con un malinconico e travolgente hic et nunc che dall’arte imperiale conduce fino allo scempio della storia contemporanea.
di Isabella PASCUCCI Roma ottobre 2018