di Massimo FRANCUCCI
Caravaggio 2025, a cura di Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi, Thomas Clement Salomon
Roma, Palazzo Barberini, dal 7 marzo al 6 luglio
È quasi una quinta ‘porta santa’ quella che si è aperta a Palazzo Barberini lo scorso 7 marzo, – data che coincide col compleanno di Mina Gregori tra i più importanti esegeti della figura e dell’opera dell’artista– e che attende l’arrivo di migliaia di pellegrini devoti al pittore milanese. Nonostante le sue origini lombarde, o forse proprio per quelle, Caravaggio, giunto a Roma all’incirca 430 anni fa, avrebbe in questa città ispirato una svolta epocale al modo di intendere la pittura.
L’occasione della mostra merita senza dubbio almeno una visita, poiché vi sono esposte ben 24 opere riferite all’artista, pitture che nel complesso forniscono un compendio di tutte le fasi della sua pur breve esistenza, mettendo assieme poi pezzi di difficile fruizione, come quelli di collezione privata. L’esposizione non potrà che dare nuovo impulso alla ‘Caravaggio mania’ (qualcuno l’ha chiamata così) che in realtà non conosce soluzione di continuità da quando la mostra longhiana (1951), che giungeva al termine di un cinquantennio di studi anche pionieristici, non l’aveva stimolata.
Rimane per noi incredibile pensare che fino a pochi anni prima la reputazione di Michelangelo Merisi fosse ben diversa, pagando ancora lo scotto di inimicizie importanti e di una condotta di vita facilmente criticabile. Ma i pittori devono parlare con le mani, più che con la loro vita, e Caravaggio ha ancora molto da dire e da insegnarci, tanto da farci rimpiangere ancora una volta la precoce fine della sua vita sulle coste di Porto Ercole, una conclusione i cui presagi si palesavano già nel Martirio di Sant’Orsola di Napoli (Collezione Intesa Sanpaolo, Gallerie d’Italia), che ci appare quasi un testamento artistico di un pittore che, senza darsi mai per vinto, stava per soccombere al suo destino.

Certo che solo immaginare di allestire nel 2025 una mostra con così tanti capolavori ritenuti identitari dai luoghi in cui sono usualmente conservati è incredibile, ma i meriti dell’esposizione vanno ben al di là della difficoltà di ottenere prestiti, poiché gli accostamenti, l’allestimento, le scelte curatoriali, il prezioso catalogo, sono tutti elementi che guidano nel percorso anche il visitatore più attrezzato.
Entrati quindi nella mostra, saremo accolti dall’oscurità dalla quale emergono le opere, per trovarci alle spalle l’unico dipinto per il quale si è voluto mantenere un margine di incertezza riguardo l’attribuzione a Caravaggio: il Narciso delle Gallerie Nazionali di Arte Antica.

Negli ultimi anni, infatti, la proposta di identificarne l’autore nello Spadarino, formulata già da Cesare Brandi e ben argomentata da Gianni Papi, ha guadagnato molti consensi. Non sarei perentorio neanche nel sostenere la piena autografia del Mondafrutto delle collezioni reali inglesi, quadro che regge fino a un certo punto il confronto ravvicinato con il Bacchino malato che l’affianca: la minima distanza cronologica tra i due non giustifica gli evidenti squilibri qualitativi.


Appartengono agli anni parecchio intensi che seguono l’arrivo del pittore a Roma e che precedono l’apprezzamento del Cardinal Del Monte che porrà Caravaggio sotto la sua ala protettrice. Di questo secondo momento sono invece testimonianza le prime scene di genere della pittura italiana provenienti proprio dalla sua collezione: la Buona Ventura capitolina e i Bari di Fort Worth, sono qui divisi dai Musici del Metropolitan Museum di New York, forse il primo dipinto realizzato espressamente per quel porporato.

L’epifania caravaggesca è ormai compiuta, ma si arricchirà di nuovi tasselli, tra i quali va ricordata la possibilità per i visitatori della mostra di ammirare l’elegia alchemica del Casino Ludovisi, dipinta quando ancora vi abitava il cardinal Del Monte, per l’appunto.
Dalla mitologia e dalla scena di genere gradita a quel presule si passa poi, ed è un bel salto, alla schietta religiosità del San Francesco in estasi di Hartford, commissionato da Ottavio Costa, un quadro nel quale si potranno ammirare, quasi un unicum nella produzione del pittore, frate Leone e altre figurine minute, indaffarate al di sotto di un cielo che si direbbe veneteggiante.

Hartford, Wadsworth Atheneume
Se vi chiedete invece come sia un Caravaggio su tavola, basterà rivolgere lo sguardo alla Conversione di San Paolo Odescalchi, la prima versione del laterale della Cappella Cerasi, con la quale il pittore aveva accorciato le distanze entrando nella guardia di Annibale Carracci.

Facendo attenzione, grazie al supporto di cipresso, si distingueranno agevolmente quelle incisioni proprie del modus operandi del pittore ma che solitamente necessitano di indagini diagnostiche più accurate per essere rilevate. Segue un confronto ‘all’americana’ tra i due ritratti di Maffeo Barberini, ne esce vincitore a mio parere quello che era pubblicato da Longhi come il ‘vero’ Maffeo (1963), anche se entrambe le tele vantano una provenienza che rimanda alla famiglia di Urbano VIII, per il tramite delle raccolte Corsini.


È ora la volta di tre tele spettacolari, esemplari della fase ormai pienamente matura dell’artista e accomunate dalla presenza di una medesima modella, forse Fillide Melandroni. Si tratta di Marta e Maria Maddalena di Detroit, della Giuditta che decapita Oloferne di Palazzo Barberini e della stupefacente Santa Caterina d’Alessandria, approdata da qualche anno a Madrid, esposta al Museo Thyssen-Bornemisza. Il vero, perseguito tramite un utilizzo innovativo della luce e quell’ingagliardire gli scuri, che non a caso Bellori richiamava per la stessa Caterina, ci colpisce con tutta la sua forza dirompente, accomunando poi i loro committenti, oltre al cardinal Del Monte e a Ottavio Costa, è alla famiglia Aldobrandini che si deve con ogni probabilità il quadro di Detroit.

A breve la famiglia di Clemente VIII avrebbe dovuto lasciare il testimone a quella del nuovo papa, i Borghese. Per Caravaggio poteva essere una nuova ulteriore svolta, poiché Scipione ha perso la testa per la sua arte, ma a frapporsi tra il cardinal nepote e il pittore giungerà la morte di Ranuccio Tomassoni e la conseguente fuga da Roma. Prima che ciò accadesse, Caravaggio aveva avuto tempo di realizzare la Cattura di Cristo per Ciriaco Mattei, identificata ormai con la meravigliosa tela di Dublino.

Longhi, che non la conosceva, aveva però incluso nella sua mostra milanese la versione Sannini, di recente tornata alla ribalta con ambizioni di autografia.
I San Giovanni della Corsini e del Nelson-Atkins Museum di Kansas City, altra committenza di Ottavio Costa quest’ultimo, chiudono definitivamente il soggiorno romano e ci conducono ad ammirare la novità più attesa della mostra: l’Ecce Homo. Ricordo bene il clamore che ha accompagnato questo dipinto proposto in asta con una offerta base di 1500 euro. Ritirato da quella vendita, il quadro è infine approdato in una collezione privata restando a Madrid.

Dopo un attento restauro a Firenze, il dipinto si offre finalmente al confronto ravvicinato con numerose opere di sicura autografia. Il paragone più serrato è quello proposto con il Cristo flagellato di Capodimonte e con il Davide con la testa di Golia della Borghese, per il quale propendo ancora per una datazione tarda, al 1609. La cronologia dell’Ecce Homo trova discordi gli studi, in mostra si propone il 1607, ma si registrano pareri che oscillano tra la fine del soggiorno romano, il momento napoletano e l’attività più estrema del pittore. Al contrario, sull’autografia i massimi specialisti si sono trovati d’accordo, anche se un’aggiunta così importante necessita dei giusti tempi di sedimentazione prima di essere accolta definitivamente. Si vedrà. Sarebbe stato divertente invitare al ballo anche l’ormai scomodo Ecce Homo di Genova, che fatica a trovare una collocazione precisa nell’economia dell’attività di Caravaggio e che avrebbe potuto dar conferme in tal senso.
Non ha di questi problemi la Cena in Emmaus Patrizi, oggi a Brera, i cui brani di vero ricordano il ruolo giocato dal pittore nella nascita della natura morta, genere che considerava molto di più di quanto potesse ammettere Vincenzo Giustiniani le cui parole mal celano una certa sorpresa per il pensiero di Caravaggio.

Il San Francesco di Carpineto, poi, si fa preferire alle altre versioni fino ad ora note del soggetto che vede l’assisiate impegnato in una profonda meditazione sul mistero della morte, rappresentato dal teschio.


La stessa morte è entrata prepotentemente a far parte del mondo del pittore: quella di Tomassoni lo spingerà via da Roma, ed è in quella fuga che realizzerà il dipinto. La ricerca del perdono e di una redenzione lo porterà a Malta, ma ne sarà espulso come membro putrido e fetido dall’ordine cavalleresco cui appartiene il protagonista del Ritratto di Palazzo Pitti. Braccato, il pittore si ritrarrà subito alle spalle di Sant’Orsola morente in quella che potrebbe essere la sua ultima opera, del giugno 1610, nella quale il lume caravaggesco diviene bagliore fantasmagorico. Le uniche speranze restavano legate a Scipione Borghese: a lui erano probabilmente destinati i dipinti che viaggiavano col pittore sulla feluca che lo doveva ricondurre in terra pontificia e dai quali fu costretto a separarsi per via di un nuovo arresto. Forse inseguendo quel prezioso carico cui apparteneva il San Giovanni della Borghese, Caravaggio, fiaccato dalla febbre, troverà la morte il 18 luglio del 1610. Ciò nonostante, la modernità della sua opera continua a parlarci e a porci interrogativi sempre nuovi con la ricerca che, concentratasi nell’occasione focalizzando sul pittore, tornerà a breve ad allargare il campo al contesto.
Già in questa occasione, si potrà proseguire la infatuazione caravaggesca nelle chiese romane – San Luigi dei Francesi, Santa Maria del Popolo, Sant’Agostino – dove i capolavori del pittore continuano a dialogare con la città e con l’ambiente artistico che li ha visti nascere.
Massimo FRANCUCCI Roma, 9 Marzo 2025