di Lisa SCIORTINO
Il presente studio si inserisce perfettamente nel ventennale percorso, lungo la personale carriera di storica dell’arte, di “recupero” e scoperta di individualità artistiche, di opere d’arte, di collezioni e donazioni con lo scopo di rendere noto, pubblico e fruibile quel patrimonio culturale che molto spesso rischia di finire nel dimenticatoio e nell’oblio per inconsapevolezza, pigrizia o mancato interesse.
Tra le prime ricerche che hanno portato alla ribalta pittori “ignoti”, va citata quella confluita nella pubblicazione su Francesco Gagliardo[1], pittore bagherese allievo di Onofrio Tomaselli prematuramente strappato all’arte dalla pandemia di influenza d’inizio Novecento, impropriamente denominata “spagnola” (fig. 1).
Nel tempo, i numerosi rinvenimenti in collezioni private di opere pittoriche, disegni, fotografie, lettere e documenti inediti, hanno dato vita a ben due pubblicazioni dedicate a Emilio Murdolo[2], primo maestro di Renato Guttuso, la cui arte pittorica è stata divulgata con un lavoro talmente ben fatto e preciso nel suo intento che proprio un dipinto di Murdolo, Villa Valguarnera (fig. 2), è stato scelto di recente dalle cantine Duca di Salaparuta quale immagine per etichettate un nuovo vino realizzato in occasione dei duecento anni dell’azienda.
La prestigiosa villa di Bagheria, infatti, fu luogo in cui Giuseppe Alliata, Duca di Salaparuta, compì il primo atto di vinificazione. Un dipinto passato dall’ignoto all’esportazione nazionale e internazionale!
E poi, a chi scrive si deve la rimozione dai silenziosi e polverosi depositi del palazzo arcivescovile di Monreale di decine di opere in porcellana bianca e biscuits, tutte parte di un’unica collezione, quella Salvatore Renda Pitti, che conta statuine dal XVIII al XX secolo realizzate dalle maggiori fabbriche e centri di produzione europea, da Capodimonte alla Real Fabbrica Ferdinandea di Napoli, da Doccia alla Manifattura Giustiniani, da Sèvres a Meissen. Dopo la pubblicazione dello studio scientifico sui pregiati manufatti [3] (fig. 3) e a seguito del riconoscimento del loro reale valore artistico, questi sono stati trasferiti ai saloni vescovili, finalmente fruiti da centinaia di ospiti.
In ambito di collezionismo privato, chi scrive ha condotto l’imponente donazione alla pinacoteca comunale di Bagheria della collezione privata Daneu Tschinke[4], oltre un centinaio di elementi del carretto siciliano che hanno trovato idonea collocazione in una città culla della produzione dell’iconico mezzo isolano (fig. 4).
Il volume che racconta la storia del collezionista Domenico Galioto, di cui si conosceva solamente qualche informazione orale, e cataloga tutti i carretti, le sponde, le chiavi e le bardature custodite dagli eredi, mostra invece al pubblico un campionario fantastico di immagini, firmate da celebri botteghe siciliane, che spazia dalle gesta dei Paladini di Francia a Garibaldi, dai Normanni a Napoleone, passando attraverso le opere letterarie e i dipinti più celebri.
Domenico Galioto fu un profondo appassionato del carretto siciliano di qualsiasi tipo, uso, colore e decorazione, un vero eclettico in grado di offrire un contributo rilevante e significativo alla storia del mezzo iconico isolano. La recente pubblicazione presenta tutta la collezione Galioto scientificamente ordinata, al fine di rendere manifesto e godibile il patrimonio meticolosamente custodito nel tempo in una sorta di grande Wunderkammern dedicata al carretto siciliano. La conoscenza e la diffusione dei manufatti raccolti, già pensata da Domenico e pienamente condivisa dai figli, è dimostrazione della spiccata sensibilità filantropica che lo portava a considerare la propria collezione come bene comune e fonte di formazione e crescita culturale[5] (fig. 5).
E poi ancora, lo studio di inediti dipinti su vetro [6], di ardesie votive [7], e di tanto altro fino a giungere alla recentissima proposta di donazione al Museo Guttuso di quattro tele realizzate dall’italoamericano Tom Di Salvo, un artista figlio di Bagheria che meriterebbe maggiore attenzione e una migliore collocazione nel panorama pittorico nazionale e internazionale[8].
Tutti questi recuperi sono realizzabili principalmente grazie alla disponibilità e alla generosità dei collezionisti che, aprendo le porte di casa, spesso scrigno prezioso di opere d’arte, amano far conoscere un patrimonio che altrimenti rimarrebbe “di seconda categoria” e che invece merita di essere reso, se non fruibile, quantomeno noto.
È proprio in quest’ottica che si innesta la presente pubblicazione che consente di trattare del maestro Renato Guttuso, artista figlio di Bagheria che ebbe il primo approccio alla pittura grazie alla frequentazione della bottega del già citato Emilio Murdolo [9] e del celebre pittore di carretti Michele Ducato. Questi laboratori furono per Guttuso luoghi di rilevante importanza soprattutto perché gli fornirono uno straordinario repertorio di immagini e cromie che egli farà proprie e rielaborerà nel tempo.
Il questo saggio, Renato Guttuso viene studiato nella insolita veste di scenografo e costumista.
La Ballerina (fig. 6), rintracciata da chi scrive in collezione privata e qui pubblicata per la prima volta, mostra una danzatrice intenta ad eseguite una piroetta su un campo visivo neutro.
L’immagine a matita e china su cartoncino, firmata in basso a destra dal maestro bagherese, fu realizzata per la rappresentazione di Mavra, un’opera buffa in un solo atto composta da Igor’ Fëdorovič Stravinskij fra il 1921 e il 1922, tratta dalla novella in versi La casetta di Kolomna di Aleksandr Sergeevič Puškin.
Vicino alla firma si legge Figurino per “Mavra”. Il bozzetto della ballerina in esame è affine per posa, colori, costume e tecnica esecutiva a quello pure realizzato da Guttuso per Le chout, custodito al Museo del Novecento di Firenze (fig. 7). Un altro bozzetto creato per Mavra Stravinskij, come si legge sul disegno stesso, è quello che raffigura la Serva del racconto[10].
Il 1940 aveva segnato l’esordio di Guttuso nella scenografia. Scrive in proposito Fabio Carapezza Guttuso:
“L’attenta osservazione dei quadri di Renato Guttuso, soprattutto quelli di grande dimensione, (…) non lascia dubbi sull’innata vocazione dell’artista a rappresentare ‘il grande teatro del mondo’, a testimoniare con la sua pittura le passioni, i conflitti, i miti degli uomini. Il teatro, quindi, come luogo dove la condizione umana viene indagata e si compongono come in un mosaico le tessere delle passioni individuali, non poteva attrarre un artista che affermava ‘un’opera d’arte è sempre la somma dei piaceri e dei dolori dell’uomo che l’ha creata’ (…)”[11].
Guttuso lavorò a circa quaranta rappresentazioni sceniche, tra teatro musicale e di prosa, a dimostrazione del suo profondo interesse per la raffigurazione teatrale, della quale aveva un’idea forte e vigorosa, affiancando grandi registi, da Visconti a Rossellini. Curò personalmente i dettagli intervenendo di proprio pugno su fondali e siparietti, assecondando balletti e cori nel massimo rispetto dello spettacolo ma lasciando sempre visibile e riconoscibile la propria pittura [12].
Al teatro delle Arti di Roma curò i costumi per Histoire du Soldat, invitato dal coreografo ungherese Aurel Milloss. I due daranno vita ad un sodalizio artistico che segnerà un momento importante del teatro musicale italiano. Con lui lavorò, per esempio, anche a Jeu de Cartes [13], il balletto di Stravinskij andato in scena nel 1948 a Firenze e nel 1950 realizzarono La storia del buffone di Sergej Prokofiev, scritta negli anni 1915-1920 e realizzata per i Balletts Russes di Sergej Diaghilev [14]. Il racconto di Le chout (Il buffone, appunto) è tratto da quelli popolari russi di Afanas’ev e, dopo le prime rappresentazioni, venne praticamente dimenticato. Fu però ripreso nel 1932 dal coreografo Boris Romanov al Teatro dell’Opera di Montecarlo e Milloss lo ripropose nel 1950 al Teatro Cumunale di Firenze, con la direzione orchestrale di Ettore Gracis e le scene e i costumi proprio di Renato Guttuso [15].
Tra il 1946 e il 1966 il maestro bagherese realizzò scene e costumi per ben quindici opere, dalle tragedie (Lady Macbeth di Minsk[16] del compositore russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič) alle zarzuele (Clementina [17] di Luigi Boccherini) al balletto [18]. La sua attività in ambito teatrale è legata anche alla Carmen di Bizet andata in scena nel 1970 all’Opera di Roma, dove fece scandalo la gonna corta e le calze a righe indossate dalla soprano Grace Bumbry, nonché la collaborazione con Eduardo
De Filippo (fig. 8) per scene e costumi de Il Contratto[19] (fig. 9). Qui Renato Guttuso armeggiò grosse lastre di poliestere che ridusse a forme di bottiglie, bicchieri, grappoli d’uva, pere, cocomeri, ananas, fiori e quanto altro sarebbe occorso per montare la natura morta che spiccava nel corso del grande banchetto nuziale che concludeva il terzo atto della commedia.
L’artista ripetè per la seconda volta quel massacrante lavoro, avendo, alcuni mesi prima, modellato e dipinto gli stessi numerosi elementi. Dopo la prima a Venezia, infatti, molti degli oggetti che componevano la natura morta erano “scomparsi”: amatori improvvisati se ne erano impossessati, felici di poter avere in casa un autentico Guttuso. Per cui, in occasione della prima napoletana, che stava particolarmente a cuore sia a De Filippo che a Guttuso, non era neppure immaginabile che la scenografia non risultasse perfetta. Il faticoso lavoro, però, lo interessava e lo divertiva anche giacché gli offriva l’opportunità di sperimentare una materia nuova dalle infinite e sorprendenti possibilità espressive (fig. 1o).
Quello dello scenografo è un lavoro che punteggia tutta la sua carriera di pittore a intervalli sempre più brevi. In genere, un pittore che disegna bozzetti interviene in modo circoscritto sulla scena traducendo figurativamente le indicazioni che l’autore dell’opera suggerisce. Il contributo dell’artista resta solitamente contenuto nell’ambito di una collaborazione tecnica, essendo tra l’altro condizionato, oltre che dalle esigenze recitative, anche dalle richieste del regista. Le scenografie di Guttuso sono invece sempre e inequivocabilmente guttusiane cioè riflettono il mondo poetico dell’artista, le sue idee, il suo stile, la sua arte, le sue cromie, la carica passionale e satirica e la straordinaria evidenza plastica.
Guttuso affermava che la scena si deve vedere. Una scenografia che non si fa notare è una brutta scenografia.
Lisa SCIORTINO Bagheria, 12 Gennaio 2025
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