di Nica FIORI
“Allora infine vado alle navi, per dove il Tevere, / che si apre in fronte bicorne, solca i campi a destra. / Il braccio di sinistra, inaccessibile per troppa sabbia, viene evitato; / accolse Enea, gli resta questa sola gloria. … Salpiamo all’alba, in una luce ancora irrisolta, / quando il colore, da poco tornato sui campi, li lascia scorgere. / Tenendoci stretti alla costa avanziamo con piccole barche / cui spesso la terra a rifugio apra insenature.”
Così il poeta latino tardoantico Rutilio Namaziano nel suo poemetto “Il ritorno” (libro I, 179-182; 217-220, trad. Alessandro Fo) descrive la partenza da Roma, in seguito all’invasione dei Visigoti del 410, per ritornare nella sua terra di origine, la Gallia Narbonese. Il suo è un triste addio a una città che per secoli aveva dominato il mondo e il suo diario di viaggio inizia da Portus, i cui resti, ancora in parte visibili, si trovano nel Comune di Fiumicino. Con questo nome veniva chiamato il grande porto di Roma di età imperiale che affiancò e poi soppiantò il primitivo approdo di Ostia alla foce del Tevere, e che continuò a essere attivo anche in età medievale.
Fu l’imperatore Claudio a iniziare nel 42 d.C la costruzione di questo porto artificiale, a circa 3 km a nord di Ostia, facendo scavare un grande bacino, inaugurato da Nerone nel 64 d.C., più interno rispetto alla foce del Tevere. Mezzo secolo più tardi, poiché vi erano continui insabbiamenti dovuti ai detriti fluviali, Traiano aggiunse nell’entroterra un altro bacino, comunicante con il primo, dall’inconsueta forma esagonale. Per rendere più facile la presa di acqua venne scavato un canale, detto fossa Traiana (ora canale di Fiumicino), che delimitava con il Tevere e il mare un’ampia area di terreno, chiamata poi Isola Sacra.
Un’eccezionale testimonianza delle attività che si svolgevano a Portus la troviamo nel Museo delle Navi di Fiumicino, che è stato riaperto al pubblico il 12 ottobre 2021, dopo una chiusura di quasi 20 anni.
L’inaugurazione è avvenuta alla presenza, tra gli altri, del ministro della Cultura Dario Franceschini e di Alessandro D’Alessio, direttore del Parco Archeologico di Ostia antica, da cui dipende il museo, come del resto l’area di Portus e la necropoli di Isola Sacra, che ospitava le tombe degli abitanti della città portuale.
Il museo è stato realizzato tra il 1965 e il 1979 allo scopo di custodire i resti insabbiati di alcune navi, trovati sul posto nel corso dei lavori per la costruzione dell’aeroporto “Leonardo da Vinci”. I relitti principali esposti sono quelli di tre imbarcazioni da carico per il trasporto sul Tevere (navi caudicarie), ribattezzate Fiumicino 1, Fiumicino 2 e Fiumicino 3, di un piccolo veliero destinato al commercio lungo la costa (Fiumicino 4) e di una barca di pescatori (Fiumicino 5), ma vi sono anche resti relativi ad altre navi.
In effetti nel secolo scorso sono stati scoperti a partire dal 1958 i resti di ben otto imbarcazioni, una delle quali non venne scavata a causa del pessimo stato di conservazione.
I relitti giacevano a ridosso del molo settentrionale del porto di Claudio, un’area marginale del bacino in cui venne a crearsi un vero e proprio “cimitero” nel quale le imbarcazioni troppo vecchie o malridotte per prestare ancora servizio venivano di fatto abbandonate. Le condizioni ambientali del sito avevano permesso la conservazione delle strutture del fondo (chiglia e carena), sigillate dai depositi di limo e sabbia determinati dal processo di interramento dell’intero bacino portuale.
Nel lavoro di scavo e recupero purtroppo qualcosa si è persa per la difficoltà della conservazione del legno, che mal sopporta i cambiamenti di temperatura o di altre condizioni ambientali. Il recupero fu coordinato dall’ingegnere del Genio Civile Otello Testaguzza, che aveva collaborato allo scavo diretto dall’archeologa Valnea Santa Maria Scrinari, poi Soprintendente di Ostia antica, e lo stesso Testaguzza progettò e fece costruire, nell’area del ritrovamento, un hangar dove i relitti vennero trasportati e sottoposti alle prime operazioni di consolidamento.
L’hangar venne in seguito trasformato in museo e aperto al pubblico nel 1979. Con l’evoluzione delle normative si rivelarono però i limiti del progetto strutturale e il museo venne chiuso nel 2002. Ebbe così inizio una lunga serie di interventi sull’edificio, fino a quando un finanziamento in capo ai Grandi Progetti Strategici del MiC ha permesso di renderlo conforme ai nuovi criteri. Decine di professionisti e di operai sono stati impegnati nel rifacimento delle dotazioni impiantistiche, nel rinnovamento degli esterni, nell’abbattimento delle barriere architettoniche, nel nuovo allestimento espositivo.
La disposizione dei pezzi in un unico ambiente, che ricorda quello di un cantiere navale, è volutamente sobria e rigorosa, proprio per valorizzare al massimo gli antichi legni. I corredi di accompagnamento sono collocati entro vetrine, che espongono anche reperti provenienti da Ostia e da Isola Sacra, per poter meglio dare un’idea di quella che doveva essere la navigazione in età imperiale, quando Roma col suo milione di abitanti accentrava buona parte dei commerci. Ancore, scandagli, chiodi, conche per colare il piombo ci fanno capire che l’attrezzatura usata all’epoca non era poi tanto dissimile da quella tuttora in uso per le piccole imbarcazioni.
Le navi mercantili, dette onerarie, viaggiavano esclusivamente a vela, nel periodo che va da marzo a ottobre. Tutte le merci che trasportavano erano contenute per lo più entro anfore di terracotta sigillate, che potevano avere varie forme a seconda del contenuto, sistemate accuratamente nella stiva su più piani con le punte infilate nella zavorra e con gli interstizi riempiti di materiale non deteriorabile. Il controllo romano sul Mediterraneo portò a una sorta di globalizzazione commerciale: il grano arrivava soprattutto dall’Egitto, l’olio dalla Spagna, il vino da Creta, il garum (salsa liquida di pesce) dal Portogallo, le spezie dai paesi orientali attraverso l’Oceano Indiano e il Mar Rosso.
Marmi, metalli, legni arrivavano da ogni parte dell’impero. In una vetrina sono esposti diversi tipi di marmi colorati (tra cui il porfido rosso, il serpentino, l’africano, il pavonazzetto, il giallo antico, il cipollino mandorlato verde), due tipi di alabastro, resti di vetro e tre statuine in terracotta di saccari (trasportatori) del I-II secolo d.C. ritrovate a Ostia, oltre a un’iscrizione funeraria che attesta l’attività del defunto, che era quella di curator navium di Cartagine.
Un’altra grande iscrizione esposta è relativa ai saborrari, una corporazione di lavoratori che si occupavano del carico e della movimentazione della zavorra.
In effetti c’era tutto un mondo di lavoratori, e non solo battellieri, che gravitavano nel porto. La presenza di tre navi caudicarie, imbarcazioni fluvio-marittime destinate al trasporto lungo il Tevere, ha permesso uno studio approfondito di questa tipologia di battelli, rivelandone il sistema di costruzione.
La fotografia di un affresco dalla necropoli laurentina di Ostia (II-III secolo d.C., conservato nei Musei Vaticani), raffigurante le operazioni di carico del grano sulla nave caudicaria Isis Geminiana, offre un’immagine abbastanza fedele del loro aspetto.
La poppa era alta e ricurva, la prua slanciata. Il cavo per il traino della nave dalla riva (alaggio) passava attraverso una carrucola in cima all’albero. L’albero poteva anche essere armato di una vela trapezoidale, che permetteva una navigazione di prossimità, nel porto e lungo la costa tra Ostia e Portus. Le tre caudicarie di Fiumicino potevano trasportare rispettivamente circa 70, 50 e 30 tonnellate di carico.
Per permettere l’alaggio delle caudicarie lungo il Tevere, una via alzaia correva sulle sponde. L’alaggio era effettuato inizialmente a forza di braccia da uomini chiamati helciarii, che furono gradualmente soppiantati da animali da tiro.
Anche la cosiddetta “barca del pescatore”, una navis vivaria, è un reperto eccezionale nel suo genere. L’acquario centrale per mantenere vivo il pescato era dotato di fori sul fondo per il ricambio dell’acqua, chiusi con tappi di pino.
La pesca, cui viene dedicata una vetrina, era decisamente importante per il nutrimento dei romani, ma in epoca imperiale la fauna acquatica era un alimento costoso e quindi riservato alle classi più agiate. Il pescato fresco era insufficiente a coprire la richiesta di mercato ed è per questo motivo che si diffusero gli allevamenti in particolari vivai (piscinae) di alcuni pesci, a partire dall’orata che deve il nome all’imprenditore romano Gaius Sergius Orata, vissuto nel I secolo a.C.
La passione dei romani per i pesci è documentata nel museo da un raro mosaico colorato proveniente dalla necropoli di Isola sacra, dove è stato ritrovato fuori contesto originario nel corso degli scavi del sepolcreto tra il 1928 e il 1932; doveva essere funzionale a un uso funerario pertinente alla decorazione: si tratta di un emblema raffigurante una natura morta con pesci (si riconoscono una murena, un gambero e una triglia), con tesserine di colore rosa, verde chiaro, ocra ed azzurro tenue, che si ispira probabilmente, come alcuni mosaici pompeiani dello stesso tema, a qualche prototipo alessandrino.
Altri reperti della collezione museale sono tre raffigurazioni a rilievo relative al porto, tutte caratterizzate dalla presenza del faro al centro: quel faro a più piani che sorgeva probabilmente su un’isoletta artificiale (creata sulla nave che durante il principato di Caligola aveva trasportato dall’Egitto a Roma l’obelisco che ora è in piazza San Pietro) e divideva l’accesso al porto in due bocche, la settentrionale e la meridionale.
La raffigurazione più spettacolare è in realtà un calco del famoso Rilievo del Portus Augusti et Traiani (ca. 200 d.C.), appartenente ai Torlonia (attualmente esposto nella mostra dei Marmi Torlonia), che avevano scavato a Portus.
La scena principale raffigura l’attracco di una nave oneraria nel porto, con alle spalle il faro a più piani e un arco, visto lateralmente, sormontato da una quadriga di elefanti. Questo marmo è stato interpretato come un ex voto dedicato al dio del vino Liber (Bacco), che appare sulla destra, mentre in posizione più centrale vi è Nettuno con il suo tridente. Tra i molteplici dettagli ci colpisce la presenza di un grande occhio apotropaico, di cui evidentemente si sentiva l’esigenza per scongiurare i pericoli legati alla navigazione, come pure la duplice raffigurazione della lupa capitolina sulla vela della nave oneraria, che allude alla città di Roma. Nei personaggi raffigurati a sinistra nell’atto di sacrificare sono stati riconosciuti l’imperatore Settimio Severo e la moglie Giulia Domna. Una presenza che data il manufatto all’epoca severiana, che è proprio quella in cui la scultura romana dà il meglio sé con uno stile che viene paragonato al barocco.
Abbastanza curiosa appare la presenza in questo rilievo degli elefanti sull’arco, che potrebbe essere spiegata con gli intensi rapporti commerciali con il Nord Africa, ma nessuna fonte storica ci parla di questa quadriga, anche se l’iscrizione di un maggiorente locale parla di una quadriga del foro vinario, senza però specificare da quali animali fosse composta, e questo spiegherebbe anche la dedica al dio del vino.
Certo il commercio del vino doveva avere grande importanza (subito dopo quelli del grano e dell’olio), come ci ricorda un altro rilievo (fronte di un sarcofago del III secolo, rinvenuto nella necropoli dell’Isola Sacra), che raffigura anch’esso il porto.
Al centro è raffigurato il faro a quattro piani, sulla sinistra una nave in arrivo, con una barchetta che le si avvicina e sulla destra una scena di taverna con tante anfore di vino collocate su tre livelli, e una donna che sta servendo il vino a due avventori seduti a un tavolo.
Un altro rilievo ancora raffigura una nave che sta arrivando nel porto, simboleggiato dal faro, raffigurato questa volta a tre piani, invece dei soliti quattro. Sulla destra è raffigurata una divinità maschile, forse una personificazione di Ostia e Portus.
Poiché questa figura è ritratta con un toro, un timone e un copricapo a forma di loto, potrebbe anche riferirsi ad Alessandria, la più importante città dell’Egitto, e al suo dio Serapide, nato dal sincretismo del toro Api con Osiride. Anche in questo caso, come nel rilievo Torlonia, la nave è resa con attenzione ai dettagli, quali il timone a remo, la testa di cigno sulla poppa, le vele e il sartiame, mentre nel mare, proprio davanti alla nave, si vede un delfino.
La novità del nuovo allestimento museale consiste nel fatto che ora la visita si svolge su due livelli, al piano terra e sulla passerella che corre lungo le pareti e tra le due grandi navi fluviali al centro della sala, permettendo la vista dei relitti a diverse altezze, fino alla visione complessiva dall’alto delle imbarcazioni.
Inoltre è stata allestita una saletta multimediale, dove è proiettato un filmato con il racconto della vita portuale tra mare e fiume, e dove il visitatore potrà approfondire, attraverso l’utilizzo di due touch screen, la navigazione nel mondo antico, le attività portuali, la vita di bordo, il commercio marittimo.
Il percorso di visita, accessibile in ogni sua parte, consente a tutti di godere dell’esposizione senza incorrere in barriere architettoniche.
L’altra novità è data dal fatto che i lavori di restauro sui relitti lignei, che a distanza di 60 anni dal loro ritrovamento hanno uno stato conservativo fortemente alterato, vengono effettuati direttamente sul posto senza smontare le navi dai supporti, grazie alla messa in opera di una sorta di teca trasparente, all’interno della quale gli interventi di restauro possono essere direttamente osservati dal pubblico.
Nica FIORI Roma 7 novembre 2021
Museo delle navi di Fiumicino, via Alessandro Guidoni – Fiumicino
Ingresso libero, da martedì a domenica, dalle ore 10.00 alle 16.00 (ultimo ingresso alle 15.30).
Il Museo si può raggiungere con una linea autobus del Comune di Fiumicino e un servizio di navetta ogni mezzora dall’aeroporto, grazie a un accordo con Aeroporti di Roma.