di Francesca SARACENO
CARAVAGGIO E LA “NATURA” DEGLI ANGELI.
“Richiesto Michelangiolo da Caravaggio, che facesse un gruppo d’angioli nel largo campo, che resta in alto, in quel famoso quadro, in cui si piangono, e s’ammirano i funerali di S. Lucia in Siracusa, egli non volle dipingerli, dicendo: Non havendone mai veduti, non so ritrarli.” (Ippolito Falcone, 1675)
Se non fosse che di angeli Caravaggio – invece – ne dipinse diversi, questo aneddoto di padre Ippolito Falcone non sarebbe da ritenere del tutto inverosimile. Peraltro, queste poche righe, vanno assolutamente contestualizzate nel discorso a più ampio respiro, che il religioso siracusano esponeva. Infatti, prima dell’aneddoto sul Merisi, Falcone scriveva:
“Or sapendo tanto fare il Pittore, ad ogni modo cede al Creatore: perché, se Dio creò il Tempo, egli no’l sa dipingere. E come potete voi ritrarre il Tempo, se non sapete, che cosa si è?”
E poi continuava la sua riflessione con Sant’Agostino, che si meravigliava di come fosse possibile misurare il tempo in passato, presente e futuro, nonostante non si sapesse bene cosa fosse (“Itane, Deus meus, metior et quid metiar nescio”) [1], stabilendo arbitrariamente – a tal proposito – una scansione modulare delle ore, alla quale tutti, successivamente, si sono rifatti. Prosegue Falcone:
“Dunque” “ogni cosa si ridurrà al passato, che più non è”. E ancora: “Voi presenti, v’agguaglierete ai preteriti, ed i futuri a’ preteriti e a’ presenti.” [2]
Il tutto per dire che in fondo, ciò che non è possibile conoscere nella sua realtà oggettiva, non si può riprodurre se non sulla scorta della forma e della sostanza che, in passato, si è disposto di imporre alle cose.
Pertanto, se mai un’affermazione come quella riportata da Falcone fosse stata realmente profferita dal Caravaggio, possiamo immaginare che egli si riferisse agli angeli “veri”, quelli che nessuno ha mai visto. Perché in verità è così: chi sa davvero com’è fatto un angelo? Chi lo ha mai visto nella sua manifestazione ultraterrena? Noi certamente no, e nemmeno il maestro doveva averne mai veduto uno.
E dunque: avrebbe potuto il più valoroso alfiere del realismo seicentesco dipingere qualcosa di cui non conosceva la “natura”? Conosceva l’evento morte e lo dipinse più volte; non conosceva l’evento resurrezione e non lo dipinse: né nella drammatica Morte della Vergine, dove l’unico rimando a una possibile “assunzione al Cielo” è dato dal celeberrimo drappo rosso che apre, concettualmente, a un supponibile orizzonte “verticale”; né nella perduta pala della cappella Fenaroli in Sant’Anna dei Lombardi a Napoli dove, secondo la testimonianza di Nicolas Cochin, riprodusse forse il momento successivo all’evento trascendente.[3] Né forse, a ben vedere, nella Resurrezione di Lazzaro, dove il corpo chiamato da Cristo alla rinascita rimane irrigidito, con solo la mano destra che tenta di sfuggire alla morte mentre l’altra sembra voler rimanere ancorata tomba.
Ma come comportarsi con gli angeli?
Secondo il suo ideale artistico, Caravaggio non poteva “inventarsi” le fattezze di un angelo, entità sovrannaturale indicata come “puro spirito”, perché ciò che avrebbe dipinto non sarebbe stato “verità”. Non era pensabile, per il maestro lombardo, dare forma a qualcosa che non aveva consistenza. L’artista dovette, anche in questo caso, confrontarsi con le esigenze iconografiche didattiche della Chiesa, nell’unico modo in cui gli fu possibile farlo senza capitolare a se stesso: ovvero, rifacendosi alle raffigurazioni ormai “codificate” di quella entità sovrannaturale, e pertanto, non esperibile.
La figura dell’angelo, nella storia delle religioni, è sempre stata utilizzata per ridurre la distanza – spesso percepita come incolmabile – tra l’uomo e la divinità. E dunque conferirle un’immagine umanamente comprensibile si è rivelato, a un certo punto, quanto mai necessario. Ma pervenire a una raffigurazione concreta della creatura angelica è stato un percorso piuttosto travagliato.
In realtà esseri riconducibili all’idea di angelo, sono menzionati già nella cultura greca classica con il nome di “Anghelos”, ovvero “colui che annuncia”; si trattava di entità aventi funzione di ambasciatore delle divinità pagane presso gli uomini, e pur non essendo esse investite di alcuna sacralità, “sacra” era considerata comunque la loro missione, ovvero la possibilità degli uomini di poter comunicare con le divinità. Nella Bibbia l’angelo acquista una maggiore valenza religiosa in quanto più direttamente legato a Dio, ma anche una più incisiva presenza nella realtà umana; esso è indicato dalla parola ebraica mal’akh (מלאך), che significa anche in questo caso “messaggero”. Tuttavia in nessuno di questi ambiti, greco o ebraico, tali creature vengono descritte con le caratteristiche “angeliche” che tutti conosciamo: infatti non possiedono ali, pur potendosi muovere e addirittura volare.
Queste entità celesti sembrano possedere i connotati di persone reali, come spesso si evince da molti passi biblici, in cui è evidente che abbiano sembianze talmente simili a quelle umane, che gli uomini a cui si rivolgono stentano a riconoscerli come entità ultraterrene. Emblematico è l’episodio di Giosuè presso Gerico quando, alzando gli occhi, “vide un uomo in piedi davanti a sé che aveva in mano una spada sguainata” ma non si accorse che era un angelo del Signore (Giosuè 5, 13-14). Lo stesso dicasi per Manoach, la cui moglie sterile ricevette l’annuncio di una gravidanza (da cui nacque poi Sansone) da parte di un “Un uomo di Dio”, che venne riconosciuto come angelo solo quando, approntata l’ara per il sacrificio di un capretto, “salì con la fiamma dell’altare” (Giudici 13, 2-21).
Peraltro, anche nel Nuovo Testamento gli angeli non sembrano essere dotati di ali; le scritture non ne riferiscono per l’arcangelo Gabriele che annuncia a Maria la divina gravidanza (Lc, 1, 26-38), così come per quello che appare in sogno a Giuseppe (Mt, 1, 18-25), o quello che invita i pastori alla grotta di Betlemme (Luca 2, 13), né quello che, sceso dal Cielo “come folgore” ma con un “vestito candido come la neve” (Mt, 28, 1-7), appare alle pie donne che si recano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù dopo la sepoltura.
Sono tutti indicati semplicemente come “angeli”, presumibilmente con fattezze umane dacché indossano anche abiti, (e per questo non vengono riconosciuti subito come creature celesti), ma senza che se ne dia una descrizione morfologia precisa che li configuri come esseri alati [4]. Sebbene, però, gli angeli delle sacre scritture siano spesso individuabili con il loro specifico genere, maschile per lo più; ma a volte raffigurati anche con sembianze femminili, specie nel Medioevo, quando proprio la donna venne sublimata quale figura angelica per eccellenza, tanto da diventare protagonista nella poetica del Dolce Stil Novo. Da qui, forse, l’affermarsi nel tempo – e maggiormente tra Cinquecento e Seicento – di raffigurazioni in cui gli angeli presentano spesso lineamenti e morfologie corporee, per così dire, muliebri.
Ma allora quando le ali, che inequivocabilmente li connotano come creature celesti, entrano a far parte della rappresentazione specifica degli angeli?
Lo studio più significativo in tal senso è quello dello storico dell’arte austriaco Fritz Saxl, autore del volume La storia delle immagini (1965), nel quale egli fissa alla prima metà del V secolo l’insorgere della nuova immagine dell’angelo:
“L’immagine della figura celeste alata fu creata all’origine della nostra civiltà. Essa fu rielaborata dai Greci e dai Romani, ma i cristiani dei primi quattro secoli non trovarono nessuna ragione per adottarla. A partire dal quinto secolo l’immagine pagana non solo venne adottata, ma ebbe una così vigorosa fioritura da modificare l’interpretazione dei testi sacri.”
Saxl riferisce – tra l’altro – che in Santa Maria Maggiore a Roma, risalenti proprio al V secolo, sono presenti alcuni “mosaici che illustrano l’infanzia del Signore” in cui
“la vergine e Cristo sono circondati non da messaggeri, ma da angeli nel senso moderno della parola […]; anzi uno di essi si libra addirittura nell’aria.” [5]
Come accennava Saxl, riferendosi alle “origini della nostra civiltà”, le caratteristiche tipiche dell’iconografia tradizionale probabilmente furono assimilate dalla cultura cristiana provenienti dai culti delle regioni mesopotamiche, dove già da secoli figuravano entità alate (dal volto umano ma con il corpo di animale) dette kāribu, poste a guardia di palazzi e templi, a evocare in quei luoghi la presenza divina. La figura del cherubino, pare abbia avuto origine proprio da queste antiche entità e, forse non a caso, proprio i cherubini nelle Sacre Scritture sono posti alle porte del Paradiso:
“Così egli scacciò l’uomo; e pose ad est del giardino di Eden i Cherubini, che roteavano da tutt’intorno una spada fiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita.” (Genesi, 3:24)
In un periodo storico in cui il potere temporale della chiesa si affermava in maniera sempre più incisiva, e più ancora a partire dall’VIII secolo, quando papa Gregorio III nel 731 dichiarò legittimo il culto delle immagini sacre, diventava quanto mai necessario fornire una rappresentazione concreta, “comprensibile” dai fedeli, delle creature che popolavano le sacre scritture. E quindi, un’entità di natura divina, collocata idealmente nelle sfere celesti, non poteva che essere dotata di strumenti preposti al volo: le ali, per l’appunto.
E se nell’epoca bizantina la presenza di angeli funge spesso da elemento decorativo che rallegra e ingentilisce i policromi mosaici popolati di figure ieratiche, nel Rinascimento essi troveranno l’affermazione estetica della loro essenza divina. Con o senza ali, la grazia delle pose e la leggiadria dei lineamenti ne avevano fatto il simbolo dell’armonia celeste; come non ricordare, di Leonardo, l’eterea figura dell’angelo inginocchiato nel Battesimo di Gesù (fig. 1) che fece indispettire il maestro Verrocchio.
O i meravigliosi Angeli musicanti di Melozzo da Forlì (fig. 2),
l’eleganza sinuosa dei cantori nel Tondo Raczynski del Botticelli (fig. 3),
gli angioletti pensierosi – ormai un’icona – nella Madonna Sistina di Raffaello (fig. 4).
Ma è nel Seicento che le raffigurazioni (moderne) di angeli raggiungono l’apoteosi, grazie anche alla riscoperta delle radici paleocristiane da parte del cattolicesimo controriformato. Il cardinale Cesare Baronio, in particolare, pare avesse molto a cuore il culto degli angeli; in essi individuava, non soltanto una figura di raccordo tra umano e divino, ma una presenza concreta e attiva nel quotidiano “terrestre”, utile a manifestare la vicinanza di Dio agli uomini e così consolidare la fede[6].
Da qui la tendenza a raffigurazioni di angeli dalle sembianze umanissime, sebbene – rispetto alle raffigurazioni pre-bizantine – dotati di ali spesso molto scenografiche. Le ali diventano, anzi, l’elemento distintivo che sublima la natura celeste delle creature angeliche; simboleggiano il movimento, la possibilità di essere sempre presenti, rapidamente e ovunque, come emissari di Dio. Oppure, come semplice testimone di un evento sacro nonché presenza compendiaria “ornamentale”, troviamo raffigurazioni in cui l’angelo non è che un allegro puttino effigiato con la sola testa e due alucce saldamente attaccate al collo. L’armonia delle forme e dei lineamenti caratterizza costantemente queste figure, con una funzione estetica e rassicurante. L’angelo, in quanto entità afferente al divino, diventa – in questo frangente – simbolo di bellezza assoluta. Rappresentato nelle più disparate forme e circostanze, diviene protagonista indiscusso e quasi onnipresente delle raffigurazioni sacre. Si concretizza, nel momento in cui opera Caravaggio, quello che Roberto Longhi definì “angelismo”:
“Gli angeli erano il problema tematico della bellezza, in quei giorni. Mentre la teologia gesuitica se ne occupava con le sottigliezze del Suàrez, Roma pittorica si riempie di «angeli» tra l’85 e il ‘95. […] tutti dipingono angeli nelle più varie gerarchie.” [7]
Fino al trionfo barocco di cui, i monumentali dieci angeli progettati dal Bernini, che avrebbero accompagnato i pellegrini nel cammino penitenziale verso San Pietro di passaggio su Ponte Sant’Angelo, sono forse il massimo esempio.
Dunque, stabilito nel corso dei secoli che l’angelo dovesse avere ali e sembianze umane, giovane età e con indicazioni di genere a discrezione dell’artista, ciò che più importava nel contesto didattico dell’arte sacra seicentesca, era il suo ruolo di collegamento fattivo tra le insondabili “divine altezze” (eterne e infinite) e la realtà terrena (materiale e transitoria).
Questo era il solo “modello” di angelo che un pittore potesse ritrarre “dal naturale”. E “dal naturale” – in questo senso – Caravaggio dipinse i suoi angeli ragazzini, dotati di canoniche ali posticce (gentilmente prestate dall’amico Orazio Gentileschi)[8] ma vivissimi e guizzanti nella loro evidente “umanità” e, per questo, identificabili anche nel loro genere. Perché di “ibrido” – per l’artista – probabilmente bastava l’idea primigenia: l’angelo, come emanazione dell’Amore di Dio, non ha “genere”.
Forse è in questo senso che l’artista elabora l’idea del violinista alato nel Riposo durante la fuga in Egitto (fig. 5): una via di mezzo tra un angelo e un Cupido, tra cristiano e pagano. Egli è Amore, in senso assoluto. Non a caso Caravaggio lo pone al centro tra la zona “terrena” del dipinto, dov’è Giuseppe, e quella “celeste” dove si trovano Maria e il Bambino.
Tuttavia il maestro lombardo non esitò a conferire fattezze più esplicitamente femminili almeno a uno dei suoi angeli, ovvero l’angioletta boccolosa del suo primo San Matteo e l’angelo (fig. 6); fu questa l’unica occasione – e forse non a caso – in un’opera che, nonostante risponda quasi pedissequamente allo “sbozzo” iconografico lasciato dal defunto cardinale Contarelli, molto probabilmente venne concepita, fin dal principio, non per l’altare di San Luigi dei Francesi – e quindi per la fruizione pubblica – ma per la quadreria privata di un collezionista (il marchese Vincenzo Giustiniani), che evidentemente apprezzava certe raffigurazioni, per così dire, non convenzionali. Ma d’altra parte, ciò non deve sorprendere né destare sospetti di “eversione” se, ancora anni dopo, nel 1630 ca., Giovanni Mannozzi, alias Giovanni da san Giovanni, riempirà l’abside della Basilica dei Santi Quattro Coronati con il suo trionfale “Coro delle Angiolesse” (fig. 7);
e più avanti (1640 ca.), anche George de La Tour, nella sua interpretazione del “Sogno di Giuseppe” (fig. 8), conferirà tratti femminili alla giovanissima entità angelica (in questo caso, però, priva di ali) che appare al padre putativo di Gesù, confermando quella che era certamente una tendenza estetica del tempo, volta a sublimare la bellezza del corpo umano, maschile e femminile, nella sacralità della creatura angelica.
Per il resto, sebbene si rilevino in Caravaggio connotazioni vagamente efebiche in altre sue rappresentazioni di angeli, forse dettate proprio dal gusto estetico corrente presso i suoi raffinati committenti, ciò che appare innegabile è che essi siano tutti ragazzi “veri”, probabilmente di giovanissima età, i cui acerbi lineamenti l’artista riesce a ritoccare quel tanto che basta a eludere l’evidenza (vietata) del ritratto (quella che, secondo quanto riferito da Giovanni Baglione, costò a Scipione Pulzone il rifiuto della pala d’altare per la Cappella degli Angeli nella Chiesa del Gesù)[9], conferendo loro una parvenza mistica, pur senza rinunciare alla loro umanità. Peraltro, non è da considerare anomalo che gli angeli ritratti dal Caravaggio siano sempre poco più che bambini; così voleva la consuetudine consolidata nel tempo, poiché la loro giovinezza era indicativa di una immanenza perpetua, metafora di quella “eternità” dalla quale provengono e alla quale sono chiamati i fedeli:
“[…] l’immagine dell’Angelo è un’immagine di puro presente e, in questa immanenza, essa si qualifica come idea della presenza di Dio che si manifesta in un soffio della durata di un solo istante e per un istante colma il vuoto tra il cielo e la terra. […] il puro presente, in questo caso, equivale a una ininterrotta eternità.” [10]
E questa idea di giovinezza perenne degli angeli, quale “ininterrotta eternità”, supporta e accentua la peculiare narrazione pittorica del maestro lombardo, che si manifesta sempre in un “attimo infinito”: l’attimo in cui l’artista blocca la sua scena per raccontare l’intera storia in un singolo istante che, fissato sulla tela, diventa eterno.
Così sono gli angeli di Caravaggio: immanenti, in quanto estremamente realistici, nella loro trasposizione pittorica, eppure… trascendenti. Conformi – pienamente – al ruolo sacro che i dettati teologici avevano loro affidato. Le grandi ali con cui l’artista li ritrae, rimandano agli ampi spazi celesti e li “staccano” concettualmente dallo spazio terreno, che pure occupano e in qualche caso toccano, letteralmente; come appunto la figuretta candida del primo San Matteo e l’angelo, la cui posa infantile, con un piede alzato e uno posato in terra, rimanda all’idea di un supponibile “atterraggio” dall’Alto, a condividere con Matteo il suo (ristretto) spazio fisico, terreno.
Ma gli angeli di Caravaggio risultano estremamente umani anche quando il loro ruolo, all’interno dell’episodio di storia sacra rappresentato, li vorrebbe forse più eterei, in quanto araldi della divinità a cui si accompagnano. Come nel caso dell’angelo che sorregge il Cristo nella prima redazione della Conversione di San Paolo, oggi in collezione Odescalchi (fig. 9);
per quanto il naturalismo caravaggesco, qui, ceda ancora parecchio all’aulica pittura di maniera, il cromatismo fortemente chiaroscurale esalta nei volumi la plasticità corporea del giovanissimo ragazzo alato, le cui gote rosseggiano di luce sanguigna. Lo stesso per i due angeli “scugnizzi”, scarmigliati e iperattivi, nella pala delle Sette opere della Misericordia al Pio Monte di Napoli (fig. 10), dove l’intreccio promiscuo dei loro corpi agili, scolpiti dalla luce, fa da “balcone” all’affaccio terrestre della Vergine col Bambino.
Il fatto che gli angeli di Caravaggio mostrino sempre questa “realistica” umanità, inoltre, enfatizza la loro funzione di supporto all’uomo in momenti cruciali della sua esistenza, manifestando così l’intervento concreto del divino nella quotidianità dell’essere umano; nella sua storia, nella sua vita, dandole forma e direzione, ispirandone le azioni, suggerendo una visione alternativa.
L’angelo è si, il “puro spirito” a cui – per “intenderlo” – si è dovuto conferire sostanza materiale, ma è anche e soprattutto messaggero, testimone, compagno, guida e conforto.
Come l’angelo nunziante che Caravaggio dipinse nella sua straordinaria Natività con i santi Lorenzo e Francesco (fig. 11); un bambinetto riccioluto che sgambetta per aria, quasi nuotasse più che “volare”. Ma le sue braccia sono aperte, spalancate alla gioia e alla grandezza dell’annuncio: uno punta verso l’Alto, l’altro verso il basso. Egli è il “ponte” che si snoda sulle parole impresse nel cartiglio che tiene avviluppato tra le dita: “Gloria a Dio nell’alto dei Cieli, e pace in terra agli uomini che Egli ama”.
Oppure l’angelo che, in San Luigi dei Francesi, appare sull’altare del Martirio di San Matteo (fig. 12), quale epifania del divino, da una densa nube, a porgere al santo morente la palma del martirio; è ritratto dal Caravaggio in una posa tortile, gorgogliante, quasi fosse esso stesso sostanza di quella nube.
Mentre decisivo è, invece, l’angelo che si affaccia perentorio sulla scena e incide fattivamente nelle sorti dell’uomo: quello del Sacrificio di Isacco agli Uffizi (fig. 13), molto poco celeste nelle fattezze, con quelle ali scure di cui si scorge solo un accenno, ma di certo determinante nella storia sacra, col suo braccio forte che ferma la mano assassina di Abramo. O ancora il giovane alato “color di luna”, come scrisse Longhi, dall’espressione mite e consolatoria, che sorregge e conforta San Francesco appena trafitto dalle stimmate nel dipinto di Hartford (fig. 14).
Più autorevole e “impegnato” si presenta, invece, l’angelo che fluttua nell’aere oscuro della sapienza di Dio, nella seconda versione della pala eseguita – questa certamente si – per l’altare Contarelli di San Luigi dei Francesi (fig. 15).
Ripreso verosimilmente dall’ angelo della Natività palermitana, ribaltandolo[11], la sua posa si presta – in questo caso – all’alto ruolo di suggeritore, che coadiuva San Matteo nella stesura del Vangelo, ma non interferisce nell’esercizio del libero arbitrio con cui egli mostra di aver accettato la sua missione. In questi casi, l’umanità che l’artista conferisce all’entità celeste, non fa che rafforzare – rendendola visibilmente concreta – la sacralità del suo ruolo pur nella vicinanza fattiva all’uomo. E questo la avvicina empaticamente al popolo dei fedeli, realizzando in tal modo l’obbiettivo di consolidamento della fede espressamente richiesto dalla Chiesa.
Gli angeli di Caravaggio si configurano, dunque, quale sintesi pittorica tra divino e umano, risolta nella evidenza “naturale” del dato stilistico, che risponde però pienamente alla necessità di trascendenza della loro funzione didascalica. Nei dipinti del maestro lombardo, perfetto e imperfetto, eterno ed effimero si incontrano e si scoprono “simili”; creature dello stesso Creatore. Respirano la stessa aria, profumano della stessa carne, condividono la stessa provvisorietà, ma anche la stessa tensione spirituale verso quell’Altrove mistico da cui tutto proviene e a cui tutto deve tornare.
©Francesca SARACENO, Catania 21 maggio 2023
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