di Massmo PIRONDINI
Nella controfacciata interna del Duomo di Reggio, sopra la porta di ingresso principale,
ad una quindicina di metri di altezza, è collocato un tondo, ad olio su tela, con un diametro di circa 180-190 cm, raffigurante Il Salvatore.
Tale dipinto è stato, fino ad oggi, pressoché trascurato, né esso si trova citato nelle fonti. Fonti che, per Reggio e per i suoi beni artistici, sono, in pratica, purtroppo limitate ad una sola e fra l’altro assai tarda: la Descrizione delle Chiese di Reggio di Lombardia di Gaetano Rocca[1]. Tale manoscritto, che è datato 1782, e quindi precedente sia alle soppressioni nonché confische ducali (1783), sia alle spoliazioni napoleoniche (1796-97), non fa, comunque, alcun cenno al tondo in oggetto.
La prima a farne menzione, nel secolo scorso, è A. Ghidiglia Quintavalle che, nella schedatura delle opere d’arte della Cattedrale di Reggio (1935) per conto del competente Ministero della Educazione Nazionale[2], lo descrive, nella sua attuale ubicazione, come un San Giovanni Battista di “ignoto emiliano della fine del secolo XVIII”. In seguito il Fabbi (1962), nella sua Guida di Reggio, rettifica il tiro sia sul soggetto (il Redentore), sia sulla attribuzione, suggerendo il nome (improponibile) di Alessandro Tiarini[3], mentre lo scrivente, vent’anni dopo, ritornava sulle generiche indicazioni della studiosa parmense[4].
Infine, questo Salvatore, seppure ben visibile nella sua ubicazione, all’interno della Cattedrale, sopra la porta maggiore d’ingresso, venne poi del tutto ignorato, anche dalle due principali pubblicazioni monografiche sulla stessa chiesa, quella di Monducci e Nironi del 1984[5] e l’altra, assai ponderosa e più recente, del 2014[6].
Devo all’amicizia di Francesco Petrucci, curatore del Museo del Barocco di Palazzo Chigi ad Ariccia e che ha richiamato alla mia attenzione questo trascurato dipinto, l’idea che possa trattarsi di un’opera di Giuseppe Cesari detto il Cavalier D’Arpino; cioè uno di quei tondi devozionali non infrequenti nella produzione dell’artista, sul tipo, ad esempio, della Testa di Cristo nella chiesa di S. Michele Arcangelo ad Arpino[7] o del Salvatore, perduto, già in Santa Maria in Aracoeli a Roma[8].
Quel Cavalier D’Arpino, fra l’altro, presente a Reggio, nella stessa Cattedrale, con un altro quadro, la Visitazione (1605-6)
nella cappella, tutta romana[9], fatta costruire dal Cardinale Toschi[10], l’importante prelato reggiano che mancò di poco la tiara pontificia nel secondo Conclave del 1605.
Qualcuno potrebbe pensare che in quella occasione fosse commissionato al pittore anche il Salvatore in oggetto, ipotesi a mio giudizio fuorviante e poco plausibile. L’opera infatti non figura negli accuratissimi libri di amministrazione del cardinale, riguardanti le spese per gli artisti della cappella, ed inoltre in esso va notata, fatto ben più rilevante, la presenza di caratteri stilistici tipici del fare del Cesari di almeno un ventennio più tardi. Valga il confronto, ad esempio, con l’Ecce Homo dell’Università di Perugia (1620 ca.) o con il Cristo deriso del Museo di Capodimonte a Napoli.
Salva restando, comunque, la necessità di un esame della tela a distanza ravvicinata, per ora impossibile, onde appurarne lo stato conservativo ed eventuali restauri o ridipinture, la ricerca andrà allora finalizzata alla individuazione dell’eventuale committenza nonché dell’occasione e dei modi della sua venuta a Reggio.
Circa la committenza forse potremmo trovarne una traccia nell’inventario (febbraio 1627) di quanto conservato nella residenza romana del cardinale Francesco Maria del Monte [11], il protettore di Caravaggio; tale documento, a valersi per una successiva totale alienazione[12], fu stilato per conto degli eredi, che furono il nipote Uguccione (deceduto prima che ne fosse compiuta la stesura) e poi il di lui fratello Alessandro (che a sua volta morì sette giorni dopo la conclusione della vendita): quasi una postuma maledizione del cardinale, che avrebbe voluto lasciare gran parte dei suoi beni ai Gesuiti ma che fu letteralmente obbligato dalla famiglia a tornare sui suoi passi.
In questo inventario dei beni di palazzo del Monte “a Ripetta”, alla carta 583r, si legge:
“nella Scala che discende alla Sirena, Un Salvatore in tondo del Cavaliere Gioseppino con Cornice Indorata di palmi otto in circa”[13].
Evidentemente si trattava di un’opera collocata ad una parete del ballatoio dello scalone e le cui misure (8 palmi romani=184-192 cm[14]) potrebbero corrispondere, a quanto si può vedere dal basso, al diametro del tondo del Duomo di Reggio.
In seguito si perde ogni traccia del dipinto dopo la vendita del 1627-28, eventuale termine post quem per l’arrivo del Salvatore, se di questo si tratta, nella città emiliana, e in ogni caso resta da definire il possibile tramite fra il mercato artistico romano e Reggio.
Magari tale intermediario fu un personaggio della Chiesa reggiana appassionato d’arte sul tipo di Paolo Coccapani, vescovo di Reggio dal 1625 al ’50, cui si devono la Grotta Coccapani, nel palazzo Vescovile, ed il casino di campagna al Mirabello, oggi scomparso; quel Coccapani che aveva qui raccolto una vasta collezione di oltre duecento dipinti e diverse centinaia di disegni[15].
Stando ai documenti, sembra però che le direttrici di rifornimento del vescovo-collezionista fossero orientate verso Venezia e Parma grazie alla funzione di esperto e consigliere di Gabriello Balestrieri, pittore parmense, al limite, con qualche puntata verso Firenze, ove stavano i nipoti del prelato, Sigismondo (anche lui pittore) e Giovanni Coccapani.
Comunque, negli inventari di questa raccolta, il nostro dipinto non figura.
Senz’altro più attento al versante romano dovette comunque essere il successore di Paolo, il cardinale Rinaldo d’Este (1618-1672), fratello minore del duca Francesco I e vescovo di Reggio dal 1651 al 1660.
Rinaldo, che era stato nominato cardinale da Urbano VIII nel 1641, soggiornò per lunghi periodi a Roma, dal 1644 in poi, ricoprendo incarichi di prestigio[16] e diventando il principale protagonista degli scambi artistici, culturali e collezionistici, nel terzo quarto del Seicento, fra la capitale pontificia e le due città dello stato estense, Modena e Reggio.
E’ lui, il cardinal Rinaldo, che dopo il suo arrivo a Roma, chiama presso di sé il pittore Giovanni Boulanger (ottobre 1644) per farlo lavorare nella Villa estense di Tivoli e, in occasione del Carnevale 1645, alle scenografie della commedia e torneo organizzati dal prelato[17] nei giardini dell’attuale Palazzo Doria Pamphilj al Corso, al tempo sua residenza romana[18].
E’ lui che nell’agosto 1650 si prodiga a sollecitare Bernini per l’esecuzione del Busto di Francesco I con l’ausilio di tre ritratti[19]. Opera oggi alla Galleria Estense di Modena.
E’ lui che, dopo essere stato nominato vescovo di Reggio, ordina all’architetto romano Bartolomeo Avanzini la ristrutturazione (1651-52) del Palazzo Vescovile di Reggio. Fra l’altro, Rinaldo, anche dopo le sue dimissioni da vescovo[20], tenne a Reggio una sua residenza ed una collezione d’arte.
E’ lui che fra la fine degli anni 50 e per gli anni 60 intensifica le committenze artistiche, per le necessità d’arredo, dopo l’acquisto, da parte di Casa d’Este, di un palazzo romano finalmente in proprietà (1664), cioè Palazzo Sannesio[21].
E’ lui, ancora, che, in accordo con il vescovo Marliani, fa eseguire a Roma, su disegno di Bernini, fra il 1668 ed il ’69, il grande paliotto d’argento per l’altar maggiore del duomo di Reggio[22].
Per la venuta a Reggio del Salvatore del Cavalier D’Arpino, sempre sia accaduta nel XVII secolo, la pista più percorribile sembrerebbe allora quella del cardinale Rinaldo d’Este (1618-1672) che potrebbe aver intercettato il dipinto sul mercato artistico e collezionistico romano, grazie alle sue amicizie e frequentazioni in tale ambiente.
Confidiamo che le ricerche d’archivio, tuttora in corso, ce ne possano dare una conferma.
NOTE
[1] Bologna, Biblioteca Archiginnasio, ms. A 2834. Per lungo tempo si è ritenuto che l’autore del testo fosse Prospero Fontanesi, che invece si limitò a trascriverne due copie, pure manoscritte, entrambe conservate presso la Biblioteca Municipale di Reggio Emilia (Mss. Turri E 3 e Mss. Regg. C 280).
Il manoscritto dell’Archiginnasio è stato recentemente pubblicato ed arricchito di un analitico apparato di note critiche ad opera di M. Montanari (Descrizione delle Chiese di Reggio di Lombardia di Gaetano Rocca, Reggio E., 2010).
[2] Antichità e Belle Arti, Dattiloscritto, Modena, Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici, Archivio.
[3] F. Fabbi, Guida di Reggio nell’Emilia, Reggio E., 1962, p. 62.
[4] M. Pirondini, Reggio Emilia, Guida storico-artistica, Reggio E., 1982, p. 71.
[5] E. Monducci – V. Nironi, Il Duomo di Reggio Emilia, Reggio Emilia, 1984.
[6] AA. VV., La Cattedrale di Reggio Emilia, Reggio E.- Milano, 2014.
[7] H. Rottgen, Il Cavalier Giuseppe Cesari D’Arpino, Roma, 2002, p. 378.
[8] Ibidem, p. 377.
[9] La cappella è tutta romana, nel senso che fu lavorata a Roma, su progetto dell’arch. Gerolamo Rainaldi, da marmorari del luogo, poi smontata e rimontata a Reggio. Fra i pittori vi lavorarono il Pomarancio, il Passignano, Pietro Sorri e, appunto, il Cavalier D’Arpino per la pala d’altare (1605-6). Si veda Monducci-Nironi…cit., pp. 169-176; AA.VV…cit., pp. 329-340. Sulla Visitazione, ove F. Silvestro ha individuato l’autoritratto del pittore (La scoperta dell’autoritratto del Cavalier D’Arpino nel Duomo di Reggio Emilia. Reggio E., 2013), il punto della situazione sta nell’accuratissima scheda di H. Rottgen (op. cit., p. 376).
[10] Sul personaggio resta fondamentale: R. Govoni, Il Cardinale Domenico Toschi, Reggio E., 2009.
[11] Morto l’anno prima, nel febbraio 1626.
[12] Effettuata a più riprese dall’ottobre 1627 al giugno 1628.
[13] Roma, Archivio di Stato, 30 Notai Capitolini, Paulus Vespignanus, ufficio 28, vol. 138. Riportato, a stampa in C. Frommel, Aus dem Nachlass-Inventar des Kardinals Francesco Maria del Monte, in “Storia dell’Arte”, 9/10, 1971, p. 36.
[14] Calcolando il palmo romano 23-24 cm.
[15] G. Campori, Raccolta di cataloghi ed inventari inediti, Modena, 1870, pp. 143-159.
[16] Fu cardinal diacono di S. Maria della Scala e poi di S. Nicola in Carcere, cardinale presbitero di Santa Pudenziana, proto presbitero di S. Lorenzo in Lucina ecc.
[17] Poco prima, nel settembre del 1644, era morto Urbano VIII e il nostro cercava di inserirsi nel gioco della nobiltà e dei poteri romani.
[18] La prima delle residenze romane, in affitto, del cardinale e della sua corte fu Palazzo Doria Pamphilj al Corso (fino al 1647); seguì, per circa due anni, Palazzo Campeggi (quartiere Borgo), e poi Palazzo Orsini a Campo dei Fiori (1650, qui il cardinale fece eseguire anche dei fregi in alcune sale), Palazzo De Cupis a Piazza Navona (1651), la Casa Grande dei Barberini in via dei Giubbonari (1656-58).
[19] Uno, di fronte, di Boulanger, gli altri due, con i profili destro e sinistro, di J. Susterman.
[20] Per sopperire alle esigenze del Ducato estense: nell’ottobre 1658 era morto infatti il fratello Francesco I.
[21] Palazzo Sannesio corrisponde all’attuale palazzo del Vicariato, ove era in affitto dal 1658.
[22] Il paliotto (36 Kg di argento) fu progettato dal Bernini, che intervenne pure sul modello piccolo e modello grande eseguiti dallo scultore francese Giovanni Rinaldi. L’argentiere romano Rocco Tamburoni ne curò la realizzazione. Nel disegno qui pubblicato l’architetto romano Mattia de Rossi suggerisce il modo di adattare il paliotto, di cui si erano sbagliate le misure, alla mensa dell’altar maggiore del Duomo di Reggio. E’ questa l’unica testimonianza dell’aspetto del dossale in oggetto, che fu asportato dai francesi al tempo dell’occupazione napoleonica e destinato alla fusione (Monducci-Nironi…cit., p. 196; M. Mussini, Architettura, scultura e mecenatismo nella Reggio del Seicento, in Il Seicento a Reggio, a cura di P. Ceschi Lavagetto, Reggio E., 1999, pp. 236-237, tav. 238).