di Valentina BARADEL
Valentina Baradel ha conseguito la laurea magistrale (2013) e il dottorato di ricerca (2018) in Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Padova. Le sue indagini, pubblicate in diversi volumi e riviste e presentate a convegni nazionali e internazionali, si rivolgono principalmente allo studio della pittura medievale d’area veneta e adriatica.
L’opera, finora poco nota agli studi [1], raffigura un soggetto alquanto diffuso nella produzione artistica bassomedievale, tanto in icone di piccolo formato destinate alle pratiche devozionali individuali, quanto in dipinti di maggiori dimensioni e pensati per un contesto e una fruizione differenti, come appunto nel caso in esame (fig. 1).
Si tratta del noto tema della Madonna dell’umiltà, qui presentato nella sua declinazione più classica, con la Vergine, concepita come un’imponente matrona, seduta a diretto contatto con il terreno, entro lo spazio di un rigoglioso prato trapunto di diverse specie vegetali e floreali; sullo sfondo, il giardino è chiuso da alcuni ramoscelli di maggiore altezza, preludio alla cinta arborea dell’hortus conclusus e rappresentazione metaforica della verginità della sposa del Cantico dei Cantici.
Maria reca sul ginocchio sinistro il figlioletto, serio e benedicente; tra i personaggi non si instaura alcun contatto visivo, poiché ciascuno volge lo sguardo in direzione opposta rispetto a quello dell’altro, ma il legame affettivo tra i due è comunque manifesto nell’amorevole gesto con cui la Madre trattiene il piede destro del Bambino, un dettaglio che doveva contribuire a calare il gruppo divino in una dimensione emotiva più umana e vicina ai devoti in preghiera davanti all’effigie.
Infine, la scena è movimentata da un coro di dodici angioletti disposti ai lati del gruppo principale e raffigurati con dimensioni più contenute rispetto ad esso, secondo la tipica gerarchia medievale; le figurette vivaci, in cui il pittore si ritagliò uno spazio di genuina creatività, si distinguono per la brillantezza cromatica delle vesti e delle ali spiegate e per la varietà delle pose con cui sono atteggiati: i due più a sinistra impegnati in una gara a chi arriva per primo nel porgere l’offerta floreale alla Vergine (fig. 2), così come i due a ridosso della cornice superiore, con uno che addirittura trattiene il compagno per l’abito; altri si avvicinano al duo divino con libri e rotoli su cui si indovinano le tracce di uno spartito musicale (fig. 3), altri ancora semplicemente osservano la Madre e il Figlio, alcuni con le mani giunte in preghiera (fig. 4).
Il dipinto non nacque come tavola a sé stante e isolata: costituiva in origine il pannello centrale di un trittico ad ante fisse, i cui laterali – attualmente di ubicazione ignota – ospitavano le effigi di due santi (fig. 5).
Ne abbiamo testimonianza in uno scatto conservato nella fototeca di Federico Zeri, oggi gestita dalla Fondazione che ne porta il nome, da cui apprendiamo altresì che l’opera, ancora integra e le cui dimensioni si aggiravano intorno a 78×144 cm, nel 1916 si trovava nella collezione D’Atri a Parigi[2].
Non sono purtroppo note le circostanze attraverso le quali il trittico approdò nella collezione francese; tuttavia, la preziosa fotografia antecedente al suo smembramento permette di avanzare qualche ipotesi sulla sua provenienza originaria. Lo scomparto di destra raffigura, infatti, un giovane santo vestito con un’ampia dalmatica e recante due attributi inconfondibili, un modellino di città e uno stendardo crucisegnato, che permettono di identificarlo con buona certezza in Daniele, uno dei patroni di Padova (figg. 6-7)[3]: si può quindi concludere, senza troppi dubbi, che la prima destinazione dell’opera fosse una chiesa della città euganea.
Qualche informazione in più, ma questa volta in via del tutto ipotetica, è forse possibile ricavare dalla seconda effigie, raffigurata nello scomparto laterale sinistro. Si tratta di un santo dall’espressione corrucciata, abbigliato con una lunga tunica e un manto riccamente ornato (la decorazione sembra non originale e probabilmente frutto di un intervento successivo); la folta barba e il bastone su cui si appoggia nell’incedere verso la Vergine col Bambino, a cui è rivolto, lasciano trasparire la sua età matura rispetto al fanciullesco Daniele nello scomparto opposto. A differenza di quest’ultimo, poi, egli non reca attributi che permettano di identificarlo con certezza, motivo che giustifica l’apposizione di un’iscrizione con il suo nome all’altezza della spalla sinistra, JOSEF.
Si potrebbe trattare, allora, di san Giuseppe[4]: considerata la scarsità di raffigurazioni del santo, come figura isolata, almeno fino alla fine del XV secolo, la sua presenza nell’opera in esame andrebbe spiegata con la provenienza da un altare o un edificio religioso a lui intitolato. A Padova, una chiesa di San Giuseppe (ora distrutta) era ubicata in Stra’ Maggiore, odierna via Dante, ed era la sede della corporazione dei marangoni (falegnami), oltre che di una confraternita di devozione legata proprio al culto del santo: non si esclude pertanto che questa fosse la destinazione originaria del trittico, sebbene ulteriori ricerche dovranno essere effettuate per verificare questa prima ipotesi di lavoro.
Le notizie conservate presso la Fondazione Federico Zeri permettono qualche altra considerazione sull’opera in esame. Ad esempio, è possibile seguirne le vicende dopo la frammentazione del trittico: sappiamo, infatti, che il solo pannello centrale con la Madonna col Bambino ricomparve sul mercato antiquario parigino nel 1968, mentre qualche anno dopo, nel 1972, transitò su quello italiano, in Liguria; da quel momento, e fino ad anni recenti quando fece la sua comparsa a Londra presso Christie’s[5], della tavola si erano perse le tracce.
Ancora, la documentazione fotografica storica consente di giudicare con maggiore cognizione delle vicissitudini conservative del dipinto e del suo stato attuale: si riscontra ad esempio come, nel corso del tempo, la superficie pittorica sia stata sottoposta a interventi volti, da una parte, a eliminare le decorazioni posticce applicate in un momento imprecisato al manto della Vergine e alla vesticciola del Bambino; dall’altra a rendere maggiormente coese le assi costituenti il supporto ligneo, tra le quali si era aperta una fenditura posta circa a metà dell’altezza del dipinto e sviluppata per l’intera sua larghezza, della quale oggi non si notano che lievi tracce. In buono stato appare la doratura dello sfondo: si rilevano solo due limitate integrazioni negli angoli superiori destro e sinistro, finalizzate a colmare le porzioni di superficie dipinta che prima accoglievano due tondi con l’Angelo annunciante e la Vergine annunciata, ancora visibili nella fotografia del 1916 e andati perduti con lo smembramento dell’opera.
A proposito delle operazioni di lavorazione dell’oro, merita un accenno la ricchezza esornativa messa in mostra in quest’ancona: superiormente essa termina con una cornice aggettante in pastiglia, a forma di arco trilobo ribassato poggiante su colonnine tortili che delimitano lateralmente la superficie dipinta. Ciascuno dei tre lobi di questo grande arco termina con un pendilium circolare, da cui si sviluppano eleganti foglie lanceolate (fig. 8);
all’interno essi ospitano archetti a tutto sesto di minori dimensioni, anch’essi in pastiglia e conclusi da un pendilium circolare, da cui si dipartono petali rotondi realizzati con un minuto punzone simulante una stella a cinque punte, lo stesso utilizzato per creare ulteriori archetti a complemento di quelli in pastiglia (fig. 9). Va notato che il pittore non relegò le operazioni di lavorazione dell’oro alla sola parte superiore del dipinto, ma ne arricchì l’intera superficie, ad esempio colmando lo sfondo con una pioggia di stelline a sei punte, simulanti la volta celeste, e con una fitta razzatura intorno al gruppo divino, ottenuta non con la rotella, come d’abitudine, ma con sottilissime incisioni a stilo (fig. 10).
Ancora, egli si servì di un inedito punzone a due ovali concentrici, internamente riempiti da puntini disposti in due file regolari, per ornare la passamaneria del manto della Vergine, alternandolo con un motivo a fiore realizzato con l’accostamento di otto circoli intorno a uno centrale di maggiori dimensioni (fig. 11). Ideò poi la soluzione di decorare la spilla che chiude il maphorion della Madonna con una serie di circoli semplici al cui interno è impresso un bollo, ricorrendo a un motivo impiegato anche altrove nella sua produzione pittorica.
Infine, per quanto riguarda i nimbi, il maestro impreziosì quello della Vergine con elementi floreali generati dall’accostamento di circoli semplici, e quello del Bambino con una più sobria – ma non meno efficace – alternanza di superfici lasciate a specchio accanto ad altre fittamente granite (fig. 12). Il risultato finale, oltre a informarci indirettamente del prestigio della committenza, a cui il pittore si applicò con cura, doveva essere di grande effetto, soprattutto se si immagina l’opera nel contesto d’appartenenza: un ambiente rischiarato da luce naturale o dal lume soffuso delle candele, in cui ogni singolo raggio doveva produrre riverberi differenti sulla superficie aurea variamente incisa, oggi impossibili data la piatta omogeneità dell’illuminazione artificiale.
Gli interventi conservativi summenzionati, a cui ne è stato fatto seguire uno più recente, consentono di giudicare buono nel complesso lo stato della superficie dipinta: lievi ridipinture si notano nel volto di alcuni angioletti e in quelli dei due personaggi principali, mentre altri brani hanno mantenuto tutta la genuinità della pennellata originaria, costruita su delicatezze di tocco e successive velature (si vedano in particolare le figg. 2-3).
L’opera rappresenta una primizia dell’attività di una personalità artistica nota agli studi come Maestro di Roncaiette: il pittore, purtroppo ancora privo di un’identità anagrafica, si pone come una delle figure più prolifiche della stagione tardogotica veneta e, in quanto tale, ha riscosso molto interesse nella letteratura storico-artistica dell’ultimo secolo, a partire dal contributo apripista di Roberto Longhi (1947), cui si deve la coniazione del nome che oggi convenzionalmente lo identifica[6].
Dal momento di questo battesimo, a partire dal polittico eponimo tuttora custodito nella chiesa parrocchiale di San Fidenzio, nella frazione di Roncaiette di Ponte San Nicolò, a pochi chilometri da Padova (fig. 13), al Maestro di Roncaiette è stata attribuita la paternità di un nutrito numero di opere su tavola, su tela e ad affresco, oltre che in miniatura, indice della versatilità della sua bottega, in linea con le più accreditate officine pittoriche dell’epoca: attualmente il suo catalogo conta 52 pezzi[7], per la maggior parte distribuiti nel territorio padovano, o da esso provenienti, con qualche invio fuori regione, verso le coste adriatiche delle Marche e della Croazia.
Proprio la provenienza di numerose opere da Padova e dintorni ha fatto ipotizzare alla critica che lo svolgimento dell’iter del pittore andasse legato alla città euganea e scalato in un arco cronologico di circa un trentennio, dalla fine del primo al quarto decennio del Quattrocento.
Una delle poche date certe in nostro possesso è il 1408 vergato sull’iscrizione della Madonna col Bambino, sante e devoti dei Musei Civici agli Eremitani di Padova (fig. 14)[8], realizzata su un supporto di tela, e che proprio per la sua precocità è il più diretto termine di confronto rispetto alla tavola qui in esame, per la quale si propone una datazione di poco successiva, intorno al 1410.
Entrambi i dipinti mostrano infatti ancora un’impostazione neogiottesca dei volumi, probabilmente derivata al pittore dallo studio ravvicinato delle più importanti testimonianze della scuola padovana del secolo precedente, facente capo ai nomi di Giusto de’ Menabuoi e Altichiero.
Non si può tuttavia negare che il Maestro di Roncaiette guardasse al contempo anche alla vicina Venezia, con cui probabilmente ebbe contatti fin dal momento del suo apprendistato all’arte, come inducono a credere i numerosi richiami allo stile gotico internazionale importato in laguna da Gentile da Fabriano (lì attivo dal 1405 al 1415 circa) ravvisabili nelle due opere, in particolare nell’accurata descrizione delle specie botaniche presenti nel giardino, come pure nella varietà e raffinatezza della lavorazione dell’oro descritta più sopra. Non stupisce, quindi, che in un primo tempo per entrambe le ancone sia stato proposto il nome di Nicolò di Pietro[9], che tra tutti i pittori lagunari risulta essere quello che più rese manifesta la commistione tra le istanze di terraferma e il linguaggio più aulico della tradizione veneziana del Trecento.
Dopo queste prime prove, il Maestro di Roncaiette intrattenne ancora rapporti con l’ambiente lagunare, nella forma di un vero e proprio sodalizio con Michele Giambono, al principio degli anni ’20 del Quattrocento, com’è dimostrato da un polittico attualmente conservato nella Pinacoteca Civica di Fano, ma in origine destinato alla chiesa di Santa Maria sul Ponte Metauro nei pressi della cittadina marchigiana, in cui Giambono confezionò il registro inferiore, mentre al nostro maestro spettò l’esecuzione di quello superiore con la raffigurazione di santi a mezzobusto (fig. 15)[10].
In questa fase il pittore padovano fu ancora capace di un linguaggio sostenuto, ben rispondente alle novità provenienti da Venezia e diffuse da maestri più giovani di una generazione; tuttavia, ineguagliati rimasero i vertici raggiunti con le opere licenziate dalla sua bottega tra la fine del primo e lo svolgimento del secondo decennio del Quattrocento.
La fase finale della carriera del Maestro di Roncaiette, allo scadere del terzo decennio del secolo, fu interessata da un’ultima e prolifica collaborazione con un pittore lagunare, Zanino di Pietro[11]. In quegli anni entrambi furono impegnati soprattutto nella produzione di numerose tavole devozionali di piccolo formato, raffiguranti perlopiù il soggetto della Madonna col Bambino e assestate su un linguaggio ormai stanco e incapace di stare al passo con le novità coniate dalle officine di pittori che nel frattempo si stavano imponendo in città: il fatto che essi avessero impiantato una bottega comune va dunque letto come un ultimo tentativo per rispondere a un mercato che si stava allargando e facendo sempre più competitivo.
Valentina BARADEL Padova 24 Gennaio 2021
NOTE