di Nica FIORI
Scoperte a Frosinone le Terme romane sul fiume Cosa
Anche se in Italia dovremmo essere abituati alle scoperte archeologiche, è sempre emozionante la notizia di un nuovo rinvenimento che restituisce, a volte anche casualmente, frammenti del nostro passato, avvalorando l’idea che sotto le città sia ancora sepolto il più grande museo archeologico del mondo. Alcune scoperte “casuali” sono dovute in realtà alla prassi dell’archeologia preventiva, portata avanti dallo Stato ogni volta che si fa un lavoro pubblico, proprio per cercare di salvaguardare quello che c’è sotto i nostri piedi.
È quanto è successo a Frosinone, dove nel marzo 2021 gli archeologi della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone e Latina hanno individuato i resti di un edificio termale di epoca romana, nel corso di saggi archeologici preventivi al rifacimento dell’impianto fognario in località Ponte della Fontana, presso la sponda destra del fiume Cosa. L’importante ritrovamento è stato presentato alla stampa lo scorso 9 aprile dalla Soprintendente Paola Refice, dal sindaco di Frosinone Nicola Ottaviani e dalla funzionaria archeologa Daniela Quadrino (foto 1).
La scoperta, avvenuta a poche decine di centimetri dall’attuale piano di calpestio, consente di fare nuova luce sulla storia ancora poco conosciuta di Frusino, la Frosinone romana. L’ubicazione del sito, attualmente accessibile da via di S. Giuseppe – strada che ricalca forse una viabilità precedente -, consente di confermare la frequentazione della sponda destra del fiume Cosa in epoca romana imperiale, probabilmente da mettere in relazione con il rinnovamento urbanistico della città in tale periodo (foto 2).
Come ha precisato Daniela Quadrino, sono stati individuati due-tre ambienti di un edificio termale, che proseguono nella parte ancora non scavata. In particolare è stato rinvenuto un grande ambiente pavimentato a mosaico che dà accesso a una vasca. Si pensa che si tratti del frigidarium, visto che non sono stati evidenziati tubi di riscaldamento (foto 3).
Il mosaico bicromo (II secolo d.C., probabilmente di età adrianea), che si è conservato in maniera frammentaria per colpa di lavori di aratura fatti nel passato, mostra una raffigurazione tipica degli ambienti termali, ovvero una “teoria di animali marini e di un tiaso marino” e in particolare un bue marino, del quale manca la terminazione a coda serpentiforme, e un ippocampo, del quale manca la testa, sormontato dalla figura di Tritone che suona una tromba di conchiglia (foto 4, 5 e 6).
Code squamate sembrano pertinenti ad altre figure parzialmente ricoperte di calcare. Il mosaico trova confronti iconografici nella vicina Supino (foto 7) e affinità stilistiche in alcuni mosaici ostiensi come quelli delle Terme di Nettuno.
Tre gradini danno accesso alla vasca quadrangolare, realizzata in opera laterizia e reticolata, che in origine doveva essere rivestita di lastre marmoree, come si presume dal rinvenimento di grappe di bronzo e dai residui marmorei (foto 8 e 9).
Sotto vi era una malta cementizia a base fittile. Presentava un’abside sul lato ovest, di cui rimangono tracce del rivestimento marmoreo: da qui potevano scaturire dei giochi d’acqua, come ha ipotizzato l’archeologo Davide Pagliarosi, coordinatore dei lavori di scavo, nella visita guidata seguita alla conferenza stampa.
Anche la vasca era pavimentata a mosaico, che doveva essere tutto bianco.
Le indagini sono solo all’inizio, ma si può presumere che la struttura si sviluppasse con orientamento est-ovest. Ampliando lo scavo è stato individuato un altro ambiente, purtroppo distrutto nella parte pavimentale, la cui soglia presenta un cardine con un’incamiciatura fatta col piombo, probabilmente a seguito dell’usura causata dalla porta.
Non appaiono motivi figurati, ma solo una fascia nera di contorno. Parte della distruzione di quest’ambiente è stata determinata dal passaggio del fiume, che molto probabilmente tra l’epoca antica e quella moderna ha cambiato il suo corso di qualche decina di metri, venendo a lambire questa sponda di arenaria dove c’era l’impianto termale (foto 10).
Un altro dato acquisito è la frequentazione del complesso in epoca successiva alla sua realizzazione, per via del ritrovamento di monete di Diocleziano e di una del IV secolo: frequentazione che coincide con quella delle altre terme rinvenute nel 2007 nella stessa Frosinone, risalenti alla fine del III secolo. Evidentemente, come ha evidenziato la Quadrino, “vi era la necessità di due complessi termali a breve distanza, probabilmente entrambi a valenza pubblica”.
È presto per dire se si trattava di una committenza imperiale, come spesso accadeva per questi impianti costosi, che avevano bisogno di un notevole approvvigionamento idrico (nel territorio vi sono resti di un acquedotto) e di legna, che veniva trasportata per via fluviale. In effetti il percorso del fiume Cosa era determinante per lo sviluppo sociale ed economico di Frusino, che costituiva un importante centro della periferia imperiale romana, non lontano dalla confluenza del Cosa con il Sacco, un corso d’acqua una volta navigabile fino a Colleferro (foto 11).
La città, che in origine era volsca, sorge al confine tra il territorio dei Volsci con quello ernico. Dopo aver aderito alla lega ernica ribelle a Roma, nel 306 venne saccheggiata dai Romani e ridotta a prefettura, per diventare in seguito municipio e forse colonia militare. Definita da Silio Italico Bellator Frusino, per aver combattuto contro Annibale, viene menzionata da scrittori greci e latini per l’operosità dei suoi abitanti come lavoratori agricoli.
L’espansione urbanistica che ha interessato i quartieri di Frosinone sorti negli ultimi decenni – la “città bassa” contrapposta al centro storico sviluppato in altura -, ha consentito di rinvenire numerose testimonianze di insediamenti antichi, che sopravvivono tra le stratificazioni degli edifici moderni.
Tra i luoghi di interesse archeologico oggetto di futura auspicabile valorizzazione è compresa l’area suburbana di Ponte del Rio, nei pressi della rotatoria all’incrocio tra via Casilina e via Monti Lepini, che conserva i resti di un monumento funerario di epoca romana in travertino e cementizio e di una calcara circolare, posti ai due lati del tracciato stradale glareato (ovvero a ciottoli calcarei) della via Latina (foto 12, 13 e 14).
Il percorso della strada consolare verso la città costeggia l’area archeologica in località De Mattheis, nei pressi della villa comunale, con interessanti resti di epoca protostorica (cosiddetto villaggio volsco) e romana (rampa basolata e terme di età imperiale, forse parte di una mansio, cioè una stazione di posta), in parte ricoperti per garantirne la tutela; numerosi sono inoltre i rinvenimenti funerari, individuati in questo settore della città, da via Aldo Moro a piazzale De Mattheis.
Da tale snodo, la via Latina doveva salire verso il centro storico superando il fiume in località Ponte della Fontana e costeggiando l’anfiteatro romano, rinvenuto negli anni Sessanta del secolo scorso su viale Roma, ma purtroppo obliterato da un complesso edilizio, progettato prima del rinvenimento e realizzato in seguito al di sopra nonostante l’importante scoperta (foto15). Le terme romane appena scoperte sul fiume Cosa si pongono a questo punto come “sito collante” strategico delle diverse realtà archeologiche.
La riqualificazione di tali aree con la realizzazione di un percorso archeologico unitario, che includa anche i siti archeologici noti della città alta (area di viale Roma, via Ferrarelli, tomba Sant’Angelo e, naturalmente, il Museo Archeologico di Frosinone, che conserva numerosi reperti provenienti dal territorio), necessita di una progettazione integrata che ne consenta la trasformazione in spazi di unione tra i quartieri, luoghi identitari nei quali i cittadini si riconoscano nella loro storia.
L’importanza dell’esercizio della tutela archeologica preventiva per tutti i lavori a valenza pubblica, anche nelle zone non vincolate, come ha precisato la Soprintendente Paola Refice, è testimoniata a Frosinone dall’eccezionalità dalla rilevanza storica dell’ultima scoperta, il cui progetto di valorizzazione dovrà includere i restauri conservativi delle murature e delle superfici decorate, la realizzazione di coperture e la progettazione ambientale con messa in sicurezza degli argini, anche al fine dell’inserimento dell’area nel futuro Parco urbano del Fiume Cosa.
Nica FIORI Roma 11 aprile 2021