di Sergio ROSSI
Struttura e sovrastruttura negli scritti di estetica di Mario Rossi
Tra gli effetti più paradossali ma meno indagati del Coronavirus vi è stato quello di riportare in auge uno degli assiomi fondamentali del pensiero marxiano: «Da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni». Infatti non è forse proprio tale assunto alla base della filosofia stessa del Recovery fund? Questo non significa certo che Angela Merkel e Ursula von der Leyen siano diventate marxiste; ma che in un momento di crisi come l’attuale certi aspetti meno caduchi e direi universali degli scritti del grande filosofo di Treviri, cacciati dalla porta stiano rientrando non dalla finestra ma dal portone, è un dato indubitabile e che non può stupire chi come me Marx lo ha, a suo tempo, studiato sul serio e non per sentito dire.
Naturalmente nel rileggerlo molte delle mie convinzioni giovanili sono mutate e così, pur con i dovuti distinguo, sono oggi in grado di comprendere perfettamente quanto sostenuto da Arnold Hauser nel 1974 nel suo fondamentale Soziologie der Kunst [1] quando scrive di distinguere
«tra un marxismo teoretico e uno politico, in contrapposizione con la ortodossa unicità dei principi e della prassi nel senso della dottrina enunciata da Marx stesso. Rientra nei fondamenti della conoscenza così sviluppata il principio apparentemente eretico che ci si può professare marxisti nel senso di condividere questa filosofia come filosofia della storia e della società, senza essere un marxista dal punto di vista politico-attivista, anzi senza essere un socialista nel significato più ristretto del termine, e che l’interpretazione teoretica del punto di vista ha addirittura il vantaggio di liberare il pensiero marxista dalla zavorra metafisica che è legata con la prognosi della società senza classi».[2]
Alla unicità del pensiero marxiano credeva invece Mario Rossi, il filosofo prematuramente ed improvvisamente scomparso a soli sessantuno anni nel 1978, quando era nel pieno del suo fervore creativo, di cui Romeo Bufalo ha raccolto con intelligenza e con “la stima e la riconoscenza” di allievo questi Scritti di estetica e di filosofia dell’arte da poco usciti pei tipi di Aracne editrice.[3] Sono pagine, come scrive proprio Bufalo nella sua Prefazione che è un vero e proprio denso saggio di estetica, apparentemente “spaesanti” «perché si situano in un universo di discorso in cui, invece che di ontologia e di ermeneutica dell’opera d’arte, o del suo carattere più o meno disvelante-veritativo, si parla di ‘contenuti’ e ‘forme’ delle produzioni artistiche (e dei loro storici contrasti) e, da una prospettiva marxista, si considera l’arte in genere come uno degli ambiti ‘sovrastrutturali’ di produzione in cui gli uomini elaborano ‘operativamente’ ipotesi di soluzioni di problemi che riguardano la ‘struttura’, ossia le vicende della loro vita; allo stesso modo in cui, per Aristotele, la composizione tragica imita il ‘fine della vita’, ossia la felicità o l’infelicità dell’uomo, come Rossi sottolinea in apertura del saggio sulla Poetica aristotelica qui riproposto».[4]
Ma lo ‘spaesamento’, come osserva ancora Bufalo, lascia subito il posto all’interesse ed alla consapevolezza di trovarsi di fronte a scritti di grande attualità e stimolo intellettuale, che, pur attraversando un arco di tempo di oltre un ventennio, vanno letti come capitoli di un unico volume che, come vedremo, fa del “realismo operativo” il suo collante teorico.
Per Rossi infatti occorre fornirsi di strumenti di analisi che recuperino sempre più rigorosamente la dimensione storica e sociale dell’estetica e della storia delle arti, perché se dobbiamo conoscere (e nel caso specifico degli storici dell’arte) restaurare e tutelare le testimonianze del nostro passato, dobbiamo farlo essendo ben consapevoli dei radicamenti sociali che esse avevano avuto nell’epoca in cui erano state prodotte e di cui si sono comunque riempite nel corso del tempo, altrimenti corriamo il rischio di conservare solo brandelli inutili di un passato che non ci può riguardare, perché tutto diventa una melassa indistinta da cui estrarre “fior da fiore” ciò che è “poesia” da ciò che non le è, secondo la nota (e ahimé mai tramontata) definizione crociana.
In quest’ottica, uno dei contributi più attuali e stimolanti del pensiero di Mario Rossi consiste nel recupero, in una chiave attuale e con i dovuti aggiustamenti, della vecchia distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura, riletta in chiave dialettica di reciproco condizionamento e non di semplice ‘rispecchiamento’; in altri termini sono anche l’arte e la filosofia che in taluni casi modificano la stessa base sociale che le ha determinate e che esse non si limitano a ‘rispecchiare’. «Il senso conclusivo di questo collegamento è che, da un lato, il contenuto dell’opera sovrastrutturale, nel nostro caso della produzione artistica, rivela presto o tardi una sua inerenza alla sfera della struttura della stessa epoca storica, ai suoi problemi e alle sue contraddizioni; e dall’altro, che il modo in cui le energie produttive vengono in contrasto con le forme di comunicazione, realizzazione e composizione rivela anch’essa affinità e rapporti d’interdipendenza con il modo in cui le forze produttive strutturali dello stesso periodo storico sono venute in contrasto con le forme di relazioni che in prima istanza le inquadravano … Si dovrà dunque tener presente, da un lato, l’aspetto onde la significanza d’un elemento formale è orientata ai contenuti che urgono alla comunicazione e alla realizzazione e, dall’altro, quello onde la manifestazione culturale di cui trattasi, nel suo ricambio con la struttura e nella sua inerenza alla storia che è una sola, viene condotta all’emergenza di contrasti estremamente specificati in sede tecnica e, ad esempio, linguistica, che non devono essere considerati come puramente formali e distaccati dal contenuto, ma contemporaneamente debbono essere anche individuati e seguiti nella loro sede propria, e non interpretati frettolosamente sostituendovi immediatamente i loro significati contenutistici. Quanto poi al rapporto tra forze di produzione e forme di relazione sarà da concludersi che lo stesso ampliamento del concetto di produzione a tutti gli ambiti strutturali e sovrastrutturali deve valere ovviamente per le forze produttive ma anche per le forme di relazioni, dato che, in definitiva, il rapporto dialettico di forze e forme riguarda tutti gli ambiti produttivi e, soprattutto, la loro costituzione a totalità che sola rende possibile di tracciare i contorni di un’epoca storica».[5] La produzione economica impegna infatti l’uomo «come soggetto di energie produttive e pertanto coinvolge tutte le sue facoltà e potenzialità essenziali: pensiero, linguaggio, sensibilità, volontà, capacità operative, sentimento, memoria, immaginazione, ecc.»[6].
Dunque la struttura sociale che permea la nostra civiltà e che è direttamente intenzionata ai bisogni della produzione economica, ingloba già al suo interno una serie di fattori che sono propri della componente sovrastrutturale. Quest’ultima poi non va intesa come un qualcosa di più nobile o di più elevato della struttura, ma piuttosto come un secondo ordine di ambiti produttivi tesi proprio ad individuare i problemi teorici che la base strutturale comporta. Solo che poi questo ordine sovrastrutturale tende ad autonomizzarsi fino a volere spesso una propria vita separata e non comunicante con la struttura stessa. E se da un lato le teorie che si ispiravano al “realismo socialista” intendevano meccanicisticamente la struttura come un semplice specchio o riflesso passivo della base strutturale (senza spiegare poi come questo rispecchiamento si manifesti), dall’altro le teorie idealistiche e spiritualistiche vogliono appunto separare l’arte dalla società che l’ha prodotta. In entrambi i casi si finisce col perdere di vista quel carattere interattivo e di reciproco rapporto tra sfera estetica e sfera contenutistico-sociale che una moderna concezione storiografica non può non fare propria.
Inoltre l’apparente distacco delle produzioni culturali dalla base strutturale dipende anche dal fatto che quest’ultima viene solitamente connessa solo all’ambito della sfera economica e non anche a quello, strettamente connesso, dei rapporti sociali, i quali si estendono alle più essenziali forme di convivenza umana ed ai problemi che esse sollecitano. D’altronde, come non riconoscere, scrivo io oggi, che uno strumento tecnologico, quindi appartenente alla sfera “strutturale” come lo smartphone abbia poi influito sulle nostre forme di relazioni sociali? O, viceversa, non convenire che un elemento certo “sovrastrutturale” in quanto opera filosofica, comunque la si voglia intendere, come il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels abbia poi influito sulla “struttura” politico sociale dei secoli XIX e XX? E lo stesso potrebbe dirsi dei Vangeli, del Corano o delle Tesi di Lutero, specie se considerate alla luce di coloro che se ne sono appropriati abusivamente e ne hanno deformato il senso e le conseguenze, ma che spesso vengono confusi, appositamente e in mala fede, con i prototipi che nulla hanno a che fare con essi. E penso a coloro che ritengono Maometto responsabile dell’undici settembre o Marx delle purghe staliniane. E perché allora non ritenere Gesù Cristo responsabile del Ku Klux Klan?.
Dunque le categorie di sociale ed estetico non vanno considerate come qualcosa di separato o incommensurabile, e neppure derivanti meccanicamente l’una dall’altra, bensì come strettamente interdipendenti. E una volta che si sia riconosciuto il carattere non autonomo e astratto dell’opera d’arte e si sia riconosciuto altresì il suo vivo inserimento nella realtà sociale nella quale è stata prodotta, resterà da analizzare in concreto attraverso quale codice semantico essa è stata realizzata e quali sono le sue specifiche (ma non per questo eterne o irrazionali) qualità estetiche.
Sul rapporto struttura/sovrastruttura, per una via del tutto indipendente da Rossi, Arnold Hauser era giunto a conclusioni non distanti laddove conveniva
«che ogni ideologia e ogni atteggiamento spirituale ideologicamente condizionato ha una fondazione materiale, cioè economica e sociale» sottolineando però «che la struttura su cui poggia la sovrastruttura non consiste unicamente di costituenti materiali e infrapersonali, bensì anche di costituenti spirituali, coscienziali e individuali».
E ancora: «Non tutto ciò che si suole considerare essere materiale, condizione ed esistenza naturale, extracoscienziale, è puramente ‘materiale’, completamente libero da un intervento formativo spirituale, da un’organizzazione sociale, da una preveggenza e prevenzione pianificate. Puramente naturale, perfettamente alieno da significato e interamente spontaneo è soltanto l’istinto a nutrirsi e il suo soddisfacimento immediato, parassitario. Il nudo desiderio e il suo soddisfacimento sono in sé e per sé soltanto stimoli e occasioni per l’operare economico, ma non economia». Ed anche Mario Rossi parla
«della ricchezza quasi inesauribile della determinazione strutturale (economica e sociale) riguardo alla molteplicità degli elementi umani che sono in gioco…La sfera economica non è quella della soddisfazione immediata dei bisogni naturali, ma quella dell’apprestamento, della scelta e della trasformazione operativa (quindi condotta dalla ragione teorico-pratica) dei materiali che al termine del processo produttivo risultano elevati al livello umano dei bisogni che devono servire a soddisfare».[7]
In quest’ottica risulta fondamentale recuperare la storicità dell’arte e della sua storia, come raccomanda anche, per altri versi, G. C. Argan: «occorre curare la storicità più che l’artisticità dell’opera d’arte, e quindi non vederla come testo ma come contesto. Il contesto è articolato, diramato, con alternative di positivo e negativo, ma ha un suo tessuto unitario di cui va curato il rovescio come il diritto, il refe opaco e la seta splendente. Tutto, dunque, va conservato per tutti. Ma non si deve credere che gli storici dell’arte studino e difendano valori che sono diversi da quelli che gli artisti stessi hanno voluto dare al mondo con le loro opere. L’essere punto di un contesto è la qualità stessa dell’opera d’arte: almeno è tale nella concezione moderna dell’arte, nella socialità costituzionale, nell’intenzionalità degli artisti».[8]
La vera novità del pensiero di Rossi rispetto a quello di Hauser, Argan e del suo stesso maestro Galvano della Volpe consiste però nel fatto che costoro, sia pure con tutti gli aggiustamenti del caso, non hanno saputo o potuto cancellare del tutto la matrice idealistica da cui erano partiti e che invece nel nostro filosofo è ed è sempre stata completamente assente. Più specificatamente, e per dirla con Romeo Bufalo «tale novità si può fissare soprattutto in due punti. Il primo consiste nella proposta di estendere il paradigma marxiano della relazione dialettica struttura/sovrastruttura a ciascun ambito sovrastrutturale di produzione; dunque anche al cosiddetto mondo dell’arte. Su questa base la storia delle arti appare caratterizzata da continue tensioni problematiche tra piano dei contenuti ed esigenze delle forme, che spesso si risolvono in rivoluzioni artistiche che lacerano il vecchio tessuto formale che le caratterizzava e procedono all’individuazione di un nuovo involucro, proprio come avviene nell’ambito della produzione strutturale tra forze materiali produttive e rapporti di produzione, i cui conflitti storici sono all’origine delle rivoluzioni sociali … Il secondo punto di novità del realismo operativo consiste nell’importanza che Rossi attribuisce alle forme artistiche rispetto ai contenuti, in quanto è proprio alla specificità tecnico-formale delle opere d’arte che è affidato quel potere di controcondizionamento dialettico (o effetto di ritorno) esercitato dalla sovrastruttura sulla struttura, come una lettura non meccanicistica e non deterministica di Marx gli suggeriva».[9]
Tradotto in altri termini, quanto sono più ‘rivoluzionarie’ le opere di Kasimir Malevich (che tra l’altro sarebbe improprio definire astratte perché sono in realtà piene di figure che però mirano a cogliere l’essenza stessa dell’umanità filtrata nella sua purezza assoluta, e penso a capolavori come Casa rossa, Presentimento complesso, Cavalleria rossa, tutti del ’32), più rivoluzionarie dicevo della goffa e volgare retorica dei muscolosi operai di Kuzma Petrov-Vodkin o dei giovani membri del komsol militarizzato, ridicole marionette, di Aleksandr Samochalov, o ancora nelle statue grondanti del peggiore “realismo socialista” della premiatissima Vera Muchina, come L’operaio e la kolkhoziana del 1936.
Mentre, sempre a proposito di come la sovrastruttura possa controinfluenzare la struttura economica di un’intera epoca e andando indietro nel tempo fino alle origini stesse del Rinascimento quattrocentesco ecco come, giusta l’intuizione di M. Baxandall [10], la scoperta della prospettiva e la sostituzione dei fondi d’oro con i paesaggi o le vedute urbane operata dai pittori più innovativi, da Masaccio in poi, ha determinato la scomparsa, progressiva ma inesorabile di una intera categoria professionale, quella dei “battiloro”.
Proprio in quest’epoca post-moderna di pensieri deboli e ideologie declinanti, la riproposizione di questi scritti di Mario Rossi che restituiscono un ruolo centrale ad una moderna storia sociale delle arti, considerandola uno strumento fondamentale di indagine storico-critica può apparire una provocazione ed è invece a mio parere un merito indiscutibile che va attribuito a Romeo Bufalo.
Mario Rossi è stato anche un padre indimenticabile, mio padre, e per concludere voglio riproporre l’incipit della Premessa al primo libro da me pubblicato nel 1980 per Feltrinelli: Dalle botteghe alle Accademie. Realtà sociale e teorie artistiche a Firenze dal XIV al XVI secolo, che così recita: «Prima di accingermi a scrivere questa pagina di premessa avevo avuto con mio padre un lungo colloquio sull’opportunità di precisare meglio le finalità del mio lavoro. Ma pochi giorni dopo questo incontro mio padre, improvvisamente, moriva e adesso questa presentazione assume il valore straziante di un omaggio postumo: questo libro è dedicato a lui che, pur nella diversità delle discipline adottate, è stato il mio autentico maestro».
Sergio ROSSI Roma 4 ottobre 2020
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