di Antonello ZONI
Risalendo la val Trebbia verso Bobbio pochi mesi dopo la morte di mio padre mi chiedevo quali fossero il suoi pensieri mentre in un autunno simile di 50 anni prima, percorreva, giovane insegnante, le stesse strade dell’appennino piacentino.
Abbandonata Milano ed laboratori culturali del Brera, percorribili solo con compromessi politici che Zoni non volle accettare, iniziava a Bobbio sede del suo primo incarico, un percorso che lo portava a Parma al termine della guerra, con la moglie Angela sposata a Castel San Giovanni e la figlia Lina nata nel frattempo.
Chissà se quel giorno mentre percorreva a piedi l’ultimo tratto di strada battuta che portava alla scuola, Bruno Zoni fosse consapevole che in quella scelta etica, preferita alla razionale costruzione della carriera, era già contenuto gran parte di quanto avrebbe trasmesso ai propri figli.
Ho spesso sottolineato quanto possa essere insidiosa la memoria dei figli, la mia in particolare che come medico vivo molto lontano dalla vita attiva dell’arte. I figli sono prevalentemente portatori di patrimonio genetico: ricordano i propri genitori a chi li conosceva, ma al di là di queste ovvietà biologiche e delle riflessioni letterarie che se ne possono derivare, non sono necessariamente depositari di memorie particolari.
Come esempio di questo ho già utilizzato un breve scritto di Borges in cui il protagonista, un medico, dopo aver ricevuto gratuitamente, con una semplice accettazione verbale , la memoria di Shakespeare, se ne libera telefonicamente in breve tempo, per il peso che la sovrapposizione della sua memoria e di quella del grande scrittore comportava e per la irrilevanza degli eventi quotidiani che contemplare una biografia non poteva trasformare in scritti e personaggi frutto della visione e non delle giornate di Shakespeare.
La memoria poi è uno strano fenomeno della mente in cui tutte le cose vogliono perseverare nel loro essere, così che per quel gioco curioso del divenire il cui gli uomini sono stati gettati, il passato non scompare nel tempo ma cammina al nostro fianco e si completa nel presente.
In questo modo sono emerse dal passato le figure degli artisti con cui mio padre discuteva per ore nelle estati di Forte dei Marmi portando con sé un bambino annoiato. Quando ebbi realmente desiderio di conoscerli, Raffele de Grada era già morto e con Achille Funi suo insegnante a Brera non vi erano più rapporti molto frequenti. Li conobbi, come tanti altri pittori suoi amici, attraverso il loro dipinti che a volte mio padre commentava in mia presenza mescolando fatti personali e vicende artistiche in quell’ intreccio affascinante che è concesso a chi ha vissuto la Storia.
Ricordavamo alcuni mesi fa con Raffaellino De Grada un premio di pittura a Forte dei Marmi in cui la commissione giudicante era composta dai De Grada padre e figlio da Montale e da Zoni. Passai un giorno terribile in parte sotto il tavolo della commissione in parte sulle ginocchia di Raffaellino De Grada. Era l’estate del ’53, credo, ed io avevo cinque anni; di questi eventi sono rimasti una locandina ed il ricordo di una accesa discussione di cui non potevo comprendere il significato. Anche Renato Birolli, amico personale di Bruno Zoni, scomparve prima che potessi averne un ricordo solido. Me ne rammaricavo con mio padre mentre salivamo faticosamente in un’estate dei primi anni ’60 verso il santuario di Montenero sopra Riomaggiore.
“Cosa ti importa?” mi rispose “ probabilmente non ti sarebbe nemmeno piaciuto; e poi guardati intorno, i suoi quadri sono la stessa cosa anzi meglio”.
In effetti le viti basse delle Cinque Terre, i profumi delle notti mediterranee e la costa ligure vista dalla sua casa, alta sopra Manarola, erano già Liguria e Birolli, così come Donne di Varsavia o i paesaggi di Imbersago erano più Morlotti di quanto non sia stato fisicamente quello di Bordighera con cui mio padre si incontrava spesso nelle estati dei loro ultimi anni di vita.
Di quella generazione, degli amici di Corrente a cui tuttavia Zoni non volle mai aderire ritenedolo una limitazione alla libertà del suo spirito, di quella intensa stagione culturale, rimane nella mia memoria la loro visione del Mondo. Furono uomini romantici come lo fu Turner che mio padre amava profondamente. Come già gli antichi Greci soffrirono la tragica imprevedibilità del divenire, ma mentre quei lontani amici vedevano intorno a sé soltanto il Nulla da cui le cose provengono ed in cui in ogni momento ritornano, questi nostri artisti dando spirito nei loro dipinti alle cose sensibili, suggerirono una possibile cifra dell’interpretazione unitaria del Mondo. Così fu il loro espressionismo, e così fu l’espressionismo padano di mio padre: tragico ed infiammato ; consapevole della caducità degli enti e dell’ Uomo in particolare “primo fra gli enti”, ma convinto anche che la luce dell’Essere brilla nel fondo delle cose per indicare a noi l’infinita via della trascendenza. Né Hewett Packard né Siemens né General Electrics, padroni del nostro futuro potranno mai farlo: lo so ben io che di loro sono un moderno soldato, funzionario della specie: contra mortem miles.
La cultura della nostra città non era preparata a queste “forti emozioni”. Rimase poco adatta a Bruno Zoni così come non accolse, vantandosene, il linguaggio dei poeti ermetici e la loro parola carica della storia umana. Preferì la grazia affettiva del suo piccolo mondo del suo modesto e cortese provincialismo, il breve respiro della sua pittura decorativa e dei confini privati dei sentimenti che ha difeso con crudeltà sino ai nostri giorni.
Bruno Zoni soffrì per questa ostilità e non bastarono la consapevolezza della propria arte né le sferzanti parole del suo Cèline contro questo mondo di “privatissime pene” a restituirgli serenità. La gente sì, gli fu vicina e quando nel 1987 grazie alla intelligenza ed alla lungimiranza dell’Assessorato e della Soprintendenza ai Beni artistici della nostra città e della Cassa di Risparmio, fu allestita al teatro Farnese la prima mostra antologica a lui dedicata, ottomila visitatori passarono in silenzio in quei due mesi davanti ai quadri del loro pittore.
Si è detto spesso del suo carattere aspro: non è vero. Zoni fu un uomo buono ma anche giusto ed orgoglioso e per questo inadatto a genuflessioni, anticamere, compromessi ed intrighi. Non deve stupire, perché già ai tempi del Console Emilio Lepido che attraversava queste terre per costruire la strada che ancor oggi porta a Piacenza e poi a Milano, gli antichi romani ci consideravano gli orgogliosi uomini delle nebbie. Siamo ancora noi: nemmeno trenta vecchi che si tengano per mano nel tempo sono necessari per giungere sino a quegli uomini che ci sembrano così lontani: un’inezia per alcune specie animali. Per questo non mi ha mai sorpreso che Bruno Zoni nato duemila anni dopo lungo le rive del Po il giorno di S. Stefano del 1911, preferisse, al termine di una giornata onesta, guardare il fuoco come un contadino dell’Antelami o di Cesare Pavese piuttosto che passare le serate nei salotti. Pagò a caro prezzo questa sua onestà.
Ho di fronte a me l’immagine di mio padre che negli ultimi anni di vita, quando il cuore gli impediva di dipingere, passava i pomeriggi seduto dinnanzi ai suoi quadri sfogliandoli come un libro che, credeva, nessuno avrebbe più letto. Mi confortò il fatto che osservando dalle impalcature gli affreschi restaurati del Correggio mi accorsi che anche il grande Antonio Allegri aveva dipinto per sé molte cose che mai nessuno avrebbe potuto vedere da laggiù. Andandomene salutai per nome il pittore come ho sempre fatto con mio padre e con tanti altri artisti che non ho mai conosciuto e che pur essendo scomparsi fisicamente, sono amici del mio tempo presente.
Chi fu Bruno Zoni chi furono quegli artisti? Custodi dell’Essere e sentinelle del nulla ora fantasmi dispersi in aria sottile ? Oppure persistono nell’eternità parmenidea delle nostre memorie, con le orgogliose armi, le bandiere e la polvere di quelle stagioni ?
Pensavo a tutto questo il 10 Agosto mentre ritornavo da Londra dove ero stato avvisato della sua morte improvvisa. Vedevo avvicinarsi dall’aereo, che non aveva mai solcato il cielo di un suo quadro, le nuvole del nostro Paese e di Parma la bella, ed il dolore della sua morte era addolcito dalla speranza che lui fosse in quei cieli che io stavo guardando e che i suoi occhi avevano sempre cercato. Rientrando a vasa verso sera dalla camera mortuaria mentre già splendeva la notte di San Lorenzo, raccolsi nella mente le immagini di lui che avrei sempre voluto portare con me nella memoria. Erano meno di quanto ho descritto in questo mio ricordo, che spero abbia gradito.
Mi rimase l’immagine della sua mano che dipingeva, mano di qualunque pittore di qualunque tempo e quella del suo volto che dai giardini di Borgo Felino osservava il cielo stellato sopra di lui con gli stessi occhi del ragazzo di Bobbio. Quella notte vi lessi anch’io come lui le infinità delle vite e le infinità delle morti. Il 1986 è stato l’anno della cometa di Halley: mi piace pensare che Bruno Zoni se ne sia andato con lei.
Bruno Zoni (Coltaro di Sissa, 1911; Bannone di Traversetolo, 1986)
Antonello ZONI Parma 3 Novembre 2024