di Massimo PULINI
A Stefano Antonio Marchesi
Quando decise di prendere nota delle pitture che nobildonne e gentiluomini di mezza Europa le chiedevano, dunque quando passò dalla formazione alla professione, Elisabetta Sirani era ancora in piena adolescenza, ma nell’atto di registrare i propri successi si celava il bisogno di avere dei testimoni e l’intento era quello di contrastare le dicerie che già stavano circolando sotto i portici di Bologna.
La prima subdola accusa che veniva mossa insinuava non fosse lei, ma il padre Giovanni Andrea, a eseguire quei dipinti, considerati troppo ricchi di talento e di invenzione per essere espressione di una ragazzina. Se le sue firme apposte ai quadri non erano ancora riuscite a far tacere certe malelingue, allora ci voleva un libro di testimonianze dirette, di persone che avevano visto coi loro occhi, meglio ancora se di un rango che si ponesse al di sopra delle chiacchiere da paese.
Nel 1655 e nella sua prima nota, scritta a soli diciassette anni, Elisabetta ricorda che la Marchesa Spada le chiese un dipinto per una congregazione in Parma e quella tavola d’altare doveva raffigurare un San Gregorio Papa con Sant’Ignazio e San Francesco Xaverio.
Di dipinti ne doveva aver già compiuti molti, non si inizia di certo il mestiere con una pala da collocare in chiesa se non si è prima data prova di perizia ed estro, ma fino ad ora di quel primo dipinto ufficiale si erano perse le tracce e dunque non sapevamo quale fosse il livello di qualità e di pensiero artistico messo insieme dalla giovanissima pittrice al suo esordio pubblico. Si poteva intuire che la ‘congregazione’ fosse legata ai gesuiti, data l’effigie dei due santi spagnoli dell’ordine, ma l’indicazione di Parma non aveva dato riscontri nelle ricerche.
È allora nell’ambito di un sistematico lavoro dedicato alla “Nota delle Pitture fatte da me Elisabetta Sirani”, inserita da Carlo Cesare Malvasia nella Felsina Pittrice, che mi è stato possibile identificare quella primizia in un’opera ora conservata a Piacenza, nel convento delle Orsoline, annesso alla chiesa di San Martino in Foro.
Il convento piacentino, sorto solo pochi anni prima, nel 1649, e proprio su modello di quello di Parma, è da sempre legato al mondo gesuita. Si può oltretutto comprendere quanto le due città e i due conventi fossero in stretto rapporto tra loro e nel tempo delle soppressioni napoleoniche sono di certo avvenuti anche spostamenti di arredi e di opere d’arte. La Marchesa citata da Elisabetta va identificata in Maria Veralli (1616 – 1686), che aveva sposato nel 1635 Orazio Spada portandogli in dote il feudo di Castel Viscardo (eletto a marchesato da Papa Urbano VIII). Ebbe ben cinque figli maschi e sette femmine e andrà verificato se qualcuna di queste fosse divenuta una suora Orsolina, in tal caso si potrebbe individuare la più logica ragione della committenza.
È comunque singolare, e allo stesso tempo simbolico, che la Marchesa Veralli Spada si fosse rivolta proprio a una giovane pittrice per ottenere un dipinto da destinare all’ordine femminile dei gesuiti. L’opera si dimostra di elevata qualità, anche senza considerare la precocissima età dell’autrice. La prima considerazione che si può compiere è intorno alla determinata volontà di distinguerne lo stile da quello del padre, che era stato il suo primo maestro. Non si ravvisa nemmeno nulla di apertamente reniano, mentre vi è già dispiegato gran parte dell’alfabeto individuale, accompagnato da una stesura materica e scorrevole che è già tipica dell’autrice e si sofferma sulle diverse consistenze dei tessuti e delle epidermidi.
San Gregorio Magno è assiso nella cattedra papale, visitato come al solito dalla colomba che gli suggerisce all’orecchio parole utili a intonare i canti che precisamente da lui presero il nome di Gregoriani. Due santi spagnoli dell’ordine gesuita gli stanno ai fianchi, uno in piedi e l’altro inginocchiato su di uno scalino, entrambi assorti nella propria contemplazione. Ignazio di Loyola, rivolto al cielo in atto di sussiego e Francesco Saverio figurato mentre medita sul Crocifisso tenuto stretto nelle mani.
Nell’ombroso scenario che avvolge i tre uomini, mirabile appare la vampa cromatica centrale che investe ed esalta la figura del Papa. Quella striscia verticale parte da terra, da un tappeto rosso che si innalza a schienale per perdersi poi in alto, sotto lo sfocato delle prime nubi e a rincalzo dell’anagramma cristologico che traspare in filigrana. Una erubescente strada in salita dunque, che punta dritto verso il divino, si declina di vermigli dorati e sfumature di porpora, di lacche geranio e violetti che dai damaschi echeggiano fino ai soppanni, resi visibili sui risvolti del sontuoso e istoriato piviale di Gregorio.
Entro quella veste liturgica si articola un ulteriore racconto e all’altezza della spalla destra troviamo un San Pietro toccato con una maestria pari a quella di Pierfrancesco Cittadini. Nella fascia che discende sul petto un Sant’Andrea abbracciato alla sua croce e poi ancora più in basso un San Giovanni Evangelista col calice in mano e la serpe che vi si innalza, a ricordo del miracolo di Efesto durante il quale l’Apostolo trasformò il veleno in animale.
Nell’ultimo riquadro dorato del damasco vediamo un San Bartolomeo a braccia conserte, ma con in mano il coltello del proprio martirio. Sull’altra spalla si scorge solo un San Paolo di Tarso armato di spada e di libro. Bellissima l’idea di concepire il pastorale in una sottile croce a tre aste, posta in linea perfettamente parallela allo schienale rosso del papa.
Nel libro delle commissioni ricevute quella pala viene definita “una tavolina”, malgrado le figure siano intere e di una grandezza prossima al naturale, Elisabetta usa un diminutivo perché chiamava tavole le pale più imponenti, ma ai nostri occhi sembra quasi un vezzo di modestia, scelto per non rimarcare troppo ciò che altri avrebbero di certo ostentato.
Si possono instaurare utili confronti tra le fisionomie del San Gregorio Magno e quelle del San Bruno che Elisabetta dipinse nel 1657, due anni dopo, per il padre della Certosa di Bologna o con la pala del San Bernardo Tolomei eseguita dal padre Giovanni Andrea Sirani, che di recente ho ritrovato a Gubbio.
Ma risulta significativa anche la somiglianza con la prima pala d’altare che Ginevra Cantofoli realizzò tre anni dopo, nel 1658. Ginevra Cantofoli fu la più stretta collaboratrice della Sirani, ricordata anche dal Malvasia e di vent’anni più anziana, era stata anche lei allieva di Giovanni Andrea, ma si legò a Elisabetta divenendo l’altro punto di riferimento per quell’Accademia al femminile che nacque nelle stanze di palazzo Sirani a Bologna, tra il 1662 e il 1665.
Solo da poco ho avuto conferma della giusta identificazione di quel San Tommaso da Villanova grazie al riemergere di una acquaforte firmata da Ginevra e datata proprio al 1658.
*Le foto di Elisabetta Sirani sono di Gilberto Urbinati
Massimo PULINI 28 Gennaio 2024