di Mario URSINO
Le vicissitudini delle tavole di Hans Multscher di Vipiteno durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale
La prima volta che vidi le quattro tavole del pittore e scultore tardo-gotico Hans Multscher (1400c.-1467), di cui quest’anno ricorre il cinquecento cinquantesimo dalla sua scomparsa, fu durante una vacanza estiva nel 1970 a Vipiteno. Non avevo ancora completato i miei studi in scienze politiche, subito dopo la laurea in giurisprudenza, e nulla sapevo di questo artista tedesco, il più noto del secolo XV nella comunità dell’Alto Adige. Non sapevo, inoltre, che codeste opere erano ritornate a Vipiteno solo una decina di anni prima, nel 1959, da Firenze, dove erano conservate a Palazzo Vecchio [fig. 1], recuperate nel 1948 da Rodolfo Siviero dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Fu proprio Rodolfo Siviero, tra il 1980 e il 1983, a raccontarmi, nel suo ufficio di Roma in via degli Astalli, a Palazzo Venezia, sede della “Delegazione per le restituzioni” del Ministero degli Affari Esteri, le vicende relative ai suoi più difficili recuperi ed i problemi giuridici connessi, una volta rientrate le opere trafugate in Italia dalla Germania, alla fine del secondo conflitto mondiale. Devo dire che in quegli inizi degli anni Ottanta del Novecento prestavo il mio servizio quale funzionario presso la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Roma, in palazzo Venezia, ma nello stesso tempo frequentavo l’archivio di Siviero per una mia tesina che dovevo presentare alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, alla fine di un noiosissimo corso, per così dire “di formazione”, per pubblici funzionari. Invece frequentavo con molta più passione la scuola di specializzazione di Storia dell’Arte, alla Sapienza, allora diretta da uno dei miei più cari maestri, Maurizio Calvesi.
Nella cosiddetta “Scuola di formazione” (non ricordo se questa fosse la dizione esatta) erano docenti, per la maggior parte, burocrati della Pubblica Amministrazione con i loro inutili frasari che ascoltavo con una indifferenza da rasentare il torpore che, a mala pena, dovevo cercare di dissimulare. In quei mesi, però, due personalità mi tennero desto: il professor Sabino Cassese, autore tra l’altro di un bel testo sulla storia del Ministero dei Beni Culturali, già Ministero per l’Educazione Nazionale, diretto, negli anni del fascismo da uno dei più intelligenti e colti ministri dell’epoca, Giuseppe Bottai (1895-1959), e Rodolfo Siviero che mi attrasse maggiormente, con mia sorpresa, in quella sorta di ateneo burocratico sito a Roma nel quartiere Flaminio; egli era a me già noto per le cronache sul recupero delle opere d’arte dalla Germania e del traffico illecito di opere d’arte rubate dalla malavita organizzata, e anche per le sue abbastanza frequenti presenze in interviste televisive.
Il ministro plenipotenziario Rodolfo Siviero (1911-1983) [fig. 2], viceversa, era completamente sconosciuto a tutti gli altri frequentanti di quella “Scuola Superiore”. Fui quindi l’unico ad intervistarlo e a chiedergli di potermi consentire l’accesso al suo archivio a Roma e a Firenze per la preparazione del mio elaborato da presentare a fine corso. Siviero fu sorpreso e al tempo stesso compiaciuto che un giovane funzionario si interessasse alla storia del suo ufficio. Nacque così un’affettuosa amicizia e Siviero apprezzò molto il mio testo Il recupero delle opere d’arte dopo la Seconda Guerra Mondiale, tanto da volerlo pubblicare a chiusura dell’edizione degli atti dei “Convegni internazionali per la difesa delle opere d’arte appartenenti alle Nazioni e alle fig 2 Religioni” (Firenze, Bonechi Editore, 1981), a cura della prestigiosa fiorentina “Accademia delle Arti del Disegno”, di cui Siviero era il Presidente, e di cui anch’io mi onoro di far parte da quegli anni; e questa purtroppo fu l’ultima testimonianza della sua avventurosa attività iniziata già prima della guerra a seguito della sciagurata alleanza nazista tra il 1936-1937, nel clima dell’Asse. Infatti, lo stanco e affranto ministro scomparve dopo una breve e inesorabile malattia nell’autunno del 1983. Ne fui molto addolorato, anche perché il sodalizio con la sua persona mi aveva fatto sperare di poter continuare a lavorare nel suo ufficio, dove ormai egli era rimasto solo con il suo fedelissimo collaboratore Vincenzo Coltella, un dipendente prestato alla “Delegazione”, da molti anni, dal Ministero per i Beni Culturali. Siviero fece richiesta tramite il Ministero degli Affari Esteri al Ministero per i Beni Culturali, per un mio “distacco” presso la “Delegazione per le Restituzioni” da lui diretta; ma, per ragioni che sono rimaste a me sconosciute, tale “distacco” fu negato; all’epoca mi fu detto per l’opposizione delle sigle sindacali del mio ministero di appartenenza, forse, ipotizzo, poiché non sono mai stato iscritto a nessuna di quelle tre sigle che allora imperavano nella pubblica amministrazione.
Dicevo più sopra delle mie frequentazioni con Siviero tra il 1980 e il 1983 con il desiderio di aiutarlo nel suo lavoro, per le mie competenze sia in diritto internazionale che in storia dell’arte. Ma il destino agì diversamente, e l’unica cosa che ho potuto fare orgogliosamente per lui, un anno dopo la sua scomparsa, è stata la cura delle sue memorie L’arte e il nazismo, edito a Firenze per la “Cantini Edizioni d’Arte” nel 1984 [fig. 3], memorie che vedevo sul suo scrittoio e su cui lavorava giorno dopo giorno per consegnarlo alle stampe e che purtroppo non ha fatto in tempo a vedere pubblicate.
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Questa forse un po’ lunga premessa autobiografica si è resa necessaria per la narrazione delle vicende legate alle tavole del Multscher di cui Siviero mi parlò più volte, con una certa indignazione per l’amarezza che aveva provato allorquando dette opere furono prelevate da Firenze per una mostra dedicata all’artista tedesco a Vipiteno nel 1959, in occasione dei cinquecento anni dalla ultimazione delle tavole, commissionate dai cittadini di questa località altoatesina e mai più ritornate a Firenze. Perché dovevano tornare a Firenze è presto detto. Le tavole in questione erano parte di un gruppo più ampio di 141 recuperi di opere già notificate appartenenti a enti o a privati e che secondo una legge che fu emanata ad hoc, ora appartenevano allo Stato Italiano, conservate rigorosamente dal comune di Firenze dove erano state riunite e restaurate, dopo aver accertato l’illegale alienazione compiuta dai loro proprietari, spesso, a onor del vero, costretti dall’intervento diretto di Mussolini e Ciano a favore di Hitler e di altri gerarchi nazisti, che sceglievano impunemente le opere che erano oggetto della loro cupidigia, e tra queste appunto le tavole del Multscher, desiderate dal potente maresciallo del Reich, Hermann Goering, [fig. 4];
all’epoca i proprietari, ovvero il Comune di Vipiteno, le avevano alienate (sia pure forzosamente) a titolo oneroso nonostante la loro importanza storica-artistica e perciò per definizione inesportabili.
Di fronte ad una tale situazione, persino il Ministro per l’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, che tentò sempre di contrastare l’uscita dall’Italia di codeste opere, nulla poté contro la volontà di Mussolini e Ciano. Mi corre l’obbligo di ricordare, a questo punto, che l’esportazione era avvenuta, come più volte mi sottolineò Siviero, in violazione contemporanea di due leggi dello Stato Italiano sulla protezione e tutela del patrimonio artistico della Nazione: quella del 1°giugno 1939, n. 1089, (dunque poco prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale), e quella del 14 gennaio 1950, n. 77 (promossa proprio da Siviero) che così recitava all’art. 1: “Le opere di interesse artistico, storico […] trasferite in proprietà a qualsiasi titolo allo Stato Germanico, a personalità politiche del regime nazista […] sono acquisite al patrimonio artistico, storico e bibliografico dello Stato e conservato in musei o biblioteche pubbliche.” Inoltre la suddetta legge all’art. 2 precisava opportunamente:”Non è ammessa azione per la rivendica o per perseguire eventuali indennizzi, da parte degli Enti, degli Istituti Pubblici, o dei privati, che avevano effettuato a qualsiasi titolo, la cessione di opere di cui all’art. precedente, a favore di autorità o dei sudditi germanici.”
Le tavole del Multscher rientravano sicuramente in questa fattispecie, poiché, sosteneva Siviero, con gran risentimento, il Comune di Vipiteno aveva violato due volte la legislazione italiana, quella del 1939, e quella del 1950, avendo incassato per la cessione, sia pure forzosamente, un cospicuo indennizzo per quelle opere di cui era proprietario dal secolo XV. Invece, col pretesto della mostra da dedicare al maestro tedesco nel 1959, furono prelevate a Firenze, fra molte proteste e inutili resistenze, e mai più restituite a Palazzo Vecchio.
Oggi le quattro pregevoli tavole hanno trovato la loro sede definitiva nel Museo cittadino dedicato al Multscher [fig. 5], presso la ex sede della “Commenda dell’Ordine Teutonico”, antica istituzione dei cavalieri ospitalieri [fig. 6].
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Dopo molti anni da quella mia prima visita nelle sale del Comune di Vipiteno, dove allora erano esposte dette opere, nell’estate appena trascorsa, sono ritornato in vacanza nella ridente cittadina dell’Alto Adige, sita nella bella valle dell’Isarco, e ho potuto rivedere quelle splendide tavole, dipinte fronte-retro con alcune Storie della Vita di Maria da un lato, e alcune Storie della Passione di Cristo dall’altro, devo dire adeguatamente esposte. E proprio in questa occasionale, ma in un certo senso prevista visita, sono venuto a conoscenza di altri risvolti storici legati alla rivendicazione di codeste opere da parte del Comune di Vipiteno nell’immediato dopoguerra fino alla fine degli anni Cinquanta.
Il compianto Siviero mi aveva narrato la storia delle tavole del Multscher amaramente, come dicevo, ma oggi suppongo, per un motivo che, per estrema ed elegante riservatezza non mi aveva confessato: egli, che aveva rischiato più volte la vita prima, durante e anche dopo la guerra per recuperare al patrimonio italiano le opere razziate dai nazisti e dalla criminalità organizzata, aveva un acerrimo nemico, uno stimato storico dell’arte, che è stato Soprintendente alle Gallerie di Trento e Bolzano fino al 1974, Nicolò Rasmo (1909-1986).
Ebbene questo certamente abilissimo studioso (soprattutto della sua regione) nutriva un’avversione senza limite nei confronti di Rodolfo Siviero che ovviamente sosteneva la legittimità dell’esproprio delle opere del Multscher, in base ad un principio largamente condiviso sia dal Governo Alleato, sia da illustri storici dell’arte del tempo, da Roberto Longhi a Giulio Carlo Argan.
Tornando alla mia recente visita al Museo Multscher, sono venuto in possesso di un volume, cortesemente fornitomi dalla Biblioteca dell’Ufficio Servizi Museali e Storico-Artistici di Bolzano (che qui ringrazio), degli “Atti del Convegno di Studi. Per l’arte, Nicolò Rasmo (1909-1986)” [fig. 7], tenuto il 4 maggio del 2007, a cura di Silvia Spada Pintarelli, con notevoli contributi di vari studiosi, sul tema Nicolò Rasmo e la tutela del patrimonio culturale in Trentino e Alto Adige.
In questo interessante documento, a me fino ad oggi non noto, si trova l’accurato saggio di Paola Bassetti, Il caso Multscher-Siviero. Il difficile recupero delle tavole di Vipiteno (cfr. pp. 195-233), ricco di documentazione fotografica, delle fonti consultate e di puntuali note bibliografiche (riferite anche alla mia curatela delle memorie di Siviero edite nel 1984, cfr. p. 212). E in queste pagine della studiosa leggo, devo dire con un certo disagio, quasi con malessere, i documenti e le lettere nelle quali il Rasmo, senza remore per l’esplicito linguaggio, disprezzava la figura e l’opera di Rodolfo Siviero.
Del resto, nel suo saggio la studiosa premette che “È inevitabile pertanto porre la questione anche con i sospesi rimasti, o i dubbi non del tutto chiariti, per assenza di documenti, o contraddittorietà insita in essi”. Quindi passa in rassegna quella documentazione che è conservata nella Fondazione Rasmo-Zellinger, a Bolzano. La vicenda inizia con una nota della Direzione Generale delle Arti del Ministero dell’Educazione Nazionale, nella quale si legge perentoriamente: “Il Duce ha disposto di far dono al Maresciallo del Reich Eccellenza Goering di alcuni quadri di un pittore tedesco del XVI secolo (sic!, sbagliando, l’artista è del XV secolo, n.d.a.) […] Sembra che siano state svolte in proposito già delle trattative e sia stato concordato anche il prezzo di vendita”! (il punto esclamativo è mio), nota del 13 agosto 1940, n. 615, a firma del Direttore Generale delle Arti, Lazzari. Qui, il firmatario della nota fa presente al Soprintendente alle Gallerie di Trento (dove peraltro già prestava servizio, come Ispettore, il Rasmo) che doveva “l’alienazione e la conseguente esportazione essere autorizzata da questo Ministero…”, (in Bassetti, op. cit., p. 205), senza fare il minimo cenno al fatto che quelle tavole, in base alla legge 1° giugno 1939, n. 1089, erano soggette a vincolo e quindi inesportabili. Due anni più tardi, il Ministro Bottai in persona emana una circolare del 5 marzo 1942, n. 27, ed esordisce con queste parole: “È pervenuta voce a questo ministero che «dai musei e pinacoteche italiani capolavori emigrerebbero in Germania»”, invitando tutti i soprintendenti a “fare indagini per accertare se eventualmente si siano di recente verificate situazioni o manomissioni di opere che siano poi state vendute ed esportate in Germania” (questo documento è riportato da Siviero nel suo L’Arte e il Nazismo (op. cit., pp. 22-23).
Nonostante questo perentorio invito del Ministro Bottai, il 6 aprile 1943, le tavole del Multscher di proprietà del Comune di Vipiteno vengono “donate” da Mussolini a Hermann Goering. Leggiamo ancora nelle memorie di Siviero che “Walter Andreas Hofer, conservatore delle collezioni private di Goering, pensò di far emigrare in Germania, dopo gli optanti alto-atesini anche l’altare del Multscher del comune di Vipiteno. Egli trattò la questione con gli esponenti del luogo e in linea di massima si accordò per tre milioni di lire” (op. cit., p. 23).
Per ottenere il permesso, che veniva giustamente negato dal Ministero dell’Educazione Nazionale, Siviero ci informa che lo stesso Hofer fece pressione sull’ambasciatore italiano a Berlino, Dino Alfieri (1886-1966) affinché intercedesse presso Galeazzo Ciano, facendo presente che “Del resto sembra che siano state svolte in proposito delle trattative e che il prezzo sia stato stabilito” (op. cit., p. 24). Quanto riportato da Siviero è confermato anche nel testo della Bassetti; riassumendo: i tre milioni furono revisionati e portati a 12, e l’accordo definitivo avvenne per 9 milioni: “Di questi 9 milioni, scrive la Bassetti, 8 vengono convertiti d’autorità in vaglia cambiari inalienabili (buoni del tesoro) del Banco di Napoli attraverso la Regia Prefettura…” (in Il caso Multscher-Siviero, cit., p. 199). Ancora la studiosa ci informa che dette opere, prima di essere spedite in Germania erano custodite al Castello del Buonconsiglio a Trento (di cui il direttore era proprio Nicolò Rasmo!, che non risulta si sia opposto, né abbia tentato alcuna resistenza al loro trasferimento in Germania!).
Dunque con che coraggio poté, proprio lui, scagliarsi contro Siviero che, rischiando sempre la pelle, inseguiva le truppe naziste durante la guerra, mentre queste trasferivano verso il nord dell’Italia i capolavori destinati poi alla Germania, per tentare in diversi casi (riusciti) di metterle al sicuro prima ancora di essere trafugate. Non fu forse Rodolfo Siviero a lottare, quale delegato italiano presso il Governo Alleato, per il recupero delle opere rubate al patrimonio artistico italiano, al Collecting Point di Monaco nel 1947? e ad ottenere l’unica modifica al Trattato di Pace proprio di quell’anno, per cui l’Italia, sebbene avesse perso la guerra, era stata ammessa alle restituzione delle sue opere d’arte trafugate copiosamente dai nostri musei di Stato? [fig. 8]. E invece, cosa fa il soprintendente Rasmo? Inizia una vera e propria campagna denigratoria nei confronti di Rodolfo Siviero, come per esempio si legge in una lettera che il Rasmo aveva indirizzato alla nota studiosa e collega Annamaria Brizio (1902-1982), il primo settembre del 1959, definendo il personaggio: “avventuriero pasticcione […] privo di “una linea di condotta logica…” Rasmo non ha voluto capire, o ha fatto finta di ignorare, che Siviero ha rischiato la vita nel suo immane lavoro, e che il suo comportamento non lo si può giudicare con le farraginose regole della burocrazia (e della sua convenienza, nel caso delle tavole del Multscher, rivendicate ora ingiustamente, dopo che lui stesso, come detto più sopra, non risulta abbia mosso un dito, mentre ne era il responsabile custode al Castello del Buonconsiglio, per impedire ai tedeschi di portarle via nel 1943!).
Leggiamo invece le parole di un illustre storico dell’arte, che è stato Soprintendente a Firenze, Ministro per i Beni Culturali, e fino a poco tempo fa, Direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci: ”Siviero è stato oltre le linee durante il periodo della Repubblica Sociale, e con gli Alleati quando il mitico tenente Frederick Hartt cercava di salvaguardare il patrimonio artistico fiorentino e toscano in particolare; dopo la guerra ha trattato un po’ con tutti, dai mafiosi agli ex nazisti, dai profittatori ai partigiani e alleati. Bisognava giocare a tutto campo con molta disinvoltura; solo un uomo come Siviero poteva farlo e i risultati premiarono il suo impegno” (1998, in Bassetti, op. cit., p. 211). E anche Roberto Longhi, ha sempre sostenuto la “illegalità della pretesa avanzata dal comune di Vipiteno di rientrare in godimento delle tavole del Multscher” e che la restituzione sarebbe avvenuta “per mera ignoranza della legge: non osiamo dire in dispregio”. (in Bassetti, op. cit., nota 26, p. 229).
Ma di tutto ciò il Rasmo non ha tenuto conto, o, verosimilmente, ha finto di ignorare, cosicché nel 1959, colse l’occasione per prelevare, le tavole del Multscher per la mostra organizzata a Vipiteno per i Cinquecento Anni dalla esecuzione delle tavole dell’artista tedesco, però con la garanzia sul ritorno a Firenze, come era espressamente previsto dall’obbligo sancito nel “Verbale di Consegna delle tavole di Vipiteno” del 15 settembre 1959, firmato a Firenze dallo stesso Rasmo, laddove era stato dichiarato in termini telegrafici “…il carattere assolutamente temporaneo…” della consegna delle opere al “comitato ordinatore mostra centenario chiesa di Vipiteno (e non alla amministrazione comunale di detta città) circa termine del 31 dicembre 1959 entro il quale le tavole dovranno essere restituite at amministrazione centrale competente…” (documento riprodotto in Bassetti, op. cit., p. 224) [fig. 9].
E invece, questa volta sì “in dispregio” di un così chiaro impegno sottoscritto dallo strenuo avversario di Siviero, le tavole rimarranno nelle sale del Comune di Vipiteno, dove io le vidi per la prima volta nel 1970, come ho già detto all’inizio di questa mia nota evocativa sull’odissea delle tavole del Multscher.
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Dopo molti anni molta acqua è passata sotto i ponti, come si dice comunemente: quelle 141 opere recuperate e conservate, come detto più sopra, a Palazzo Vecchio, ripeto, ormai appartenevano allo Stato Italiano e furono consegnate ufficialmente nel 1952 dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione, Adone Zoli, al Sindaco di Firenze Giorgio La Pira, affinché fossero ivi conservate, e non dovevano essere restituite a coloro, privati o enti pubblici, che le avevano illecitamente alienate a titolo oneroso alla Germania nazista, dovendo costituire, secondo il progetto di Siviero, condiviso dalle autorità fiorentine, una Mostra Permanente a Palazzo Vecchio, in memoria delle opere razziate dai tedeschi con la complicità del governo fascista (con le dovute eccezioni, naturalmente), e dei profittatori che concludevano affari illeciti con i gerarchi nazisti (cfr. M. Ursino, Firenze e le opere d’arte recuperate, in Cantini & C, bimestrale di cultura e informazione, n. 2, Firenze, marzo 1985). Invece le tavole del Multscher, come abbiamo visto, sfuggirono a quest’obbligo, mentre le altre 140 rimasero a Palazzo Vecchio fino al 1984. Dopo la morte di Siviero gli fu dedicata la mostra L’opera recuperata. Omaggio a Rodolfo Siviero [fig. 10],
le opere, schedate e studiate, comprendevano capolavori, come il famoso Discobolo di Mirone (voluto da Hitler) [fig. 11], dipinti di Masaccio, Hans Memling, Tintoretto, Rubens, Tiepolo, etc… (fu esposto persino un frammento della Pietà Rondanini di Michelangelo che Siviero aveva recuperato in Svizzera nel 1976); ma in questa mostra non vennero incluse le tavole del Multscher, rimaste a Vipiteno. Il relativo catalogo, introdotto da un testo inedito di Siviero Esodo e ritorno delle opere d’arte italiane asportate durante la Seconda Guerra Mondiale. Storie note e meno note, vanta testi di Giulio Carlo Argan, Riccardo Monaco, illustre giurista di diritto internazionale, del Colonnello Gerardo De Donno, allora Comandante Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico, e una nota sul restauro di Antonio Paolucci. Dopo questo doveroso omaggio alla memoria di Rodolfo Siviero, tutte le opere sono state distribuite nei vari musei italiani, fra molte polemiche tra le autorità fiorentine e i tenaci sostenitori del loro smembramento (tra cui l’implacabile Federico Zeri che considerava, a mio avviso a torto, che quelle 141 opere non presentavano alcuna unità, mentre erano invece l’espressione del gusto e dell’estetica nazista, oltre che testimonianza storica, come tentai di dimostrare invano nel mio lontano articolo del 1984 più sopra citato). E più recentemente Wanda Lattes, nel suo …e Hitler ordinò: Distruggete Firenze. Breve storia: dell’arte in guerra (1943-1948), Milano 2001, a questo proposito ha scritto: “Per esempio tra Firenze e Roma scoppiò una vera guerra nel 1984, quando la capitale volle portare al suo Museo Nazionale delle Terme il meraviglioso Discobolo attribuito a Mirone che era ancora depositato a Firenze. Fu il primo pezzo arraffato dal Terzo Reich, nel 1938, con la pseudo vendita autorizzata dal ministero italiano della Cultura!” (p. 80); e del Discobolo, ancora mi parlò deluso Siviero, in uno dei nostri ultimi incontri; oggi più semplicemente si legge così nel Catalogo del Museo Nazionale Romano dove è esposto: “La statua è nota col nome Lancellotti, perché fu di proprietà di tale famiglia, nel Palazzo Massimo Lancellotti a Roma; passò nella Gliptoteca di Monaco da cui fu restituita nel 1948” (questa didascalia Siviero me la lesse indignato nel suo ufficio di Via degli Astalli, mostrandomi la pagina del catalogo dove era riprodotta l’opera, senza alcun cenno alla sua opera di recupero). E non c’è bisogno di alcun commento.
E così dette opere vennero dislocate. secondo criteri di provenienza, in diverse pinacoteche pubbliche, quindi, di conseguenza, oggi mi sento di dire che le tavole del Multscher, tutto sommato, stanno bene dove ora si trovano, nel bel museo della ex sede della Commenda dell’Ordine Teutonico, che appartiene dal 1884 alla Fondazione Deutschhaus di Vipiteno (già Fondo dell’Ospedale).
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Breve nota sulle tavole del Multscher
Nel 1456 i cittadini di Vipiteno commissionarono ad Hans Multscher l’altare maggiore per la loro chiesa parrocchiale “Nostra Signora della Palude” [fig. 12] (in antico la Valle dell’Isarco era zona paludosa). La chiesa parrocchiale fu costruita con mandato papale nel 1233. L’attuale chiesa gotica è stata costruita tra il 1417 e il 1451 e modificata tra il 1496 e il 1574. La chiesa ebbe all’origine tra i suoi committenti imprenditori minerari benestanti, denominati Gewerken.
Al Multscher fu ordinato un grande retablo ligneo a sportelli che l’artista portò a compimento nel 1459. Si tratta di un altare gotico a portelle, formato da quattro tavole dipinte fronte-retro con alcune scene della Vita di Maria: L’Annunciazione, Giuseppe, L’Adorazione del bambino (da notare la figura molto realistica di Giuseppe che si asciuga un piede, mentre la Vergine prega davanti al bimbo disteso sulla raggiera, come in una culla), poi si vede L’Adorazione dei Magi, ed infine la commovente Morte di Maria, con il San Giovanni che si copre col manto la bocca per mascherare il grande dolore [fig. 13]. Sul lato opposto Multscher ha dipinto scene della Passione di Cristo: Cristo in preghiera, mentre tre apostoli sono immersi in un sonno profondo, la Flagellazione, il Cristo dileggiato, martoriato e coronato di spine, davanti ad un dignitario, e teste curiose che occhieggiano dalle finestre, la tumultuante Salita al Calvario, dove una figura si fa beffe della Vergine e del San Giovanni addolorati per le sofferenze del Cristo [fig. 14].
Grande realismo fortemente espressivo, dunque, di un artista tardo-gotico che anticipa i temi del Rinascimento che fermentano contemporaneamente in Toscana e in altre regioni italiane. Nella sala del Museo Multscher, dove queste straordinarie tavole sono esposte, ai due lati sono collocate anche due superbe sculture dell’artista tedesco, perfettamente conservate, il San Floriano e il San Giorgio [fig. 15].
L’altare maggiore della Parrocchiale venne smembrato tre secoli dopo, nel 1799, nel corso del rimaneggiamento barocco della Chiesa con l’allontanamento degli altari tardo-gotici. Nell’Ottocento un nuovo rimaneggiamento della Chiesa: l’altare fu rifatto in stile neo-gotico, contenente alcune sculture sempre del Multscher, la Santa Barbara, al centro la Madonna col Bambino, e le Sante Apollonia e Caterina* [fig. 16].
* le notizie storiche sulla Parrocchiale di Vipiteno sono tratte da: Chiese e Cappelle delle parrocchie di Vipiteno, Commenda dell’Ordine Teutonico con il museo Multscher, Kunstverlag – Peda-Passau, 2012
Mario URSINO Roma dicembre 2017