di Sergio ROSSI
Nel suo bel volume, dal titolo perentorio anche se fin troppo definitivo: La Sistina svelata, iconografia di un capolavoro[1], padre Heinrich Pfeiffer offre una lettura nuova, stimolante e per certi versi assolutamente geniale, anche se non completamente condivisibile, dell’intero ciclo di pitture della Cappella Sistina. Io mi sono occupato in particolare dell’analisi che riguarda alcuni aspetti dei dipinti quattrocenteschi[2], concordando pienamente con Pfeiffer laddove egli individua in questi affreschi dei puntuali riferimenti storici alla congiura dei Pazzi, ma con un distinguo ben preciso: questi riferimenti non sono stati inseriti all’insaputa o addirittura contro Sisto IV, come sostiene lo studioso e in maniera ancora più radicale M. Nigro[3], ma dal papa esplicitamente voluti per autoassolversi dall’accusa di complicità nella congiura stessa, presentandosi piuttosto, sulla scia di Niccolò V, come novello Salomon, anzi a questi inferiore per ricchezze ma superiore per religione e devozione, ossia, in definitiva, per misericordia.
Ora, secondo il Nigro, io sosterrei questa mia tesi
«sulla base delle dichiarazioni di Sisto espresse nel contesto degli stessi avvenimenti: “Io non voglio la morte de niun per niente, perché non è offitio nostro acconsentire alla morte de persona; e bene che Lorenzo sia un villano e con noi se porte male, pure io non vorria la morte sua per niente”. Sennonché lo stesso Rossi riconosce, avvedutamente, la difficoltà di appurare se queste parole fossero sincere».
Se però fosse veramente così, se cioè le mie tesi si fondassero solo sulle dichiarazioni del Pontefice, esse sarebbero quanto meno deboli. Ma le mie argomentazioni, come avrebbe dovuto sapere anche il Nigro se avesse letto per intero e con più attenzione i miei scritti sull’argomento, sono in realtà molto più articolate e complesse.
Cominciamo da Lorenzo de’ Medici: tutti gli studiosi sono concordi nel considerare l’invio a Roma dei suoi artisti più fidati per affrescare la Cappella Sistina come una tappa decisiva del riavvicinamento tra Sisto IV e il Magnifico. Dunque, secondo Nigro e Pfeiffer, quest’ultimo sarebbe stato così scriteriato da suggerire (o forse addirittura imporre) al Botticelli di inserire in quegli stessi dipinti che dovevano suggellare la sua riappacificazione col Della Rovere una serie di riferimenti più o meno espliciti al fatto che questi era stato il mandante dell’omicidio del fratello Giuliano e del tentato omicidio di se medesimo; e in aggiunta avrebbe pure preteso di venire raffigurato nell’atto di genuflettersi di fronte al Papa omicida e cioè di apparire agli occhi di tutto il mondo come un vile e un pusillanime. Sisto IV, dal canto suo, lungi dall’essere quel raffinato scrittore, acuto teologo e spregiudicato politico che la storia ci ha tramandato, sarebbe stato tanto ingenuo o malaccorto da non accorgersi che negli affreschi da lui stesso commissionati egli veniva dipinto come uno spietato assassino, o, peggio, una volta accortosene, non avrebbe fatto nulla per cancellare quest’onta.
Per comprendere appieno il senso esatto degli affreschi occorre però innanzi tutto riprendere in breve le vicende politiche che precedettero, e in qualche misura condizionarono, la stesura del ciclo sistino, anche se si tratta in gran parte di avvenimenti ben conosciuti. Nello specifico, l’avvenimento che occorre qui ricordare è quello della congiura dei Pazzi, nella quale uno dei due fratelli de’ Medici, Giuliano, venne assassinato all’interno della cattedrale di Firenze durante una messa solenne, mentre l’altro, Lorenzo, sebbene ferito e coperto di sangue, riuscì a fuggire trovando rifugio in sacrestia. Ed è noto come proprio Sisto IV non fosse estraneo al tentativo di rovesciare la Signoria medicea, anche se egli non poteva certo accettare di essere considerato complice di un tentativo di omicidio compiuto addirittura dentro un luogo sacro.
Ma vediamo ora in sintesi gli antefatti di tutta la vicenda, per la cui completa analisi rimando ancora al testo di Pfeiffer. All’inizio del suo pontificato Sisto IV era in ottimi rapporti con il giovane Lorenzo il Magnifico, tanto da affidare al banco dei Medici le operazioni finanziarie papali e l’appalto per lo sfruttamento delle miniere di allume di Tolfa, che garantiva all’epoca grandissimi guadagni. Ben presto però, per una serie di vicende che non possiamo qui riepilogare, tra cui il tentativo di Lorenzo di impedire al papa di acquisire allo Stato pontificio la città di Imola, i rapporti tra i due si deteriorarono irreparabilmente, tanto che Sisto affidò la cura delle finanze pontificie alla famiglia fiorentina più ostile ai Medici, quella dei Pazzi.
All’inizio del 1478 la situazione precipitò definitivamente, tanto che a Firenze si tramò una congiura con l’obbiettivo di sbarazzarsi dei Medici, capitanata proprio dai Pazzi e dall’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati. Il Papa della Rovere era probabilmente solidale con questa coalizione, ma non certo al punto da avallare un eventuale spargimento di sangue, cosa che invece avvenne puntualmente, esattamente domenica 26 aprile del 1478, quando il cardinale Riario Sansoni, quasi sicuramente all’oscuro di quello che stava per accadere, officiò in S. Maria del Fiore una messa solenne. Alla cerimonia erano presenti i Medici e i congiurati, tra cui due preti ingaggiati come sicari, Stefano da Bagnone e il vicario apostolico Antonio Maffei da Volterra, oltre naturalmente ai capi dei ribelli, Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini. Nel momento in cui il cardinale Riario sollevò l’ostia si consumò il vero e proprio agguato e mentre Giuliano cadeva in un lago di sangue sotto i colpi del Bandini, Lorenzo, accompagnato da Angelo Poliziano e dai suoi scudieri Andrea e Lorenzo Cavalcanti, veniva ferito solo di striscio dai preti prima citati e riusciva a riparare in sacrestia, mettendosi definitivamente in salvo.
Quando Jacopo de’ Pazzi, subito dopo il sanguinoso agguato, arrivò in Piazza della Signoria al grido di “Libertà”, la reazione popolare fu però opposta a quella che lui si attendeva, perché il popolo fiorentino si dimostrò schierato completamente a favore dei Medici e contro i congiurati, che furono tutti catturati e in qualche caso addirittura linciati dalla folla inferocita. Francesco, Jacopo e Renato de’ Pazzi e Francesco Salviati furono impiccati sul momento; mentre i due preti che si erano rivelati degli incapaci sicari vennero catturati pochi giorni dopo e linciati dalla folla prima di essere impiccati in piazza della Signoria ormai tumefatti e senza orecchi. Bernardo Bandini, riuscito a fuggire a Costantinopoli fu catturato e giustiziato anche lui, anche se solo il 29 dicembre del 1479.
Nel frattempo, subito dopo la fallita congiura, anche il cardinale Raffaele Sansoni-Riario, benché non vi fossero prove certe del suo coinvolgimento negli avvenimenti del 26 aprile e benché fosse parente del pontefice, venne arrestato. Per salvare suo nipote, dopo oltre un mese dall’assassinio di Giuliano, il papa inflisse a Lorenzo e a tutti i suoi seguaci la pena della scomunica. Il 12 giugno il cardinale Sansoni-Riario venne rilasciato, ma nonostante questo il 20 giugno Sisto colpì Firenze con l’interdetto. Tutta la vicenda si era comunque risolta in un vero e proprio boomerang per Sisto IV. Lorenzo infatti approfittò della fallita congiura per rafforzare ulteriormente il suo potere a Firenze e sbarazzarsi di tutti i suoi oppositori; ed anche ad un livello più generale, piuttosto che essere isolato il Magnifico ampliò addirittura le sue relazioni politiche, riuscendo a portare dalla sua parte, sul volgere del 1479, il re di Napoli Ferrante, fino ad allora alleato del pontefice.
L’anno seguente però un altro inatteso avvenimento cambiò ulteriormente la situazione della nostra penisola: nell’agosto del 1480, infatti, un esercito ottomano guidato dallo spietato Ahmet Pascià conquistò Otranto uccidendo oltre 800 abitanti maschi della città che si erano rifiutati di rinnegare la religione cristiana; diventava perciò assolutamente auspicabile una riconciliazione tra i fiorentini ed il papa per l’unità interna dell’Italia. I fiorentini, alla fine, si dimostrarono disposti ad accettare alcune condizioni poste dal papa e a chiedere il proscioglimento dell’interdetto: il 25 novembre 1480 giunse, dunque, a Roma un’ambasceria composta da rappresentanti delle famiglie più nobili di Firenze, i quali il 3 dicembre chiesero pubblicamente perdono al papa.[4]
Ebbene, proprio di tutti questi avvenimenti, sia pure in modo traslato e indiretto, potremmo addirittura dire quasi a mo’ di puzzle, vi sono puntuali riferimenti negli affreschi sistini, come andremo adesso a precisare, iniziando dall’affresco botticelliano con le Tentazioni di Cristo: qui notiamo sulla sinistra, in primo piano, tre persone riccamente abbigliate e che parlano tra loro in modo ravvicinato [fig.1].
In particolare quella sull’estrema sinistra tiene in mano un oggetto allungato, che a una più attenta analisi ci appare inconfutabilmente come un pugnale; si tratta di figure assolutamente non pertinenti con la scena rappresentata e cioè con La purificazione del lebbroso e pertanto esse devono alludere a qualcosa di diverso, che molto probabilmente solo in pochi dovevano immediatamente percepire; e questo qualcosa non poteva che essere proprio la congiura dei Pazzi, come da Pfeiffer giustamente intuito.[5] I tre personaggi prima descritti sono dunque, da sinistra a destra, Francesco de’ Pazzi, raffigurato appunto con un pugnale in mano e pronto a colpire; l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati e Jacopo Bracciolini, cioè proprio i tre congiurati che vennero impiccati il giorno stesso della congiura fallita a metà; e vedremo presto in che modo essi si collegano anche al resto della storia.
Per continuare con il nostro racconto dobbiamo ora spostarci all’interno dell’affresco noto come Mosé e le figlie di Jetro dove però la mia lettura e quella di Pfeiffer cominciano a non coincidere, perché egli crede di cogliere nella figura dell’ebreo ferito alla testa al margine destro del dipinto un preciso riferimento a Giuliano de’ Medici ed al suo assassinio[6], ma in realtà allo studioso gesuita sfugge un dato di fondamentale importanza. Proprio nella zona dell’affresco suindicata, infatti, è rappresentato quasi alla lettera quanto accadde quel fatidico 26 aprile del 1478 nella cattedrale di Firenze. In primo piano abbiamo un giovane che sta per essere assassinato a colpi di spada e appena più dietro un altro giovane ferito che, sorretto da una figura femminile, riesce a mettersi in salvo riparando nell’edificio posto alle sue spalle. Giuliano pertanto, contrariamente a quanto pensa Pfeiffer, è da identificarsi nell’egiziano che sta per essere colpito a morte da Mosé, mentre Lorenzo (le cui fattezze: capelli neri, scuri e leggermente ondulati) coincidono per altro con quelle del fratello, è l’ebreo che sta per mettersi in salvo [fig.2].
Interpretazione che anche Michele Nigro, aggiungendo per altro delle chiose molto pertinenti, riconosce essere quella esatta:
«Acutamente il Rossi interpreta il particolare dell’affresco come allusivo all’uccisione di Giuliano, così come riferisce a Lorenzo, che viene condotto a salvamento nella sacrestia di Santa Maria del Fiore, il personaggio che all’estrema destra, viene soccorso da un personaggio femminile in abito azzurro (la Vergine Maria, la “Mater misericordiae” della “Salue Regina”, provvidenziale salvatrice, dalla tunica o dalla sopravveste azzurra)».[7]
Tutti i riferimenti storici fin qui individuati rimangono dunque innegabili, anche se sparsi lungo l’intera Cappella senza un legame apparente, ma in realtà con una precisa concatenazione logica. Su una parete infatti tre persone stanno, senza ombra dubbio, tramando una congiura e su quella di fronte la congiura si compie con gli esiti che conosciamo: una delle due vittime prescelte muore, l’altra riesce a porsi in salvo. E ci chiediamo come tutto questo possa considerarsi puramente casuale. Anzi altre due domande ci sorgono a questo punto spontanee. Cosa è realmente accaduto a Firenze dopo l’attentato solo parzialmente andato a buon fine e in che punto della Sistina possiamo trovare un preciso riferimento a ciò? Alla prima domanda la risposta è ovvia, perché i principali responsabili dell’agguato che Lorenzo riesce a catturare immediatamente, tra cui i tre personaggi indicati prima da Pfeiffer, Francesco de’ Pazzi, Francesco Salviati e Jacopo Bracciolini, sono giustiziati nella stessa giornata.
La seconda risposta a me appare altrettanto ovvia, eppure nessuno finora vi aveva mai pensato. La troviamo nell’affresco, sempre botticelliano, della cosiddetta Punizione di Core, Datan e Abiron. Ebbene in questa scena tre congiurati vengono puniti con la morte, perché la terra si apre ai loro piedi inghiottendoli [fig.3].
E se nessuno finora, e tanto meno Pfeiffer, ha mai messo in relazione questo dipinto con gli altri da noi presi in considerazione è perché tutti i critici, pur cercando precisi collegamenti storici con l’atto di ribellione descritto, hanno sempre pensato che quest’ultimo dovesse essere rivolto contro Sisto IV e che quindi Core, Datan e Abiron fossero da identificare con quanti (per esempio l’arcivescovo slavo Andrea Zamometich) avessero in qualche modo messo in dubbio l’autorità del Pontefice o ne avessero addirittura chiesto la rimozione.
Ma così facendo hanno del tutto ignorato quanto è scritto a caratteri cubitali sul frontone del tempio che compare in bella vista proprio al centro dell’affresco sistino: NEMO SIBI ASSUMMAT HONOREM NISI VOCATUS A DEO TANQUAM ARON (Nessuno si arroghi alcuna autorità se non chiamato da Dio come Aronne) [fig.4].
Colui che si è arrogato un diritto che non gli competeva, cioè punire con la morte tre ribelli che pure si erano macchiati di una indubbia colpa, è Lorenzo il Magnifico e non certo papa della Rovere, che a più riprese e anche pubblicamente si era sempre dichiarato contrario, almeno in via di principio, alla pena di morte, anche in occasione della congiura dei Pazzi:
«io ti dico che non voglio la morte di alcuno, ma soltanto un cambiamento di governo e che si strappi il governo dalle mani di Lorenzo poiché egli è un villano e un uomo malvagio, che non ha alcun riguardo per noi».[8]
In realtà sarà proprio il giovane Medici a fare il primo passo e chiedere pubblicamente perdono al papa, come da noi precedentemente ricordato, e il 3 dicembre 1480 i legati fiorentini comparvero nell’atrio della basilica di S. Pietro, dinanzi al Pontefice e al collegio cardinalizio, si prostrarono a terra, confessarono le loro colpe nei confronti della Chiesa e del suo capo supremo e chiesero perdono per se stessi e per il loro popolo. Ed anche questo episodio è raffigurato nel ciclo sistino, esattamente nell’affresco delle Tentazioni di Cristo, proprio quello da cui siamo partiti, dove gli ambasciatori sono appunto raffigurati al centro della scena [fig. 5] e tra essi è ben riconoscibile lo stesso Lorenzo nel personaggio con veste blu, maniche gialle e cappello rosso piumato in mano (proprio dietro il gran sacerdote al centro dell’affresco) nell’atto di inginocchiarsi accanto all’altare dell’olocausto e di chiedere umilmente perdono[9].
Ed è da notare come egli appaia molto più giovane di come non fosse in realtà in quel momento, forse proprio perché solo in pochi dovevano cogliere i precisi riferimenti storici contenuti nei dipinti.
Secondo Pfeiffer (e Nigro) però, con il suo affresco Botticelli ha girato le accuse. Non sono i fiorentini ma il papa e la sua famiglia ad avere bisogno di purificazione. Naturalmente noi non condividiamo queste ultime osservazioni, del tutto incompatibili con una spiegazione logica degli affreschi, tutti tesi a dimostrare proprio la superiore “umanità” e “cristianità” di Sisto IV rispetto a Lorenzo e non certo a denigrare il committente degli stessi. Ma per meglio motivare il nostro assunto dobbiamo ancora una volta confrontare i due affreschi che hanno per tema le rispettive Conturbatio, di Mosé e di Cristo. Mentre quella botticelliana si chiude in modo cruento, con la morte di tre ribelli, così come nella realtà si era conclusa la congiura de’ Pazzi, in quella peruginesca
«Cristo offre la vita per liberare dalla morte anche i propri nemici e quindi il pontefice, che di Cristo è il rappresentante, non può condannare a morte nessuno, neanche chi si rivolta contro di lui. Ed è proprio grazie al perdono di Gesù, al suo generoso sacrificio, che l’umanità peccatrice può redimersi e “risorgere”, così come simbolizzato dall’edificio ottagono che campeggia solenne nello sfondo della Consegna delle chiavi»[10] [fig.6].
D’altra parte è la logica prima che qualsiasi dotta analisi iconologica a dirci che Sisto IV non avrebbe mai consentito che in un ciclo di tale enorme importanza e visibilità comparisse un così preciso riferimento alla Congiura dei Pazzi se non per dichiararsene completamente estraneo. Dunque, lungi dal criticare o addirittura deridere il Pontefice questi affreschi sono interamente tesi ad assolverlo da ogni complicità in quegli eventi e ad esaltarne piuttosto le qualità di equilibrio e lungimiranza.
Sisto si propone infatti come nuovo Salomone, anzi a questi superiore per devozione e saggezza politica, quest’ultima messa in pratica anche nel “perdono” da lui concesso alla fine a Lorenzo il Magnifico nel nome di una necessaria pacificazione: e non è certo un caso se proprio perdono e misericordia siano le parole chiave usate da Sisto IV (non ci importa quanto sinceramente) per delineare la sua politica e con essa tutta la visione ideologica che ha ispirato il ciclo sistino.
Comunque, con queste mie precisazioni, io non ho affatto inteso sostenere l’estraneità del Della Rovere alla congiura dei Pazzi, ma solo che questa era la tesi ufficiale che egli naturalmente voleva che si facesse trapelare e che alla fine lo stesso Lorenzo aveva dovuto accettare. D’altro canto anche il Magnifico veniva decisamente riabilitato, come è logico che fosse in delle pitture che egli stesso aveva contribuito a realizzare: innanzi tutto era riuscito ad imporre (e che l’idea sia nata da lui io sono assolutamente convinto) che nei dipinti sistini comparisse un preciso riferimento al tentativo di omicidio che aveva dovuto subire in quel fatidico aprile del 1478 ed al quale aveva sì reagito in modo eccessivo, ma macchiandosi al massimo di quello che oggi verrebbe definito come “eccesso colposo di legittima difesa”; anche di questo, però, egli si era poi pentito chiedendo grazia al pontefice e ottenendo da Sisto IV una piena assoluzione. In tal modo il suo atto di sottomissione al Della Rovere non poteva essere in nessun modo tacciato di viltà ma doveva apparire anzi come un gesto di lungimiranza politica.
Prima di chiudere questa parte dello scritto voglio proporre un’ultima osservazione circa il fatto che nell’affresco con Le tentazioni di Cristo, che come è noto sono relegate nella zona in alto in fondo alla scena, il diavolo tentatore indossi per tre ben volte il saio da francescano, cosa interpretata da più parti e non solo da Pfeiffer, come un’ulteriore riferimento critico al della Rovere, che apparteneva per l’appunto a quell’ordine e verrebbe quindi addirittura identificato con il demonio in affreschi che lui stesso aveva commissionato e puntualmente controllato in ogni fase: il che francamente mi pare al di là di ogni ragionevolezza.
La verità, per me, è esattamente l’opposto: del resto non è forse Gesù Cristo la “figura” per eccellenza della Chiesa e dunque del suo vicario in terra cioè del Pontefice? Elemento ribadito dal fatto che proprio al centro del riquadro in questione il diavolo e Cristo sono ritti in piedi su di un edificio che richiama con tutta probabilità l’antico S. Pietro e comunque una chiesa. Dunque Sisto IV è da identificarsi con Cristo e non con il diavolo: quest’ultimo, per corrompere il pontefice ed ingannarlo meglio indossa addirittura i panni a lui più cari, quelli da frate francescano, ma il della Rovere svela ogni raggiro e resiste ad ogni tentazione. Ancora un messaggio cifrato a Lorenzo per scagionarsi dall’accusa di complicità nel complotto ai suoi danni e scaricare ogni colpa su qualche suo collaboratore infido? E’ un’ulteriore ipotesi che avanzo come tale e lascio appositamente con il punto interrogativo finale.
Veniamo ora ad un altro aspetto degli affreschi su cui vi è ancora molto da lavorare, quello cioè dell’identificazione degli innumerevoli ritratti di personaggi dell’epoca che affollano letteralmente le pareti e di cui mi occuperò in questa sede solo per quel che riguarda gli autoritratti e i ritratti dei pittori partecipanti al cantiere. Alcune identificazioni sono certe e già note, altre, pur ormai considerate sicure sono invece del tutto errate, altre improbabili o incerte altre infine assolutamente inedite ma altrettanto incontestabili.
Al primo caso appartengono l’autoritratto del Ghirlandaio nell’affresco con La vocazione degli Apostoli: (Fig 7)
si tratta del giovane con cappello e vestito rosso, che guarda verso gli spettatori, secondo da sinistra nel gruppo ritto in piedi subito dietro le figure inginocchiate di Pietro e Andrea; e l’autoritratto di Cosimo Rosselli nell’affresco con Il discorso della montagna (Fig 8)
dove invece il pittore è da identificarsi nell’uomo con cappello nero, anch’egli rivolto verso gli spettatori, sull’estrema sinistra del dipinto.
Nel secondo caso rientra la presunta immagine del Perugino nell’affresco con la Consegna delle chiavi, da vedersi nella pingue figura vestita di nero, quinta partendo da destra, che in effetti presenta una vaga somiglianza con il sicuro autoritratto del Vannucci che compare nei perugini Affreschi del Cambio. Peccato che questo dipinto è del 1500 e quindi nel 1482 il nostro artista si sarebbe ritratto immaginando come sarebbe stato diciotto anni dopo, decisamente invecchiato e con qualche chilo di troppo. Il vero autoritratto del Perugino si trova invece nell’affresco con La circoncisione del figlio di Mosé, ed esattamente nella figura con berretto rosso e sempre rivolta verso gli spettatori che compare sull’estrema destra della scena [fig.9], in una posizione decisamente, e forse volutamente, defilata.
E’ questa un’immagine del tutto coincidente con quella del primo autoritratto sicuro del pittore di Città della Pieve, che si raffigura sull’estrema sinistra de L’Epifania, tavola datata intorno al 1476/78, cioè poco prima degli affreschi sistini e conservata a Perugia nella Galleria Nazionale dell’Umbria [fig.10].
Senza entrare nel merito delle molte identificazioni soltanto ipotetiche voglio invece soffermarmi su molte immagini assai poco, e in taluni casi anche mai, salite finora all’attenzione della storiografia e che ritengo invece potersi considerare sicuri ritratti o autoritratti. Per quel che riguarda Botticelli, ad esempio, mentre non mi pare di poter scorgere la sua immagine in nessuna delle figure che compaiono nella scena de La punizione di Core, Datan e Abiron, concordo pienamente con Pfeiffer laddove egli identifica l’artista con il giovane biondo con lo sguardo rivolto verso gli spettatori posto sull’estrema destra dell’affresco con Le tentazioni di Cristo. A Pfeiffer sfugge però che l’altro giovane con un cappello nero subito accanto al Botticelli è Domenico Ghirlandaio (vedi sopra fig. 1) .
Tanto più che questa stessa coppia compare anche sull’estrema destra dell’affresco di Cosimo Rosselli con L’ultima cena,
in cui il Ghirlandaio, con berretto rosso e tunica azzurra tiene agganciato al polso una borsa piena di monete e il Botticelli, ripreso di profilo, con berretto nero e tunica viola gli sorregge affettuosamente la mano: forse allusione al compenso ricevuto dai due pittori per la loro opera? O piuttosto solo ad un anticipo, visto che pare poi che essi siano stati saldati solo nel 1483? E sempre per quel che riguarda Botticelli e il suo autoritratto ne Le tentazioni di Cristo, mi sembra abbastanza significativo che tra tutti i pittori della Sistina che si autorappresentano egli sia l’unico che non compaia col classico berretto da pittore, come Perugino, Ghirlandaio e Rosselli, ma con un elegante copricapo piumato più da gentiluomo che da “artefice”, quasi a rimarcare, una volta di più, la propria originalità e indipendenza.
Prima di chiudere intendo occuparmi di un altro dipinto presente all’interno dei Palazzi Vaticani e cioè La Madonna della Rota, (fig 12) uno dei massimi capolavori di Antoniazzo Romano.
Al centro di questa tavola vi è la Vergine in trono col Bambino ritto sulle sue ginocchia, secondo un’iconografia assai consueta, e i Santi Pietro e Paolo, mentre in primo piano e ai lati del trono sono inginocchiati in due gruppi distinti e simmetrici i dodici uditori della Rota, il tribunale di appello della Santa Sede. Ancora una volta l’Aquili sembra voler spiazzare i suoi esegeti (e infatti il dipinto ha suscitato nel tempo le reazioni più disparate) perché accanto a evidenti retaggi medievali, come il fondo d’oro riccamente arabescato o le figure degli uditori molto più piccole di quelle della Vergine e dei Santi, troviamo un sontuoso trono di pretto stile rinascimentale e un pavimento prospetticamente perfetto; ed anche i volti dei personaggi ritratti sono di qualità assai diversa, alcuni stereotipati e senza vigore, altri di rara potenza ed espressività, degni del miglior Melozzo e che qualificano quest’opera, nel suo insieme, come uno dei più alti raggiungimenti della pittura romana di fine Quattrocento.
A proposito dei ritratti, Anna Cavallaro[11] ne ha individuati, con relativa sicurezza, solo un paio: l’uditore in primo piano a sinistra, che è il francese Guglielmo de Pereriis e il secondo da destra (proprio ai piedi di S. Pietro), con i capelli bianchi, che dovrebbe essere il committente del dipinto Giovanni Ceretani. Ma né la Cavallaro né gli altri studiosi dell’opera si sono accorti di un dato abbastanza sorprendente e cioè che la figura sull’estrema sinistra, con i capelli a caschetto e lo sguardo rivolto di sbieco verso gli spettatori è un evidentissimo autoritratto di Antoniazzo come conferma anche il confronto con l’unica altra immagine del pittore a noi nota, quella che compare nel frontespizio degli Statuti dell’Università dei Pittori del 1478 [fig.13] molto probabilmente miniato da Jacopo Ravaldi.[12]
E proprio la somiglianza dei due volti mi induce a ritenere che la datazione del dipinto vada anticipata, sia pure di poco, rispetto al periodo ’88-92 indicato dalla Cavallaro e ricondotta comunque all’ultimissimo periodo del pontificato di Sisto IV al cui stemma alludono i rami di quercia che si intravedono nel fondo damascato della tavola. Del resto la stessa studiosa fornisce indirettamente i termini post e ante quem per l’esecuzione della Pala: il 1484 che è la nomina a uditore del già citato de Pereriis e l’agosto del 1485 quando con la Bolla Circumspecta in omnibus Innocenzo VIII aveva decretato la decadenza dall’ufficio per gli uditori che nel frattempo fossero diventati vescovi, come era appunto il caso del Ceretani. Infine anche da un punto di vista stilistico la nostra tavola è perfettamente in linea con la produzione antoniazzesca del terz’ultimo decennio del ‘400, nel periodo cioè di maggiore vicinanza a Melozzo da Forlì.
Sergio ROSSI Roma 16 Ottobre 2022
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