di Monica LA TORRE
Nel cuore verde d’Italia, nella terra più santa e più prosaica, alla riscoperta del Sagrantino, 12° DOCG d’Italia.
La natura duplice di questo vino rispecchia fedelmente i suoi vignaioli ed i padroni della sua terra. Il nettare prezioso simbolo stesso del sacro, da strumento della transustanziazione è oggi un’eccellenza in costante ascesa (+40% sotto pandemia), distribuito in tutto il mondo.
I vigneti di sagrantino del montefalchese? Per molti, il “locus” dove tutte le radici dell’Umbria si intrecciano. In mezzo alle colline della Valle Umbra Sud tra Foligno, Spoleto e Gualdo Cattaneo, non è chiaro dove inizia il sacro e finisce il profano. Tra conventi, chiese, cantine ed osterie il confine tra l’elevazione e il vizio è più sfumato che altrove. E le colline, belle da intenerire, quella solarità placida e colorata da richiamare il Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi con geometrica rispondenza. Citazione banale, certo: ma centrata.
L’antico padrone, e la tavola
Un reticolo di campi e clivi armonici, dalle cromie eleganti, dalle geometrie morbide, dai borghi ton sur ton. Una bellezza che dice grazie a Madre Natura, certo: ma soprattutto alle schiene dei contadini caparbi che l’hanno modellata ad immagine e somiglianza dell’antico padrone. E chi erano, questi padroni? Vescovi, nobili, possidenti, mercanti; l’animo sempre alla fine della quaresima, più affezionati ai loro vizi che a Fratello Sole e Sorella Luna. E guai, guai a toccargli la tavola, per carità, che era il cibo a misurare status e potere.
Se da queste parti la DOCG è proprio quella del Sagrantino, da Sacrum, “sacro”, vino da messa, vino da rito, vino prezioso, un motivo ci sarà stato: ed è da cercare nelle caratteristiche uniche di questa cultivar tosta e caparbia, generosa sì ma dopo la doma. Una bivalenza che fa il paio con il disallineamento tipico dell’umbro di pianura al-di-qua-del-Tevere, avvezzo a mercanti e preti, a suore e cortigiane, a consolari romane e mura comunali. (aldilà del fiume, gli Etruschi: altri vini, altri skyliners, altre cantine, che già l’impronta toscana è più netta…)
Dalla tavola al confessionale, e ritorno
Di quest’umbro antico, rimane tanto anche nei pronipoti. Nella vita pubblica, la forza del campanile, la rivalità col borgo vicino, la caratterizzazione familistica dell’economia, della politica e della società. Nel privato, la disinvoltura nel passare dal Penitenziale al Carnevale senza soluzione di continuità; il talento limpido nel commuoversi tanto a tavola quanto sull’inginocchiatoio; l’abbandonarsi con eguale impegno alla baldoria prima, al Domine, non sum dignus poi. Come stupirsi del fatto che sia questa la zona di una DOCG, il Sagrantino, che al palato è una vetta da scalare e nello stomaco un camino acceso, nel bicchiere è arterioso e denso come sangue, negli abbinamenti elegante e potente come una Land Rover fuoristrada, in cantina sfida i decenni ed è chiamato “Sacro”?
Fuoco sui campi …
Il fuoco del foliage autunnale del sagrantino contribuisce non poco a presentarci questo protagonista del paesaggio, la sua natura “non binaria”. Bassissima resa per ettaro, tanninico tanto da costringere i produttori all’appassimento prima della vinificazione fino al 1970, il nettare che muove l’economia di questo appenino alcolico lo abbiamo bevuto dolce per secoli, prima di sfidarlo e trasformarlo in un grande rosso secco, da invecchiamento eterno. E soprattutto, lo abbiamo bevuto in chiesa. Il Sagrantino era il vino della messa, il vino del miracolo, il veicolo della transustanziazione: il sangue di Cristo, offerto in sacrificio per noi.
E se c’entrasse anche San Francesco?
I primi studi storici effettuati sulle origini della cultivar risalgono agli inizi del secolo scorso: e individuano non a caso nei francescani i motori primi di questa produzione vitivinicola. Da qui, la consapevolezza di trovarsi di fronte un vino salvifico. Uno strumento del Signore: origine celeste, che ovviamente si trasforma in un formidabile lasciapassare morale. Gli umbri bevono perché il vino è sacro. Perché Deus lo volt. Dio lo vuole. E perché il Sagrantino, come vedremo più avanti, scaccia il demonio.
Una varietà importata… ma da dove?
Se Luigi Fronzi, nel 1915, riteneva il Sagrantino una varietà «importata, forse da uno dei numerosi seguaci di San Francesco di Assisi, i quali qui da ogni parte d’Italia affluivano per condurre una vita di espiazione e di penitenza», la vocazione enologica della zona è ben più antica del Medioevo. Marziale nel I secolo d.C. ricorda i vini di Montefalco, Plinio il Vecchio li cita nella Naturalis Historia, menzionando l’uva Itriola prodotta sia nel municipio di Mevania, l’attuale Bevagna, che a Montefalco (“Itriola umbriae mevanatique et piceno agro peculiaris est”. Dopo l’anno Mille, vigneti e vino di Montefalco sono ben documentati. Negli statuti di Montefalco del 1424 troviamo le pene severe per chi intralciava o commetteva reati legati alla coltivazione ed alla produzione: “della pena di dà danno nella vigna”, “della pena di chi porta i pali dalle vigne altrui”, “della pena di chi vende l’uve senza licenzia”.
Nel Rinascimento, il vino di Montefalco era talmente pregiato da essere offerto in dono a Papi e Re. Cipriano da Piccolpasso, provveditore della fortezza di Perugia nel 1565, nel parlare di Montefalco si esprimeva così: “…questa terra è posta sopra un colle molto vago et di bellissima veduta, raccoglie dilicati frutti et grano et vino da vendare…”
E finalmente, la DOCG
Ed il nome Sagrantino? Ebbene, è moderno. Appare verso la fine dell’Ottocento, non prima: ben più antica invece la sua versione passita, quella da bere nelle sante feste o nelle liturgie, da cui l’appellativo. Fu solo alla fine degli anni ’70 che la cooperativa Terre De’ Trinci, a Foligno, vinificò la prima versione secca. Nel 1979, la DOC per il Sagrantino secco; nel 1981, il consorzio di tutela dei vini DOC di Montefalco. Nel 1992 la DOCG per il Sagrantino di Montefalco, nella versione dolce e passito: dodicesimo vino italiano ad ottenere questo riconoscimento.
L’esorcista più famoso dell’Umbria
A dimostrazione pratica della doppia natura insita nel vino che siede tra Virtute e Tentazione, il toponimo di Scacciadiavoli. Oggi, località tra Montefalco e Bastardo, dove – non a caso – sorge una delle cantine più antiche dell’Umbria, dal nome omonimo, Scacciadiavoli. Ieri – siamo alla fine del Settecento, la dimora di un esorcista: nomen omen. Il Signor Scacciadiavoli sale agli onori delle cronache del XVIII secolo per aver risolto un pesantissimo caso di possessione demoniaca ricorrendo a quanto di più sacro poteva trovarsi a portata di mano: il Sagrantino. Il vino da messa. Vino con il quale, facendo ubriacare pesantemente la sfortunata, la liberava dal Maligno…
Cento anni dopo, la Cantina
Nello stesso sito dove l’esorcista Scacciadiavoli affrontava il Maligno a colpi di bottiglia, facendolo affogare nel vino, cento anni dopo il principe Ugo Boncompagni Ludovisi costruisce una cantina “sul modello produttivo francese”, destinata a produrre vino “simile al toscano”: nella quantità di un milione di litri di vino l’anno. Era il periodo della seconda rivoluzione industriale e il principe ambiva a fondare lo “stabilimento” del vino: un complesso enologico imponente che avrebbe prodotto quasi un milione di bottiglie. Per questo, adotta metodi di produzione avanguardistici, per l’epoca. Su tutte la cisterna enologica in cemento armato del 1909, centomila litri di capienza, la seconda nel mondo dopo la sorella francese, la prima in Italia, parete in limpidissimo stile decò. E con la baldanza tipica del nobile toscano, il principe Ludovisi Boncompagni “arriva da Roma, dopo aver fatto esperienza a Bordeaux, e costruisce una cantina super moderna, con cisterne e macchinari in quattro piani sotterranei. Produceva 15 mila ettolitri di Premiato vino di Montefalco, che esportava dall’Africa al Giappone. Un uomo pio che divenne anche diacono del Papa e, allo stesso tempo, un gaudente che si sposò tre volte” (Amilcare Pambuffetti, attuale proprietario, a Cook – Corriere della Sera, agosto 2020, “L’esorcismo si fa col vino. La leggenda della cantina Scacciadiavoli”).
Storia d’amore, di vino e di fortune…
Il proprietario, per inciso, ha ereditato l’insediamento dal padre, Amilcare Sr, che “alla fine dell’Ottocento lavorava come garzone alla Scacciadiavoli, con uno stipendio da una lira al mese. Una storia d’amore lo portò in Liguria, si specializzò nel pesce secco, e nel 1954 riuscì a comprare l’azienda in cui era stato assunto da ragazzo: aveva 71 anni, e da quel momento il destino di Scacciadiavoli sarebbe cambiato”, (ib). Ed oggi, si è sempre qui, le stesse colline, la stessa logistica nella produzione – questa volta di Sagrantino, Rosso di Montefalco, Trebbiano Spoletino e Grechetto, la stessa cantina, sapientemente restaurata con filologico rigore, lo stesso nome: Scacciadiavoli. Intorno, la leggenda dell’esorcista, che le cronache di tre secoli fa localizzano nel toponimo adiacente il fabbricato: Al centro della cantina, lo stemma Boncompagni Ludovisi, il motto “Sola fides” che campeggia sull’edificio, perfettamente restaurato dopo il sisma del 1997, integro in ogni sua parte.
Oggi, tre generazioni dopo, il vino è ancora “ragazzino”
«Un sito fondamentale nell’enologia umbra – racconta Liù Pambuffetti, figlia di Amilcare Jr, espressione della terza generazione alla guida dell’azienda-. La DOCG, voglio sottolinearlo, è stata conquistata anche grazie alla continuità produttiva di questo sito, attivo da 150 anni. Il guardare oltre è nel nostro DNA: ma lo facciamo ben consapevoli della nostra vocazione, delle nostre origini. Scacciadiavoli – conclude –non è solo un luogo simbolo per il territorio di Montefalco. Ma è ricco di significato e di valori per la nostra famiglia, e per tutti gli abitanti del territorio».
Monica LA TORRE Foligno 5 dicembre 2021