di Elena TAMBURINI
Una vera Salome al Comunale bolognese: interprete, danzatrice, cantante
Richard Strauss (nessuna parentela con quello del valzer) non ebbe davvero vita facile: sarà sospettato anche di simpatie verso il nazismo. D’altra parte anche Salome gli creò non pochi ostacoli presso l’occhiuta censura dei suoi tempi. Ne ebbe perfino con i suoi stessi cantanti che, nel corso della preparazione della “prima”, giudicarono l’opera davvero troppo ardua. C’era per giunta il problema della famosa danza dei sette veli che, di contro a una voce atletica e dunque matura, avrebbe voluto una vera e giovanissima danzatrice. Che infatti, fin dalla prima (Dresda, 1905), sostituì in quel punto la cantante di Salome; un esempio che sarà spesso seguito, a cominciare da quello, più noto, di Monserrat Caballé, che nella parte sarà, con voce splendida, totalmente e volutamente immobile.
In questa sua ripresa dal debutto del 2010 (sempre al Comunale), Gabriele Lavia puòcontare su un’artista davvero versatile, il soprano lituano Ausrine Stundyte, capace di danzare, interpretare, cantare. Giovane e matura a un tempo, ne accompagna e ne rende credibile la trasformazione non solo mutando la veste bianca iniziale nel manto rosso del potere e del sangue. Non è la prima o l’unica volta che ciò accade; in ogni caso raramente avviene a questi livelli.
Il tema, attinto ai Vangeli (Marco e Matteo), è, come è noto, antichissimo. Salomé non ne è inizialmente protagonista, al punto da non avere all’epoca neanche un nome riconosciuto. Protagonista è lui, Giovanni Battista, e tale rimane in numerose successive agiografiche rivisitazioni del mito. La vicenda conoscerà però nel tempo anche una linea di sviluppo autonoma proprio attraverso il personaggio di Salomé. Così forte, questa seconda linea, da offuscare la prima.
Crediti fotografici : Andrea Ranzi-Studio Casaluci
Questa fanciulla che con la sua danza ha il potere di sconvolgere un re
al punto da esporlo a prometterle pubblicamente qualsiasi premio e dunque perfino la testa del Battista, ha finito infatti per catalizzare su di sé tutta l’attenzione. Come questo sia avvenuto non è facile dire; ma è certo che le arti figurative vi hanno una parte fondamentale. Sono gli artisti infatti che, specie a partire dal Rinascimento, hanno dato sempre più chiaramente centralità al personaggio, impegnandosi nel compito impossibile di raffigurare l’irresistibile fascino della danza attraverso le vesti fluttuanti di una giovanissima (e bellissima, ovvio) interprete. Questo è accaduto con la complicità crescente dei fruitori, avviati a diventare un pubblico esigente nel senso moderno del termine. Salomé diviene allora non solo simbolo della danza, ma anche delle sue potenzialità corruttrici. Ed è quest’ultimo punto che, a partire dall’Ottocento, ha conosciuto sviluppi davvero estremi. Lo permettevano l’età del re e quella presunta della fanciulla e anche la loro posizione quasi parentale, perché, come è noto, Erode Antipa era lo zio nonché il patrigno di Salomé. C’erano dunque tutte le premesse per invadere i territori della lussuria fino alla perversione e all’incesto. Ma c’è di più. La nuova protagonista, tramandata dalle fonti sostanzialmente come un ignaro strumento, tende a confondersi con quella di sua madre Erodiade, mandante riconosciuta del martirio del Battista. Quando poi il poeta tedesco Heinrich Heine (1847) aggiungerà a questa già più che ambigua vicenda l’elemento della morbosa passione per il Battista, si avvia l’ultima, decisiva metamorfosi: di qui Flaubert, Huysmans e gli altri che sono seguiti.Crediti fotografici : Andrea Ranzi-Studio Casaluci
Non c’è dubbio però che è con la rivisitazione di Oscar Wilde (1893) che il tema raggiunge il suo acme. E’ noto quanto lo scrittore ne fosse ossessionato. Lo ossessionava il personaggio quale gli era giunto da certa iconografia d’arte (Tiziano, Stanzione, Veronese, perfino Luini e forse Leonardo; e anche e soprattutto quella coeva di Gustave Moreau), come può ossessionare l’idea di una donna bellissima che si offre agli sguardi, del tutto consapevole del suo potere; ma in cui sopravvive ancora qualcosa della fanciulla dell’antica storia. La vedeva insieme nuda e rivestita di perle, vergine e perversa, abisso di corruzione eppure innocente. Vera incarnazione di tutti gli opposti, si rivelava a lui come l’immagine irresistibile e misteriosa di quella femme fatale che a fine Ottocento si andava imponendo contemporaneamente anche nelle arti figurative. Una figura che potremmo dire per eccellenza perturbante, culminante nel macabro bacio alla testa decapitata, che il testo di Wilde, geniale divulgatore, contribuisce certamente ad esplicitare e a fissare.
La grande attrice Sarah Bernhardt, amica di Wilde, riconobbe in questo dramma il “suo” dramma,
attratta dall’atmosfera di morbosa, “orientale”, lussuosa sensualità. Avrebbe voluto interpretarlo, ma ne fu impedita dalla censura vittoriana che per l’occasione tirò fuori un antico divieto, quello di mettere in scena temi tratti dalle Sacre Scritture. E fu solo l’inizio di tutta una serie di serissimi ostacoli che furono posti a Wilde, indubbiamente scomodo come personaggio oltre che come autore.
Richard Strauss, già noto musicista compositore, lesse il suo testo (originariamente scritto in francese) nella traduzione tedesca di Hedwig Lachmann. Lo vide anche nella famosa messinscena berlinese (1903) di Max Reinhardt. Impegnandosi con totale ed entusiasta adesione nella riduzione musicale, lo mise in musica così com’era, in aperto contrasto con la tradizione wagneriana e tedesca dell’opera in musica che voleva un “libretto” in versi come intermediario tra il testo da leggere o recitare e quello da musicare. Uno dei primi esempi di quel teatro musicale tipicamente novecentesco che la critica tedesca ha denominato Literaturoper, ossia di musica che intona il testo letterario senza ripensare le parole.
Di fronte a un soggetto così scabroso e complesso egli creò una partitura “difficile” che, pur mostrando l’eredità wagneriana (per esempio nei Leitmotiv), esibiva (ma in chiave espressiva, per alcuni personaggi) anche nuove dissonanze e cromatismi. Ma nonostante lo strepitoso successo della prima, per quasi quattro decenni la censura fece il vuoto intorno al soggetto, che riemerse, come un simbolo della libertà ritrovata, solo alla fine della seconda guerra mondiale.
Il seguito, come si usa dire, è storia. Storia di tante letture che hanno privilegiato ora l’uno ora l’altro aspetto, ora il colore storicizzante, ora la cifra elegante e sinuosa del suo principale illustratore Aubrey Beardsley, ora una nudità minimalista, ora una ora un’altra Salomé: una vera salomania, come fu definita. Ricordo qui solo lo spazio nudo eppure arcaizzante e fantastico di un regista allora esordiente, Peter Brook, con le scene di Salvator Dalì (1949).
In questa Salome è lo stesso Gabriele Lavia a spiegare la chiave forte della sua messinscena.
L’idea ispiratrice è la contrapposizione e il confronto tra due mondi, quello di sopra e quello di sotto. Quello degli umani che si abbuffano e gozzovigliano sopra, nel perpetuo banchetto di Erode, e il pozzo dove è recluso e straziato il Battista. La “voce che viene dal profondo” è la voce della verità che prima o poi interpella ciascuno di noi e che fa paura. Vorremmo negarla, questa voce, metterla a tacere, ma la storia ci insegna che non è possibile. Potremmo costruire un pavimento-diaframma di diaspro rosso per non sentirla, ma invano. Si aprirà sempre una fenditura da cui salirà, incatenata eppure fermissima, la voce di san Giovanni. Potremmo chiuderla in una grande cisterna sotto quel pavimento, ma la voce continuerà a tuonare. Possiamo perfino tagliare la testa del profeta, ma questa riemergerà dal basso, squarciando il marmo, enorme e insopprimibile (un’idea, quella della testa monumentale, che è stata subito ripresa, in una regia salisburghese del 2011, quella di Stephen Herheim).
Anche Salomé non vuole ascoltare quella voce e crea i presupposti per la sua definitiva soppressione. La sua danza è un punto davvero cruciale e non solo per la fascinazione esercitata o per le sue tragiche conseguenze. Nella regia originale del 2010 essa era potenziata da una grande lente, espressione di questa vera “tragedia dello sguardo” in cui noi tutti siamo sentiti insieme voyeurs e assassini. Lei oggetto, come si diceva deprecando, della “concupiscenza degli sguardi” (ma che va anche scoprendo un ruolo prepotentemente attivo nel rapporto d’amore) e lui, il Battista, che rifiuta di guardarla ed è solo una voce che annuncia, richiama e maledice. Oggi la lente (una parziale citazione da Carmelo Bene) non solo non è necessaria, ma sarebbe di ostacolo, visto che la cantante corre in lungo e in largo per tutta la scena con movimenti coreutici (creati da Daniele Palumbo, da segnalare) che consentono di ripercorrere tutta la drammaturgia. Salomé è insieme donna e fanciulla, innocente, seduttiva e crudele. I veli di cui si spoglia sono quelli della verità: essi cadono ad uno ad uno, rivelando a se stessa la sua attrazione irresistibile. Solo alla fine ne diviene davvero cosciente. Cadrà sulle labbra del profeta.
A garanzia della sostanziale fedeltà della ripresa per quanto attiene la parte visuale, gli artisti responsabili dello spazio sono gli stessi della produzione originale: lo scenografo Alessandro Camera, il costumista Andrea Viotti, il light designer Daniele Naldi. Mentre la parte musicale è cambiata, a partire dal direttore d’orchestra Juraj Valcuha, reduce da non pochi successi sul piano internazionale e da quello della recente inaugurazione della stagione sinfonica dello stesso teatro Comunale bolognese.
Davvero da ricordare la versatile e talentuosa protagonista, il soprano lituano Ausrine Stundyte
e anche il resto di un ottimo cast: Tuomas Pursio nella parte di Jochanaan, Doris Soffel come Erodiade, Ian Storey nei panni di Erode, Enrico Casari in quelli di Narraboth.
Elena TAMBURINI Bologna febbraio 2019
Repliche il 16, 17, 19 e 20 febbraio.
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