di Francesco PETRUCCI
La Basilica di San Giovanni in Laterano nel tempo del silenzio
A ridosso della “festa del primo maggio”, stride oggi il contrasto tra piazza di San Giovanni deserta e la consuetudine del cosiddetto “Concertone”, qui tenuto dal 1990 in concomitanza con l’evento, che attira ogni anno decine di migliaia di persone da tutt’Italia.
Pochi giorni fa mi sono recato nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, anch’essa aperta ai fedeli del Rione Monti, ove vivo, in questo periodo di relazioni umane ridimensionate e interdizione delle chiese alle pubbliche celebrazioni.
Non può non tornare alla mente la storia plurimillenaria di socialità e di aggregazione della Basilica e del complesso annesso, per secoli principale centro della Cristianità (fig. 1).
Il Campo Lateranense, poi ribattezzato piazza S. Giovanni, è divenuto dal dopoguerra anche sede di grandi manifestazioni di massa.
Ma soprattutto la Cittadella Laterana è un luogo consacrato dall’appuntamento con la storia: vi fu battezzato Carlo Magno nella Pasqua del 774, ricevuto da Innocenzo III nel 1209 Francesco d’Assisi per chiedere l’approvazione della regola francescana e molto altro; ma qui hanno soggiornato tutti i papi per circa mille anni fino alla cattività avignonese (1305-1376), accogliendo pellegrini, cortei diplomatici, santi, principi e regnanti da ogni parte del mondo.
La cerimonia culminante dell’elezione papale era il “possesso” del Laterano, Cattedrale di Roma di cui il pontefice è vescovo. Il corteo pontificio, dopo essere sceso dal colle Capitolino nel Foro Boario, passato l’Arco di Tito, dalla valle del Colosseo imboccava il rettifilo di via di S. Giovanni in Laterano[1] per salire in direzione del Campus Lateranensis, alla estremità meridionale di Colle Oppio.
In questi giorni di silenzio e solitudine ho provato a ripercorrere l’ultimo tratto della via papalis – questo era e sarebbe il suo vero nome -, dopo la basilica di San Clemente, il cui parziale interramento d’ingresso rivela i forti cambiamenti di quote introdotti nella zona.[2]
Oggi si comprende poco come anche questa parte della città, non a caso nel “primo” e più nobile rione della capitale, avesse un tempo un assetto spiccatamente collinare da cui lo stesso rione ha preso il nome. D’altronde anche il sali-scendi dell’antica “strada Gregoriana” di collegamento tra le basiliche di S. Maria Maggiore e S. Giovanni in Laterano, tra i Colli Esquilino e Celio, è stato falsato da sopraelevazioni e interramenti post-unitari, che fanno sembrare l’attuale via Merulana quasi un lungo piano, esclusa la “cordamolla” all’incrocio con via Labicana, ben percepibile nell’interramento della chiesa dei Ss. Marcellino e Pietro.[3]
Alla fine del percorso, sulla sommità si apre la grandiosa visione del complesso di edifici annessi all’Arcibasilica di S. Giovanni in Laterano (fig. 2).
Il valore simbolico che essa riveste per la Cristianità è enorme, essendo la prima e più antica chiesa del mondo occidentale: un enorme ex-voto voluto da Costantino dopo la vittoria su Massenzio (312 d. C.) sotto il segno della Croce: in hoc signo vinces.[4]
La “Madre di tutte le Chiese” ha conosciuto una storia travagliata, oggetto nel corso di oltre 1700 di continue costruzioni e demolizioni, riedificazioni e rottamazioni, nel succedersi di nuovi riassetti formali e funzionali.
La sua struttura principale è una sorta di reliquiario che contiene in sé la memoria dell’antica basilica a cinque navate, assorbita dall’intervento progettato da Francesco Borromini a metà del XVII secolo: un’anima paleocristiana contenuta in un involucro barocco, come lo scheletro portante di un corpo rigenerato.[5]
L’aspetto prevalente dell’attuale fabbrica è uno snodo tra barocco e classicismo settecentesco, ove la misura dell’interno borrominiano, privo dell’accentuato dinamismo di altre sue opere, non confligge con la solenne facciata e il portico del Galilei.
I lavori per la “Basilica del Salvatore”, cui la chiesa fu dedicata sin dall’origine, iniziarono subito dopo la proclamazione della libertà di culto con l’editto di Milano nel 313 d.C., fino alla solenne consacrazione cinque anni dopo.
Ben presto si sviluppò attorno alla Basilica una vera e propria Cittadella Laterana, un Vaticano in scala ridotta sopra i Castra Nova equitum singularium destinati alla milizia speciale di Settimio Severo e alla lussuosa villa di Sextio Laterano, che diede il nome alla zona. In primo luogo il Battistero costantiniano, ancora perfettamente conservato, poi la residenza papale e la sede dei dignitari dell’amministrazione pontificia, oltre a oratori e strutture cultuali.
Una prima radicale tabula rasa risale al pontificato sistino, ad opera della coppia di demolitori-costruttori Sisto V-Domenico Fontana. Allora venne abbattuto il Patriarchio e vari edifici minori, innalzata la nuova Loggia Sistina alla testata del transetto destro, costruito il Palazzo Apostolico, inglobate la Sancta Sanctorum e la Scala Santa in una nuova fabbrica ed innalzato il mastodontico obelisco egizio di Tebe proveniente dal Circo Massimo, in asse con il rettifilo verso S. Maria Maggiore (1585-89).[6]
Ma se nel caso dei massicci restauri sistini il raziocinio degli interventi ha restituito omogeneità ad un’area fortemente caratterizzata da disordinate stratificazioni, come ben dimostrano antichi disegni e dipinti, altamente deprecabile fu il cosiddetto “restauro” promosso da Leone XIII su progetto di Francesco Vespignani (1876-86).
Un nefasto intervento che mise in atto la completa demolizione del vecchio presbiterio, ritenuto troppo piccolo, fino ad allora decorato dagli spettacolari mosaici absidali di Jacopo Torriti (1291) voluti dal francescano Niccolò IV, ove erano inseriti per la prima volta in una rappresentazione iconica i santi contemporanei di un ordine monastico: san Francesco d’Assisi e sant’Antonio di Padova.
A nulla valse la singolare idea dell’architetto Andrea Busiri Vici di traslare indietro l’intera abside con l’ausilio di rotaie e macchine a vapore per salvarla. Oggi la pedante copia del mosaico del Torriti (1883-84), che ha il sapore di certe decorazioni neo-bizantine delle moderne cattedrali dell’est europeo, è in linea con la freddezza glaciale di questa parte fuori scala della basilica, non a caso la meno frequentata da fedeli, turisti e credo anche dal clero.
Dell’importante fase medioevale rimane oggi lo splendido chiostro cosmatesco del Vassalletto (ante 1227, fig. 3),
tra i capolavori del gotico nostrano, il frammento di scuola giottesca con La Promulgazione del primo Giubileo residuo degli affreschi della Loggia delle Benedizioni di Bonifacio VIII Caetani (1294-1303), il pavimento cosmatesco della navata centrale rifatto da Martino V Colonna (1417-31), il medaglione a mosaico con il volto di Cristo del Torriti inserito sul timpano della facciata (già nella facciata antica), l’elegante ciborio gotico policuspidato progettato dall’architetto senese Giovanni di Stefano (1371).
Sono spariti invece gli affreschi di Gentile da Fabriano e Pisanello, commissionati sempre da papa Colonna e ritenuti tra i vertici del primo Rinascimento romano, demoliti senza troppi patemi da Borromini e Innocenzo X nel Seicento.
Nel maestoso portico, ove sullo sfondo a sinistra ci accoglie il padrone di casa, l’imperatore Costantino raffigurato in una grande statua proveniente dal palazzo Mazzarino al Quirinale, sono presenti raffinati bassorilievi di Filippo della Valle, Giovan Battista Maini, Bernardino Ludovisi e Pietro Bracci (fig. 4).
Ma la memoria antica più degna di ammirazione è la gigantesca porta bronzea di età dioclezianea della Curia Iulia, proveniente dalla fabbrica nel Foro Romano. Fatta smontare nel 1656 da Alessandro VII e restaurata da Borromini, inserendo stelle e ghiande in relazione all’araldica chigiana, è uno straordinario esempio di rivitalizzazione di una rarissima reliquia di arredo funzionale imperiale in una fabbrica cristiana (fig. 5).
Entrato nella Basilica, anch’essa priva di banchi e arredi contemporanei, la quieta assoluta è turbata solo dal ciabattare lento sul pavimento cosmatesco di un frate confessore che in lontananza attraversa la navata.
L’interno è fortemente caratterizzato dal restauro condotto tra il 1646 e il 1655 da Borromini su commissione di Innocenzo X, che gli impose di conservare l’impianto paleocristiano a cinque navate e il capolavoro del soffitto ligneo cinquecentesco della navata centrale, opera di Daniele da Volterra (1562-67), all’epoca considerato addirittura invenzione di Michelangelo (fig. 6).
I lavori dovevano terminare per il Giubileo del 1650, ma data la proverbiale lentezza dell’ideatore si protrassero sino alla fine del pontificato Pamphilj.[7]
Il segno borrominiano si riconosce nella finezza dei dettagli e nella qualità delle soluzioni tecnico-linguistiche. Le pareti della navata sono caratterizzate da una travata ritmica che alterna con cadenza sincopata pieni e vuoti, tra possenti pilastri scanditi da un ordine gigante di paraste corinzie binate, scavati al centro da edicole estroflesse a timpano mistilineo ove sono incardinate le vetuste colonne in verde antico delle navate laterali, cui si alternano grandi arcate e finestre sovrastanti.
Una sequenza mutuata dal S. Andrea a Mantova di Leon Battista Alberti, ma che rammenta l’ordine gigante michelangiolesco della Basilica Vaticana reiterato ad oltranza nella grande navata del Maderno. Tuttavia la trabeazione qui non è continua, contraddicendo una regola dell’ordine architettonico, ma interrotta e limitata allo spazio dei pilastri.
Geniale la soluzione della controfacciata, con la convessità centrale sopra l’ingresso e i due pilastri inclinati a ventaglio che la raccordano alla navata, suggerendo una curvatura.
Nelle navate laterali, quelle vicine voltate a botte (fig. 7), quelle estreme a soffitto piano, la purezza delle membrature in stucco è movimentata da cherubini incastrati come telamoni aerei o mensole antropomorfe tra architravi e stipiti o sugli archivolti, ritmata luministicamente dalle camere di luce inventate per illuminare le navi intermedie.
Il cantiere proseguì sotto il pontificato di Alessandro VII, che incaricò Borromini di recuperare le memorie funebri di papi e cardinali smembrate e rimosse durante le fasi precedenti, inserendole in nuovi spettacolari Depositi celebrativi (1656-58).
Qui l’architetto ticinese ebbe modo di dare libero sfogo al suo estro creativo, inglobando quello che preesisteva in complesse macchine barocche, sorprendenti per originalità e varietà (figg. 8, 9, 10).
Tra queste il cenotafio di Alessandro III Bandinelli, pontefice senese preso da papa Chigi a modello anche per il proprio nome, l’unico tra quelli papali privo delle spoglie del defunto.[8]
A proposito di quest’ultimo, Alessandro VII confessò a monsignor Cartari “che l’aveva levato [Borromini] dalla Fabrica di S. Giovanni acciò voglia assistere alla Fabrica della Sapienza e perché non tirasse tanto in lungo quelli depositi di là che S.S. per far conoscere la haveva pigliato il nome d’Alessandro ma non del sesto, ma del terzo, haveva voluto fargli la memoria di detta chiesa, ma essergli dispiaciuto che il Cavaliere nelle colonne di quel deposito n’haveva fatti certi ornamenti da capo e da piedi all’usanza Gotica che questi per ora si solleverebbero [sopporterebbero], ma poi si farebbero levare per mettervele liscie”.[9]
La decorazione della navata centrale fu portata a compimento sotto il pontificato di Clemente XI, coinvolgendo i migliori scultori e pittori attivi a Roma nel primo quarto del Settecento (1706-18). Le statue dei Dodici Apostoli vennero commissionate direttamente da papa Albani che affidò la direzione del cantiere al suo artista di fiducia, Carlo Maratta, il quale fornì disegni agli scultori (fig. 11, 12).[10] Allo stesso pontefice è dovuta la commissione degli ovati su tela con i Profeti nella parte alta dei pilastri.[11]
L’enorme transetto detto Nave Clementina, architettura di Giacomo della Porta, è una vera e propria chiesa nella basilica, con un suo altare e una sua facciata, corrispondente alla Loggia delle Benedizioni in direzione di S. Maria Maggiore (figg. 13, 14). Infatti secondo il piano sistino di collegamento tra le principali basiliche, la facciata principale aveva assunto un valore secondario a scapito di questa.[12]
Il transetto-chiesa fu interamente decorato su commissione di Clemente VIII in vista del grande Giubileo del 1600, direzione Cavalier d’Arpino (1594-97), il deus ex machina del pontificato Aldobrandini. Le scene dipinte, vero campionario del tardo manierismo romano, imitano finti arazzi stesi sulle pareti, come nella Sala di Costantino delle Stanze Vaticane. Consulente iconografico il cardinal Cesare Baronio, secondo un rigoroso programma esemplato sui dettami controriformistici, coinvolgendo i massimi freschisti e scultori del tempo.[13]
Tra le cappelle di grandi famiglie romane, come i Colonna, Torlonia, Massimo e Lancellotti, spicca quella “fiorentina” dei Corsini disegnata da Galilei ad impianto centrale, ispirata nella planimetria ai Calidarium gemini delle vicine Terme di Tito dell’Esquilino, peraltro rilevate da Palladio (1732-36). Essa ha le caratteristiche di una struttura autonoma innestata nel corpo longitudinale della basilica, offrendo un repertorio delle arti decorative e della scultura negli anni ‘30 del ‘700, ma secondo la visione di romanità attualizzata tipica del pontificato di Clemente XII (1730-40), qui seppellito (fig. 15).[14]
Alcune cappelle corte collocate sui lati delle navate estreme, che si alternano a quelle nobiliari, presentano invece monumentali pale a fresco di Lazzaro Baldi, Guglielmo Cortese il Borgognone, Giovanni Odazzi con Ludovico Stern, Placido Costanzi.
Molti sono i papi qui sepolti, come Silvestro II, Sergio IV, Innocenzo III, Bonifacio VIII, Martino V, Clemente XII, alcuni accolti negli stravaganti depositi borrominiani, mentre la magniloquente tomba di Leone XIII con la statua di Giulio Tadolini (1903) domina l’ingresso della sagrestia. Delle memorie di molti papi del primo millennio si è persa ogni traccia, ma è plausibile che alcuni di essi siano stati inumati presso questa basilica primigenia.
All’ingresso della sagrestia ci sono anche le sepolture di due famosi artisti: il Cavalier d’Arpino e il suo grande allievo Andrea Sacchi. Quest’ultimo volle una memoria funebre accanto a quella del maestro e su disegno del Bernini, come dispose nel suo testamento del 1661.[15]
La critica berniniana in realtà ha preso in scarsa considerazione questo cenotafio – non sappiamo infatti se le spoglie siano mai giunte a destinazione –, illustrato da un’iscrizione dettata da G. P. Bellori.
Spostato dalla sede originaria, fu pesantemente rimaneggiato nei deprecabili lavori leonini di fine ‘800, come mostra una rara incisione del 1769 di Pietro Leone Bombelli (figg. 16, 17, Roma, Biblioteca Casanatense, coll. 20 B.I.10/44).[16]
Recentemente Gianpasquale Greco ha portato nuovamente all’attenzione degli studi il monumento, da lui attribuito a Paolo Naldini, autore del busto dell’artista, pur osservando “il sostrato culturale berniniano che sono piccoli particolari a far notare”. Se lo confrontiamo con il grande camino di Palazzo Barberini (fig. 18) o con le cornici delle finestre all’ultimo piano di palazzo Chigi-Odescalchi, fabbriche dirette dal Bernini, si possono notare non trascurabili affinità nel disegno.
D’altronde Naldini fu in scultura stretto collaboratore del Bernini, oltre che allievo in pittura di Sacchi.
Tra i depositi più spettacolari quello del cardinale Girolamo Casanate (1701-1703), fondatore dell’omonima biblioteca, inopinatamente fronteggiato e in parte coperto da un confessionale in fondo alla navata sinistra. Vi è raffigurato il prelato vivente comodamente adagiato su una sorta di triclinio pagano, con un tendaggio in diaspro di Sicilia sollevato da angeli, nella virtuosistica scultura di Pierre Le Gros, che traduce in chiave melodrammatica la teatralità delle invenzioni berniniane (fig. 19).[17]
La monumentale facciata fu progettata da Alessandro Galilei (1735) su commissione di Clemente XII, in sostituzione di quella paleocristina più volte rimaneggiata (fig. 20).
Il giudizio della critica è riduttivo, basato principalmente sul preconcetto della discontinuità di tale architettura con l’eredità più vitale del Barocco romano.
Il telaio in realtà riverbera l’ordine gigante della navata interna, perseguendo un intento di grandiosità che mancava nel vecchio ed eterogeneo fronte, come mostrano le sue raffigurazioni.
La percezione laterale e ravvicinata della facciata, rispetto alla canonica veduta frontale divulgata nei manuali di storia dell’architettura, mostra i suoi principali valori formali, tendenti ad esaltare i risalti volumetrici e chiaroscurali, la forza degli spessori, con un plasticismo possente che si collega idealmente alla romanità classica.
Come è stato scritto, il riferimento, con indubbie implicazioni formali e simboliche, è la Basilica Vaticana disegnata da Maderno, in una competizione a distanza. Ma si tratta anche di un esplicito richiamo, nella sovrapposizione di vuoti e l’abolizione del muro chiuso – a differenza del modello vaticano -, ad architetture di Roma antica come il Colosseo e il Teatro Marcello, nella perseguita restaurazione di un nuovo classicismo in versione papale.
Omaggio paleocristiano lo pseudo-protiro centrale sovrastato da serliana, ma con tre file di colonne sotto e due sopra come scavate nello spessore murario, a rimarcare la perseguita ricerca di solidità materica.
Francsco PETRUCCI Roma 3 maggio 2020
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