“Scendere nelle regioni semioscure della superstizione astrologica”. Schifanoia : il sipario del duca. Arte e potere nella Ferrara degli Estensi

di Stefania MACIOCE

Il Salone dei mesi di palazzo Schifanoia a Ferrara, al centro di una recente polemica, è l’occasione per tornare su un argomento di rilevante interesse critico.

La valutazione di questo considerevole ciclo di affreschi, che colloca Ferrara estense nel circuito delle grandi decorazioni rinascimentali mantiene, nonostante l’ampia bibliografia, una complessità di lettura articolata tra  argomentazioni diverse ancora fortemente produttive.

Il palazzo di Schifanoia situato a Ferrara, in via Scandiana 23, si trova nella zona sud/est della città nella strada anticamente nominata via di Schivanoia o Schifanoia ed era parte dell’Addizione voluta da Nicolò II nel 1386.

Schifanoia è la prima “delizia” edificata dagli Estensi a Ferrara e costituisce uno dei tanti luoghi come Belriguardo, Belfiore, ove la corte si ritirava essenzialmente per trascorrere periodi di svago o di riposo, come suggerisce il riferimento toponomastico allo “schivar la noia”.

Il suo antico splendore rimanda all’immaginazione di Ludovico Ariosto espressa nella descrizione dei palazzi e giardini fantastici nell’Orlando Furioso e luogo simbolo della Rinascenza ferrarese. Costruita ai margini della città antica, la “delizia” di Schifanoia è richiamata ugualmente dalle descrizioni delle dimore toscane del Doni:

I nostri Principi et Signori, per potersi separare talvolta da quei gran rumori del vulgo, si fanno di belle Ville … le quali Ville sono da presso, et da lontano fabbricate da la Città … et son fatte tanto belle, ricche et comode, di fuori, che non vi è differenza da Palagi e Luoghi di dentro …” [1].

Il primo nucleo dell’edificio risale ad Alberto V d’Este, che la fece costruire nel 1385, viene più tardi ampliato e modificato a partire dal 1465 da Borso d’Este, primo Duca di Ferrara.

Il Duca Borso aveva infatti deciso di eleggere la Delizia a sua residenza e il palazzo venne ampliato e arricchito dalla sopraelevazione di un piano, di un secondo ordine di finestre con l’aggiunta del grandioso portale a bassorilievo riferito ad Ambrogio di Giacomo da Milano e Antonio di Gregorio su disegno di Pietro di Benvenuto degli Ordini. Venne così a formarsi il piano nobile che serviva da appartamento ducale: qui si trova il salone di rappresentanza, ovvero il celeberrimo Salone dei Mesi, affrescato da pittori della scuola ferrarese che portarono a termine la decorazione a fresco nel 1470.

Il declino del Palazzo iniziò nel 1515, quando Sigismondo d’Este adibì una parte dell’edificio a fabbrica per la produzione di ceramica (la famosa ceramica graffita). Passò quindi a Francesco d’Este che lo lasciò in eredità alla figlia Marfisa, la quale lo portò in dote alla famiglia Cybo di Massa Carrara. Dopo la partenza degli Estensi, che lasciarono Ferrara nel 1598 per ritirarsi nel Ducato di Modena e Reggio, il Palazzo cambiò più volte inquilini e destinazione d’uso subendo notevoli alterazioni. Divenuto manifattura di tabacchi nel 1736 l’edificio non fu più utilizzato come abitazione; la calce ricoprì le pareti danneggiandole irreversibilmente fino alla nuova valorizzazione che avrebbe avuto inizio nel 1820 con la riscoperta degli affreschi.

L’unicità e l’originalità di questo edificio come delle sue decorazioni pittoriche si caratterizza sin dalla facciata, lunga più di cento metri, con l’ingresso trionfale creato come un ‘fondo scena’ caratterizzato dallo spiccare sui laterizi rossi, del lucente portale di marmo bianco ove paraste a candelabra sostengono l’arco a tutto sesto, impreziosite da bassorilievi che rappresentano le imprese del Duca Borso e degli Estensi. L’unicorno di pietra, a memoria dell’opera di bonifica del polesine di Ferrara e impresa di Borso, figura anche nella sommità sotto il cornicione di cotto.

Il portone dell’entrata principale non si apre al centro della facciata: si trova a sinistra dell’osservatore, come si usava nell’architettura teatrale. Nei fondali di scena, infatti, l’ingresso degli attori era situato alla sinistra del palco per consentire maggiore facilità di movimento; lo spazio libero di fronte al Palazzo, l’odierna via Scandiana, veniva utilizzato a volte per rappresentazioni teatrali all’aperto e la facciata e l’ingresso principale erano utilizzati come “fondo scena”.

Il complesso programma iconografico del Salone dei Mesi al piano nobile è imperniato sulla figura del committente Borso d’Este e della sua corte: ovunque infatti, come nei cassettoni di legno del soffitto, sono raffigurati medaglioni con le imprese del duca, l’aquila bianca e nera dello stemma, l’unicorno, il battesimo, il paraduro, la chiodara e altri così come ricorrono nelle pagine miniate della straordinaria Bibbia commissionata dal duca.

Borso d’Este

Gli affreschi del salone di rappresentanza di palazzo Schifanoia furono eseguiti per volontà di Borso d’Este negli anni attorno al 1470. L’esecuzione fu rapida e ottenuta attraverso l’impiego di un nutrito gruppo di pittori, che Roberto Longhi identificò nella sua celeberrima Officina Ferrarese (1934) e si concentrano sulla celebrazione dell’investitura di Borso, da parte di papa Paolo II, a primo duca di Ferrara, prestabilita all’inizio del 1471. Borso, figlio illegittimo del marchese Niccolò III, subentrò al fratello nel governo della città e godeva già, per decreto imperiale, del titolo di duca di Modena e Reggio e la nomina pontificia avrebbe portato al compimento la nobilitazione del suo rango.

Francesco del Cossa e Cosme Tura, “Trionfo di Venere”, “Gare di caccia” e “Borso e il buffone Scocola”  (assieme), Allegoria di Aprile

Negli affreschi Borso celebra in anticipo la sua investitura (sulla parete sud con i perduti mesi di Gennaio e di Febbraio) e legittima la sua signoria esaltando la promozione delle arti le e soprattutto il suo “buon governo”.

Il ciclo dei mesi è, dunque, un manifesto politico della grandezza del duca e delle sue arti di governo e viene a costituire nel contempo un’alta testimonianza della cultura della corte estense.

Sebbene il tema illustrato dagli affreschi fosse diffuso nell’arte medievale, come celebrazione dell’ordine cosmico che governa la quotidianità del lavoro agricolo e l’eleganza della vita di corte, a Ferrara esso è prospettato entro i canoni di un linguaggio rinascimentale e incrementato da complessi riferimenti iconologici.

Il programma del ciclo di Schifanoia è tradizionalmente riferito a Pellegrino Prisciani, come si evince da una lettera del pittore Francesco del Cossa inviata al Borso d’Este il 25 marzo 1470. Qui il pittore reclama compensi maggiori per l’esecuzione dei mesi di Marzo, Aprile e Maggio appena portati a termine e afferma di essere autore di: “queli tri campi verso l’anticamera” (parete est) e si lamenta del trattamento economico che gli hanno riservato i responsabili dei lavori:

io non voglio essere inviso a Pellegrino Prisciani et altri [] Et massime considerando che io che pur ho incominciato ad avere un pocho di nome, fusse tratato e judicato ed apparagonato al più tristo garzone di Ferrara…”.

Prisciani fu, dunque, affiancato da altri umanisti e dotti della corte, come Tito Vespasiano Strozzi, autore di una Borsiade [2] in onore di Borso d’Este, e soprattutto Baldassarre d’Este, il colto pittore figlio naturale di Niccolò III d’Este.

La lettura degli affreschi prende l’avvio sulla parete sud, con i primi due mesi e una scena di Torneo. Ad ogni settore delle pareti è dedicato un mese, suddiviso in tre fasce orizzontali: in alto la sfera mitologica, al centro quella astrologica, mentre la zona inferiore raffigura scene della vita e del governo di Borso d’Este. Ogni mese è inserito entro paraste dipinte che vengono a costituire l’intelaiatura architettonica dell’intero ciclo affrescato.

Francesco del Cossa – Borso d’Este amministra la Giustizia, Mese di Marzo 1467-70 –

Si tratta di un raffinato motivo di marca albertiana: Leon Battista Alberti aveva infatti soggiornato a Ferrara tra il 1438 e il 1439 e poi ancora tra il 1441 e il 1443. In particolare, nella fascia superiore del mese di marzo, figura un gruppo di umanisti, tra i quali è stato riconosciuto il ritratto di Leon Battista Alberti. Nel De pictura  (1436) il teorico fiorentino scrive: “Ebbi a dire queste cose della pittura, quali se sono commode e utili a’ pittori, solo questo domando in premio delle mie fatiche, che nelle sue istorie dipingano il viso mio, acciò dimostrino sé essere grati e me essere stato studioso dell’arte”.

L’effigie dell’architetto e teorico fiorentino situata nel mese dedicato a Minerva, dea della sapienza, è dunque una scelta voluta dal pittore Francesco del Cossa e non dal committente Borso ‘d’Este, avrebbe infatti preteso la riconoscibilità di tutti i personaggi che, invece, appaiono indistinti.

A tal proposito oltre la presenza del ricorrente ritratto ufficiale di Borso d’Este, nel registro inferiore degli affreschi la varietà delle acconciature, delle pose e delle espressioni, conferma l’opera di controllo da parte delle personalità più influenti nel programma iconografico come appunto Pellegrino Prisciani e Baldassarre d’Este.

La natura di questo aggiornamento culturale inserisce di fatto gli affreschi di Schifanoia tra i cicli decorativi rinascimentali affiancabili alla celebre Camera degli Sposi (1465-1474 ), dipinta da Andrea Mantegna a Mantova.

Il monumentale calendario di Schifanoia rappresenta, dunque, i dodici mesi dell’anno: nella sfera superiore si trovano le divinità mitologiche, non più planetarie come nella tradizione medievale, rapportabili ai singoli mesi. Si tratta di una novità significativa portata in luce da Aby Warburg in un suo fondamentale studio del 1912[3]. L’iconografia delle divinità mitologiche rimanda al testo redatto da Giovanni Boccaccio tra il 1360 e il 1375 intitolato Genalogia deorum gentilium, presente nei cataloghi della biblioteca estense; l’opera in cui sono interpretati allegoricamente i miti delle divinità pagane vide la sua editio princeps nel 1472.

Nel settore centrale di ogni singolo mese figurano, invece, i segni zodiacali che, secondo la tradizione astrologica, governano i singoli mesi influenzando la vita umana. Fu ancora Aby Warburg a condurre una fondamentale disamina sul problema delle “fonti” astrologiche di Schifanoia permettendo di comprendere l’essenza della tecnica astrologica del tempo e il suo significato in quel lontano primo Rinascimento, animato da un costante colloquio con la cultura antica. Attraverso la memoria delle immagini si può accedere alla peculiare forma mentis dell’uomo rinascimentale che permetteva alla logica astronomica di convivere con la magia e con l’astrologia.

Le figurazioni di Schifanoia sono segno di un’antica tradizione astrologica veicolata dagli Astronomica di Manilio (I secolo d.C.), dall’Introductorium in astronomiam di Albumasar, composto a Bagdad intorno alla metà del IX secolo, e dal trattato di magia talismanica Picatrix. Da queste remote fonti il tema astrologico, così come nell’Astolabium planum di Pietro d’Abano (secolo XIV), confluì plausibilmente nel trattato perduto di un astrologo ferrarese la cui cultura, come quella del De Sphera estense (XVsecolo), rimanda alla tradizione del passato[4]. Il poema di Manilio, come dimostrò pionieristicamente Warburg, è la fonte dello “zodiaco olimpico” di Schifanoia. Il primo decano “indiano” dell’Ariete, così come è descritto nel trattato astrologico di Albumasar, si relaziona alle enigmatiche figure di Ferrara. Secondo quanto riporta Albumasar:

gli indiani dicono che in questo decano si leva un uomo nero dagli occhi rossi, di alta statura, forte coraggioso e di elevati sentimenti; egli porta un’ampia veste bianca, cinta nel mezzo da una corda; egli è adirato, se ne sta dritto e custodisce e osserva”.

Questa descrizione corrisponde al Vir niger del mese di Marzo che Warburg identificò con Perseo l’eroe greco vittorioso, liberatore di Andromeda. Attraverso quella che lo studioso chiamò la “migrazione dei simboli”, l’iconografia di Perseo giunse nel mondo occidentale passando per l’India, dove si rintraccia ancora nel trattato dell’astrologo indiano Varāhaalmihira (VI secolo), al testo dell’astrologo Albumasar (VIII secolo). La lotta contro il mostro era l’emblematica rappresentazione delle dure prove affrontate dall’umanità per svincolarsi dalle paure più oscure.

Picatrix è, invece, il testo magico che racchiude i segreti di Schifanoia. L’originario manoscritto arabo intitolato Ghajat alhakim, cioè “il fine del saggio”, fu composto in Spagna intorno alla metà del secolo XI, tradotto poi in castigliano da Alfonso ‘el Sabio’ nel 1256. Il testo si diffuse poi in Occidente attraverso una versione latina la cui influenza a Schifanoia è comprovabile sia nella fascia mediana che in quella superiore degli affreschi[5].

Il capitolo dedicato alla descrizione dei trentasei decani fa parte del secondo libro, in cui si parla “delle figure celesti e dei loro effetti in questo mondo”.

Francesco del Cossa, Trionfo di Apollo, Allegoria di Maggio

Si tratta della basilare illustrazione di quella “scienza delle immagini” con cui si possono disvelare le virtù e i poteri dei talismani, come descritto nel secondo libro che si apre con il nono aforisma del Centiloquium dello pseudo-Tolomeo: “omnia huius mundi celestibus obediunt formis”. Tutti i sapienti, infatti, concordano nel convincimento che ogni cosa dipende dal moto e dagli influssi degli astri, risalendo alle radici della magia. La pratica magica costituisce il fine, lo scopo del saggio, risultato di un consistente percorso speculativo: per operare sulla realtà, il filosofo-mago deve avere raggiunto una conoscenza completa del mondo e dei segreti rapporti di “simpatia” che regolano il fluire della vita nell’intero universo. Ed è tale conoscenza filosofico-scientifica che autorizza la realizzazione dei talismani dotati di straordinaria forza e potere proprio perché originati dalla “violenza”.

Il termine talismano nel senso di “violator”, come riporta Picatrix, suggerisce una figurazione concepita per ottenere il dominio tramite la violenza e la sua efficacia è determinata da calcoli astronomici che sanciscono gli influssi astrali. I talismani, dunque, sono costituiti da simboli o rappresentazioni, creati nel momento astronomico opportuno, che si pongono in una relazione simpatetica con la relativa divinità astrale. Attratte da calcoli, erbe, pietre e fumigazioni, le forze astrali saranno avvinte dalle immagini costruite dal sapiente filosofo-mago. In base a Picatrix il potere dei talismani è, pertanto, simile a quello della pietra filosofale, dell’elisir che trasmuta la materia. Come conferma il Libro sacro di Ermete ad Asclepio:

“se onorerai ciascun decano con la propria pietra, la propria pianta e la relativa immagine, tu possiederai un potente talismano. Poiché niente accade senza il volere dei decani, dato che in esso il Tutto si compie”.

Warburg apriva il suo saggio su Schifanoia dicendo di essere stato costretto “a scendere nelle regioni semioscure della superstizione astrologica”, attratto dalla riconquista dell’Olimpo greco, le cui divinità maggiori celebrano il proprio trionfo nella fascia superiore degli affreschi. Fra l’Idea platonica di Giustizia, rappresentata da Pallade-Minerva, nella più alta sfera del cielo di Schifanoia, e il mondo della fascia inferiore, dove figura Borso d’Este che amministra con saggezza i suoi domini, sta dunque il regno dei demoni orientali, non ostacolo, ma necessario pathos e tramite per scendere e salire verso la sfera superiore.

I “decani”, posti a capo delle “armate celesti”, osservano l’intero universo, vigili ed inquietanti custodi di quella “parte” che ciascuno è destinato a rappresentare sulla scena del mondo. Essi non sono, perciò, figure di natura divina, in cui si riflettono gli attributi di stelle e costellazioni che si levano e tramontano in una determinata sezione di spazio celeste. Di origine ellenistica essi erano divinità sideree egiziane assorbite poi nell’astrologia caldea e collegate con lo zodiaco, confluite poi in liste delle immagini miracolose provenienti dagli archivi dei templi egiziani. I decani avevano vari aspetti e un preciso significato astrologico, in quanto oroscopi che presiedevano alle forme di vita nate nei periodi di tempo da essi controllati, i dieci gradi del segno zodiacale di riferimento, assimilati ai pianeti posti sotto il loro dominio, e ai segni dello zodiaco. Negli affreschi i tre decani di ogni singolo mese astrologico erano pertanto collegati con ciascun segno zodiacale, del quale costituivano le tre “facce” dalla potenza misteriosa[6].

Trionfo di Minerva, Allegoria di Marzo

Il ciclo iniziava in realtà sulla parete sud con i mesi Gennaio e Febbraio, ciascuno tra due porte tra le quali figurava una scena di Torneo, ne restano testimonianze dalle copie ottocentesche di Giuseppe Mazzolani, tramite i recuperi in fase di restauro fu possibile ricostruirne almeno il tema. Al mese di Gennaio apparteneva il segno dell’Aquario, forse con il trionfo di Giunone o di Giano, la fascia sottostate doveva mostrare la proclamazione Borso d’Este a duca di Ferrara tra personaggi della sua corte, ma ne resta solo un frammento.

Febbraio era dedicato al segno dei Pesci con il trionfo di Nettuno e l’Incoronazione di Borso, restano ai lati dell’affresco frammenti di Cortile di Castello e di Cavalieri. Dopo il mese di Marzo con il trionfo di Minerva, il segno zodiacale dell’Ariete.

Trionfo di Venere, Allegoria di Aprile
Borso d’Este e il buffone Scoccola

Segue Aprile con il trionfo di Venere, il segno del Toro e Borso d’Este che, tornato dalla caccia, dona una moneta al buffone Scoccola per poi assistere al Palio di San Giorgio. Nel seguente mese di Maggio trionfa Apollo (vedi figura sopra) accompagnato dal segno dei Gemelli e con scene della vita campestre e di contadini che falciano. Anche la parete nord è ben conservata. Dopo un gruppo di cavalieri con pennoni, attribuito a Baldassarre d’Este, fratellastro di Borso, che amava dedicarsi alla pittura, seguono Giugno con il trionfo di Mercurio attributo al cosiddetto Maestro degli occhi spalancati, il segno del Cancro seguito nella parte inferiore da Borso d’Este in corteo che ascolta una supplica; sullo sfondo la banchina di un porto fluviale.

 

Trionfo di Mercurio, Allegoria di Giugno

Al medesima mano si ricondurrebbe anche il mese di Luglio con il trionfo di Giove e Cibele, il segno del Leone e in basso Borso d’Este che riceve un gruppo di ambasciatori.

Trionfo di Giove, Allegoria di Luglio

Ad un’altra mano appartiene il mese di Agosto, con il trionfo di Cerere e il segno zodiacale della Vergine e in basso Borso d’Este che riceve ambasciatori e parte per la caccia.

Trionfo di Cibele, Allegoria di Agosto

Il mese di Settembre mostra il trionfo di Vulcano, il segno della Bilancia e una scena di Borso in parata: in questo affresco Longhi individuava l’esordio di Ercole de Roberti, autore forse anche di una cavalcata settembrina.

Trionfo di Vulcano, Allegoria di Settembre

Sulle pareti appaiono anche raffigurazioni del cortile del castello. La decorazione della parete ovest è quasi completamente perduta: vi figuravano il mese di Ottobre, sotto il segno dello Scorpione e con il trionfo di Marte. Nel mese Novembre, con il Sagittario dove si trova il trionfo di Diana, probabilmente con una scena di caccia, mentre nell’ultimo mese di Dicembre, sotto il segno del Capricorno, si conserva il Trionfo di Vesta, anche se il volto della dea è completamente perduto.

L’efficiente organizzazione di lavori, condotti a termine in breve tempo all’insegna di criterio di uniformità, si deve al largo uso dei cartoni preparatori che consentivano velocità di esecuzione e omogeneità nella rappresentazione. I cartoni permettevano di lasciare sull’intonaco fresco il tracciato del disegno, che poi veniva completato col colore; ogni cartone veniva usato più volte, apportando le eventuali varianti: i ciclopi con il braccio alzato nell’officina di Vulcano, nel mese di Settembre sono, ad esempio, due immagini speculari.

Un gruppo fondamentale di cartoni è quello predisposto per rappresentare il Duca Borso a piedi e a cavallo, la cui effigie doveva essere sempre riconoscibile. La sala era infatti destinata all’esaltazione del duca e non contemplava interventi difformi nella sua rappresentazione. Proprio l’utilizzo dei cartoni ne permise la sua immediata identificazione in ogni campo della fascia inferiore degli affreschi. Ed è proprio questo il tema conduttore dell’intero ciclo che può offrire lumi sulla complessa vicenda attributiva, che deve comunque tenere in giusto conto la Sala come il risultato di un’opera collettiva in cui una singola personalità non può avere un ruolo egemone. Lo si deduce anche dal tono della lettera del Cossa, dall’esigenza di celerità da parte della committenza che permise una realizzazione degli affreschi in un ridotto arco di tempo.

Il binomio arte e potere nella corte di Borso d’Este si rappresenta anche attraverso le imprese o divise araldiche, come già accaduto per i suoi predecessori, trattandosi di un’usanza proveniente dal Medioevo [7]. Le “imprese” estensi facevano parte della vita quotidiana della corte e venivano riprodotte in diverse occasioni: Palazzo Schifanoia non rappresentava certo un unicum a questo proposito. In età borsiana, soprattutto, si ebbe una grande proliferazione di immagini di questo tipo, non solo nell’apparato esterno degli edifici di rappresentanza, ma anche all’interno di opere pittoriche e scultoree e, addirittura, per l’ornamento di oggetti quotidiani come abiti, sigilli e persino stoviglie di ceramica. Le “imprese” venivano usate per decorare alcune monete e medaglie identificando le caratteristiche principali di colui che reggeva la città in quell’epoca: Borso fu indubbiamente colui che, fra gli Estensi, diede impulso alle tipologie più varie anche per quanto riguarda la numismatica.

Unicorno, portale palazzo Schifanoia

A Palazzo Schifanoia, il portale d’ingresso il cui impianto architettonico si deve a Pietro di Benvenuto degli Ordini e le cui sculture a rilievo sono variamente attribuite a Biagio Rossetti o allo stesso Francesco del Cossa, concentra varie imprese, simbolo delle qualità morali del duca. L’unicorno, simbolo di purezza, ha due tipologie: la prima, che precede l’epoca di Borso, mostra l’animale con il capo eretto e le fauci digrignate, simbolo di ferina vitalità; la seconda con il corno immerso nell’acqua ed un aspetto mansueto, come si conviene al modello borsiano, parte della decorazione dello stipite anteriore sinistro del portale. Come altre, tale impresa compare all’interno del palazzo, nella Sala delle virtù, nella Sala delle Imprese e nel Salone dei Mesi come creatura mitologica.

Tra le tipiche imprese borsiane figura il “paraduro” o “FIDO”, ovvero una specie di palizzata costituita da travi di legni sottili inchiodati ed intrecciati con rami di salice che servivano di sostegno e rincalzo agli argini dei grandi fiumi, una forma di più elaborato paraduro mostra anche una zucca galleggiante. Il fonte battesimale esagonale aperto con una ciotola galleggiante nell’acqua, ovvero il cosiddetto battesimo, era simbolo della religiosità di Borso; la chiavadura todescha o picchiotto, altra enigmatica impresa, identificata come battente da porta alludeva alle capacità di Borso come l’Abbeveratoio dei colombi, detto anche colombarola o abbeveraduro o anche la chiodara, un asse di legno con ‘chiodi fitti suso’ o ancora il sole e il fuoco, fino alla rara bussola e all’aquila bicipite, tutte figuravano tra le imprese del duca ad indicare le sue specifiche qualità di forza, coraggio, e si ritrovano nella Sala delle Imprese di palazzo Schifanoia o nel soffitto ligneo della Sala dei Mesi, una sorta di compendio simbolico della famiglia d’Este che nel tempo aveva acquisito una sua codificazione.

Domenico di Paris e Buongiovanni da Geminiano, Sala degli stucchi o delle virtù (1467)

Si ravvisano anche simboli provenienti dalla tradizione più antica, come nello scomparto inferiore del mese di Marzo, la lucertola che appare su una colonna diruta che sostiene frammenti di un tempio [8]. Essa appare in una ‘giornata’ ampia priva di figure umane ove sono compresi i due archi e una porzione di paesaggio nella parete indubitabilmente riferita a Francesco del Cossa, come si evince dalla citata supplica indirizzata a Borso d’Este il 25 marzo 1470. La lucertola non è reperibile tra le ‘imprese’ di Borso e nelle immagini a lui collegate, e rimanda ad una scelta colta del pittore.

Secondo quanto riferisce Plinio, Sauro e Batrace eressero, nel Portico di Ottavia, i templi dedicati a Giove e Giunone Regina; ognuno di loro come propria firma scolpì una lucertola ed una rana su una colonna:

Sunt certe etiam nunc in columnarum spiris inscalptæ nominum eorum argumento lacerta atque rana.”

Nei monumenti dell’età classica era infatti diffusa la presenza di animaletti all’interno di elementi vegetali, come ad esempio sulle lastre marmoree della Ara Pacis Augustæ.

Francesco del Cossa, Pala dell’Osservanza, Dresda

Cossa evidentemente non ignorava sia la tradizione letteraria che le opere, a lui note attraverso i taccuini di disegni che circolavano nelle botteghe e forse anche da reperti locali. I simboli hanno spesso valenze contrapposte e ciò  vale anche per la lucertola, considerata “simbolo del male e animale infausto” (Levitico 11, 29), ma al contempo essa può assumere un significato positivo, rappresentazione di fedele custodia, di affezione, benevolenza, amore. A Schifanoia essa rappresenta il pittore che si firma simbolicamente come ripeterà, seguendo l’esempio pliniano, nella Pala dell’Osservanza, ora nella Pinacoteca di Dresda datata ancora al 1470, probabilmente dopo l’impegno ferrarese, qui tra le linee di fuga del pavimento si vede una chiocciola dal medesimo significato della lucertola.

Ma un altro elemento emerge dalla complessa sintesi figurativa di Schifanoia: il teatro.

Dalla seconda metà del XV secolo, infatti, la pratica teatrale vive a Ferrara un momento privilegiato: gli Estensi affidano all’umanista Pellegrino Prisciani un’impresa culturale finalizzata al recupero dei testi e del teatro classico. La rappresentazione dei Menecmi di Plauto come di altre opere, segna l‘inizio di un percorso coerente. La festa confluisce nello spettacolo teatrale denso di riferimenti alla mitologia: nasce l’uso degli intermezzi musicali per arricchire fastosamente la messa in scena. Lo spettacolo teatrale si trasferisce dalla piazza allo spazio ‘reservato’ della corte che, in tal modo, celebra il proprio ruolo dominante sotto il profilo culturale e politico. Secondo l’istanza rinascimentale queste rappresentazioni divenivano luogo manifesto della continuità con il mondo antico e con il mito di Roma, continuità di cui il casato estense si fa garante da Borso d’Este a Ercole I in particolare. L’autorità del mondo classico consolida infatti l’immagine della corte e del suo potere sul territorio.

Nella Ferrara quattrocentesca l’idea dell’antico è operante, non solo nella pratica scrittoria di traduzione e adattamento dei testi classici, ma anche come fucina dell’immaginario spettacolare. L’esperienza e la cultura materiale dello spettacolo, fecondate dall’ideologia della corte e dagli intenti celebrativi del principe, agiscono in scena sia nella commedia che nell’intermezzo di matrice mitologica, come pure nella figurazione pittorica secondo una tipologia di spettacolo  definito “mescidato”.

Oltre il ruolo significativo di Baldassarre d’Este nella realizzazione della complessa trama degli affreschi non vi è ugualmente dubbio che tra gli ispiratori vi sia stato Pellegrino Prisciani (1435-1518) poliedrica figura di umanista di corte segnalatosi fin dai tempi di Borso, come erudito ed esperto di studi astrologici. Archivista presso lo Studio almeno dal 1455, diplomatico e consigliere di Borso d’Este prima e di Ercole I poi, Prisciani è figura di primo piano come prezioso collaboratore nella politica di egemonia culturale della corte estense.

Il memorabile saggio di Zorzi [9] offriva una straordinaria lettura di quella che Burckhardt aveva definito ‘la prima città moderna d’Europa’ ove l’organismo medievale e il tessuto rinascimentale permangono connessi. Il dominio estense dura per quasi tre secoli determinando in modo egemonico l’evoluzione politica, culturale e artistica della città: la rappresentazione del potere entra nel tessuto connettivo della città, dall’urbanistica, ai programmi decorativi, dal cerimoniale alle manifestazioni pubbliche e l’eredità cavalleresca si intreccia con i nuovi fermenti umanistici.

Pisanello, Ritratto di Leonello d’Este (c.1444)

L’età del colto Leonello d’Este, in proficuo rapporto con l ’umanista Guarino da Verona, rappresenta una svolta radicale determinata dall’intenso lavoro di acquisizione di testi classici latini e greci e dalla rifondazione dello Studio ferrarese, ove confluiscono umanisti provenienti dal mondo orientale che occidentale. Il successore meno colto, Borso d’Este, si rivela però abile politico, utilizzando la cultura e l’arte come strumenti di affermazione personale e, dunque visiva, del suo potere.

L‘esempio più significativo è costituito appunto dagli affreschi di Palazzo Schifanoia, la cui alta cifra intellettuale e cortese denuncia una peculiare concezione dello spazio dove si compenetrano le vedute della città reale e di quella immaginaria. Le natura illusionistica e ludica delle scene dipinte si comprende attraverso una disamina in chiave teatrale che coincide con le teorie di Pellegrino Prisciani e con le sue competenze teatrali, i luoghi scenici albertiani, citati nel trattato Spectacula [10]. Le fonti del testo si rintracciano nel De architectura di Vitruvio, cui Prisciani dedica rispetto e considerazione preminenti, il De re edificatoria di Leon Battista Alberti, la Roma instaurata di Flavio Biondo e, in misura minore, la Naturalis Historia di Plinio.

Il trattato Spectacula deve servire al principe come testo di erudizione, ma anche come manuale da consultare per la risoluzione delle problematiche inerenti la politica teatrale ferrarese. Anche se il trattato è posteriore agli affreschi del 1470, l’interpretazione vitruviana della scena non si discosta da quella proposta dai pittori di Schifanoia. La zona inferiore degli affreschi corrisponde all’ordine reale della città, come ad esempio nella scena che fa da sfondo alla corsa del Palio di san Giorgio nel mese di Aprile: una corsa a carattere derisorio effettuata da popolani e asini sotto lo sguardo divertito della corte. Diversi particolari tecnici evidenziano la natura scenica di questa ambientazione:

sopra al ripiano del proscenio, alla destra e alla sinistra, è visibile quella che il Prisciani chiamava “la fauce del theatro”, ovvero gli stipiti delimitanti il boccascena. L’arco tronco di destra, dietro al quale scompaiono le figure dei cavalli in corsa, segna il passaggio al loco della scena, nello zoccolo di sostegno alle architetture si individuano i fornici aperti di alcuni accessi al sottopalco.

Indicativa in questa lettura appunto scenica è la rappresentazione del mese di Settembre, dove figura il Trionfo di Vulcano. Accanto all’officina dei ciclopi un ovato in forma di scudo appena fabbricato raffigura l’emblema di Roma Caput Mundi. La genealogia estense si intreccia con il mito di Roma asservito al progetto di Borso che, nel 1471, si recherà solennemente a Roma per l’investitura pontificia a primo duca di Ferrara. L’affresco è da intendersi, dunque, come un omaggio al mito di Roma, noto sin dal medioevo anche attraverso l’ampia circolazione Mirabilia: secondo un topos rinascimentale anche la famiglia estense rintraccia le proprie radici in quel mondo antico[11]. La piantazione a cellette contigue, i tetti a cupola depressa sul modello del Pantheon, la presenza della Mole Adriana sulla destra e dell’Arco trifornice di Costantino, sono elementi che si protraggono a lungo nella scenotecnica rinascimentale e tra gli quasi esempi contigui si può citare ancora una committenza estense, quella del cardinale Ippolito II nella Villa d’Este di Tivoli, la cosiddetta Rometta (una fontana) che chiude, con effetto illusionistico tra decorazione e scenografia, l’estremità del viale delle Cento Fontane.

Nella delizia di Schifanoia, che aveva diverse funzioni di svago e rappresentative, si rintraccia dunque in termini figurativi l’esaltazione della corte che manifesta il proprio ruolo in una realtà illusoria che si fonde con quella reale. E lo stesso criterio viene adottato nelle feste che si tengono a Ferrara proprio negli stessi anni e ancora, sul finire degli anni ‘80, quando ha inizio la grande stagione del teatro ferrarese centrato sulla sintesi tra teatro cortese e rinascita del teatro classico [12].

Palazzo Schifanoia rappresenta, dunque, un luogo simbolo per la storia di Ferrara. La sua straordinaria importanza risiede nell’essere l’unica fra le residenze urbane costruite dagli Estensi ad aver conservato nella sua forma quasi originaria un ciclo figurativo, testimonianza assoluta di una straordinaria transizione.

Stefania MACIOCE  Roma  4 ottobre 2020

NOTE
[1] Anton Francesco Doni(1513/1574), Le Ville  in Bologna : Appresso Alessandro Benacci, 1566.
[2] Stefania Macioce, La “Borsiade” di Tito Vespasiano Strozzi e la “Sala dei Mesi” di Palazzo Schifanoia,  in Annuario dell’Istituto di Storia dell’Arte, N.S. 2.1982/83(1983), 3-13.
[3] A. Warburg, Italienische Kunst und internationale Astrologie im Palazzo Schifanoia zu Ferrara, in L’Italia e l’Arte straniera. Atti del X     Congresso Internazionale di Storia dell’Arte, 1912, Roma 1922, pp. 179-193.
[4] Biblioteca estense universitaria, cat-este-incunaboli-luppi (Incunaboli) Catalogo degli incunaboli / A cura di Milena Lupp   http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/cat/i-mo-beu-cat-este-incunaboli-luppi.html
[5] Marco  Bertozzi Il talismano di Warburg: considerazioni sull’impianto astrologico di palazzo Schifanoia in  Alla Corte degli Estensi, 1994, 199-208; ID.  La tirannia degli astri. Gli affreschi astrologici di palazzo Schifanoia, 1999.
[6] Frances A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, (1964) Bari, Laterza 1969, pag. 61.
[7]  Werner L. Gundersheimer, Ferrara estense. Lo stile del potere, Modena, 2006.
[28 Ranieri Varese, Una lucertola a palazzo Schifanoia in ‘Tutte le opere non son per instancarmi’ raccolta di scritti per i settant’anni di Carlo Pedretti a c. di Fabio Frosini, Roma, Edizioni Associate 1998 pp. 425-436; Atlante di Schifanoia, a cura di R.Varese, Modena, 1989.
[9] Ludovizo Zorzi,  Ferrara il Sipario ducale , Torino Einaudi 1977
[10] La corte e lo spazio estense, (Vol. 1-9) a cura di G. Papagno e A.Quondam, Roma, 1982.
[11] Stefania Macioce, L’immagine di Roma nella cultura ferrarese della Rinascenza, in Le due Rome del Quattrocento, a cura di S.Rossi e S.Valeri, Roma, 1997, pp. 394-404 ; Stefania Macioce,  Roma e l’antico nella cultura ferrarese del secondo ’400 , in Roma nella svolta tra Quattro e Cinquecento, a cura di S. Colonna, Roma, 2004, pp.313-324
[12] Elena Povoledo, La sala teatrale a Ferrara da Pellegrino Prisciani a Ludovico Ariosto in “Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio”, 16.1974, 105-138