di Margherita FRATARCANGELI Storica dell’Arte
Margerita Fratarcangeli è laureata con lode in Materie Letterarie vecchio ordinamento, indirizzo storico-artistico, presso l’Università di Roma Tre (1995) dove consegue anche il Dottorato in Storia e conservazione dell’oggetto d’arte/d’architettura (2001). Ottiene borse di studio pre e post dottorato e assegni di ricerca da importanti istituti di ricerca (Scuola Normale Superiore di Pisa, 1997; Università della Calabria, 2001-03 e 2003-05; Bibliotheca Hertziana di Roma, 2003-04; Harvard University Center Italian Renaissance Studies, Villa I Tatti, 2011; Università di Tor Vergata, 2020).Tra il 2001-10 svolge incarichi scientifici presso il Max Planck Institut-Bibliotheca Hertziana di Roma: ricerche documentarie, cura redazionale di convegni/cataloghi, assistenza scientifica al direttore. Ha partecipato a 32 convegni nazionali e internazionali; ha all’attivo numerose pubblicazioni tra volumi, articoli, contributi in volumi e cataloghi; con questo saggio inizia la sua collaborazione con About Art
A.A.A. cercasi.
Pittore referenziato, amante della natura e del paesaggio, cerca casa e ispirazione sui Colli Albani
«Quando lasciai Roma c’era un tempo selvaggio, e in tutta la Campagna stavano dilagando nuvole di un blu sulfureo, con il rombo di uno o due tuoni, e bagliori solari che si infrangevano lungo l’acquedotto Claudio illuminando le sue arcate infinite come il ponte del caos. Ma mentre salivo il lungo pendio del Monte Albano, la tempesta finalmente si spostò verso nord, e il nobile profilo delle cupole di Albano, e l’aggraziata cupezza del suo boschetto di lecci, si ersero contro strisce pure di azzurro e ambra alternati; il cielo in alto si stava gradualmente ripulendo dagli ultimi frammenti di nubi di pioggia in un profondo palpitante azzurro, metà aria e metà rugiada. Il sole di mezzogiorno calava obliquamente lungo i pendii rocciosi della Riccia, e le masse di alto, aggrovigliato fogliame, le cui tinte autunnali erano mescolate con il verde umido di un migliaio di sempreverdi, ne erano pervase come dalla pioggia. Non posso chiamarlo colore, era conflagrazione. Viola, cremisi e scarlatto, come le tende del tabernacolo di Dio, gli alberi esultanti sprofondarono nella valle in una pioggia di luce, ogni singola foglia tremante di vita vivace e ardente; ciascuno di essi, mentre si girava per riflettere o trasmettere il raggio di sole, prima una fiaccola e poi uno smeraldo».[1]
È Ruskin a consegnare ai posteri questo poetico brano, che ben restituisce la «conflagrazione» di colore che si aveva salendo da Roma verso il Monte Albano. Ruskin è solo uno dei tanti letterati rimasto abbagliato dalla «pioggia di luce» che quell’angolo di mondo, srotolato lungo l’antica consolare Appia, emanava. Prima e dopo di lui molti ne verranno affascinati.[2]
Gli artisti e i letterati che fruirono il territorio dei Colli Albani nel corso dei secoli (e qui ci riferiamo al periodo cosiddetto del Grand Tour) coprono, per provenienza, l’intero panorama europeo ma non solo. Dai molti viaggiatori il comprensorio è per lo più percepito come una propaggine di Roma, per vicinanza e per assonanza, tuttavia esso ha mostrato a ciascuno la propria marcata personalità, che certamente non è riconducibile a quella popolarmente e semplicisticamente nota di territorio preposto ad una fruizione eno-gastronomica.
I viaggiatori che arrivavano sul territorio cercavano una natura primigenia, un clima gradevole, un’intensa e cristallina luce e una bellezza arcaica della popolazione.
Tra i cantori del territorio vi fu ovviamente Johann Wolfgang von Goethe. Questi descrisse paesaggi come se fossero il culmine di esperienze visive:
«le nubi si diradano a poco a poco, qua e là si affacciò l’azzurro, e finalmente il sole splendette […]. Attraversammo Albano, e sostammo all’ingresso d’un parco di proprietà del principe Chigi (fig. 1), il quale lo tiene – non si può dire «lo mantiene» – nel modo più bizzarro, ragion per cui non vi ammette i visitatori. Ciò che si vede è una vera selva: alberi e sterpi, erbacce e tralci crescono a capriccio, seccano, cadono, marciscono. Bene così, anzi meglio che mai. Il luogo antistante l’ingresso è bello da non si dire: un’alta muraglia chiude la valle, una cancellata lascia penetrare lo sguardo, e subito comincia la salita del colle in cima al quale sorge il castello. In mano a un vero artista ne uscirebbe un magnifico quadro».[3]
Più o meno negli stessi anni dalla penna di Johann Gottfried Seume, pure questi tedesco, esce altro. Anche Seume arriva davanti la cancellata del parco Chigi ma, meno poeticamente di Goethe, esprime il desiderio belligerante di conoscere il principe Chigi, del quale aveva sentito dire fosse un letterato, un poeta
«bucolico e idilliaco di specie particolare, poiché nel suo parco ha fatto abbattere i viali di querce più belli e maestosi, e su quel che è restato manda a pascolare i porci bradi, quasi che volesse nutrirsi soltanto del loro grasso. Questo fatto ha suscitato tale indignazione, specialmente fra i pittori e disegnatori, per cui è stato formalmente messo al bando, e non so come riuscirà a cavarsela. Ciò nonostante, questa contrada, una delle più belle d’Italia, dove la natura selvaggia e la civiltà sembrano impegnate in un’eterna lotta, produce una singolare e benefica impressione specialmente su chi ha appena lasciato lo squallore di Roma».[4]
Dai due brani qui riportati è evidente come il parco Chigi in Ariccia abbia fatto presa sull’immaginario e abbia costituito per il viaggiatore europeo un richiamo intenso e profondo, a conferma del fatto che il grand tourista ha sempre avuto un forte interesse paesaggistico e naturalistico: l’incolto bosco diveniva quasi sacrale, tanto da essere meta devozionale dell’itinerario che lambiva la via Appia Antica.
Chi ha saputo e voluto cogliere l’urlante peculiarità dell’area castellana non ha più voluto privarsene. E basti citare una confessione epistolare del pittore François-Marius Granet (1775-1849), datata 1811, per avvicinarsi a comprendere una delle tante anime che hanno attratto gli uomini verso queste aree:
«Non potete farvi un’idea, bisogna essere qui per ritrovare questa ammirazione che porta fino all’incanto».[5]
Ritrovare il perduto incanto è, dunque, la leva che porta molti a viaggiare e ad intrattenersi sui colli ad est di Roma, dove il
«panorama è sconfinato: si vede in basso Roma e più lontano il mare, a destra i monti di Tivoli e via dicendo. In questa regione piacevole le case di campagna sono veramente fatte per il piacere, e come i Romani antichi avevano qui le loro ville, così, da cent’anni e oltre, romani ricchi e amanti dello sfarzo hanno gettato, nei punti più belli della zona, le radici di nuove dimore. Già da due giorni ci aggiriamo per questi luoghi e troviamo sempre qualcosa di nuovo e di incantevole».[6]
Ad aggirarsi per questi luoghi e a parlarne così è sempre Goethe. Egli è ad Albano e preferisce non descrivere la vita che conduce, affermando che potrebbe sembrare
«troppo spensierata. Mi dedico soprattutto al disegno del paesaggio al quale incitano irresistibilmente questo cielo e questa terra».[7]
Sono parole che riconsegnano appieno il potere evocativo di un luogo e il significato idilliaco dello spirito settecentesco.
In qualsiasi museo italiano, europeo o extra continentale è relativamente facile imbattersi in tele, acquerelli, stampe, disegni che ritraggono brani paesaggistici e naturalistici dei Colli Albani. Gli autori delle opere sono inglesi, svedesi, svizzeri, danesi, francesi, americani e, ovviamente, italiani. Un censimento è ancora tutto da fare e forse non sarà mai possibile approntarlo, certo è che tra il Seicento e la fine dell’Ottocento una moltitudine d’individui passeggiarono e guardarono il territorio con un taccuino alla mano: testo scritto e testo figurato che spesso dialogano e si compendiano.
Molti viaggiatori raggiunsero i Colli e passarono, allora come oggi, frettolosamente altrove, molti altri preferirono semplicemente alloggiare, anche per lunghi periodi, in locande oppure accettare ospitalità nelle case dei propri committenti o interlocutori. Altri viaggiatori decisero di soggiornare lungamente sul territorio, prendendo in affitto o, più definitivamente, acquistando una casa, un casino di caccia o un appartamento. La scelta del luogo e del paese variava in base alle singole propensioni, alla facilità o meno con il quale quel territorio era fruibile, alla vicinanza o meno di altri artisti e/o personalità riconosciutamente polo di aggregazione. Alcune cittadine sembrano raccordare insieme tutte queste propensioni: Frascati, Castel Gandolfo, Albano, Ariccia…
Un artista presente nei Colli Albani fu ad esempio il paesaggista Nicolas-Didier Boguet (1755-1839), che dedicò decine e decine di disegni all’intero territorio, conservati in massima parte presso l’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma.
Boguet (fig. 2) era giunto a Roma nel 1783 e, salvo un periodo di circa due anni a Firenze e un viaggio nel nord Italia, eleggerà questa città a sua patria per mezzo secolo, sino alla morte; mezzo secolo in cui fu il punto di riferimento per altri paesaggisti europei, nonché amico di poeti, quali Stendhal e Chateaubriand. Le sue vedute erano richiestissime dai viaggiatori stranieri di passaggio nella capitale pontificia. Nonostante un inizio formativo presso l’Accademia Reale di Pittura e Scultura, si volse ben presto verso la pittura di paesaggio che sentiva evidentemente più congeniale, tanto da divenire una sorta d’erede spirituale dell’opera di Nicolas Poussin e Claude Lorrain.
Il suo modello era la natura, che andava riscoperta e riproposta in modo nuovo: Roma, ma in particolare la campagna romana, divennero i suoi ateliers en plein air. Durante la primavera e l’estate era un infaticabile viaggiatore alla ricerca di panorami, alberi, scorci da fermare su fogli che erano rielaborati o trasformati in tele nel chiuso del proprio studio, durante l’inverno. I disegni lasciati da Boguet sono un esempio dell’attenzione con la quale aveva guardato i luoghi e la natura dei Colli Albani: sono schizzi di una sensibilità atmosferica anticipatrice degli esiti del vedutismo della fine del secolo XIX (fig. 3).[8]
Tanto forte dovette essere il richiamo della campagna laziale, che decise di acquistare negli anni Venti dell’Ottocento una casa ad Albano, ove amava passare i lunghi periodi estivi, lontano dalla calura romana e soprattutto vicino ai paesaggi che aveva imparato ad apprezzare.
Purtroppo non sappiamo esattamente dove fosse ubicato il suo alloggio ma un’idea del luogo la possiamo avere affacciandoci dalla sua finestra: all’incirca nel 1820 infatti François-Marius Granet immortalava in un acquerello (fig. 4) il paesaggio che vedeva dalla casa dell’amico Boguet.
Lo scorcio è familiare. Le scarnite abitazioni in primo piano, radicate su strutture più antiche non sono altro che una parte dell’insediamento medievale di Albano, cresciuto sulle note terme di età romana: il cosiddetto complesso termale di Cellomaio.
Il foglio è chiuso a destra dall’emergenza del campanile romanico della chiesa di San Pietro, mentre a sinistra la scena sfuma verso un orizzonte che, allora, era brullo e de-antropizzato, e che giungeva sino al litorale tirrenico. È pertanto ipotizzabile che la sua abitazione fosse all’altezza dell’attuale piazza Antonio Gramsci, prospiciente la via Appia Nuova.
La stessa scena, vista con un focus più ampio, è in un disegno realizzato da Boguet nel 1834, sempre probabilmente preso dalla sua finestra (fig. 5), ove troviamo l’intero e dettagliato complesso delle terme romane di Albano, l’agglomerato medievale che le invade e, a chiudere, sulla destra, nuovamente la torre campanaria della chiesa di San Pietro.
Ma i soggiorni di Boguet ad Albano sono documentati anche dalla corrispondenza che intrattenne con François-Xavier Fabre; le lettere attestano pressoché costantemente la presenza nella cittadina del pittore e del figlio, ma spesso anche di molti ospiti, tra giugno e novembre di ogni anno.
È del 2 aprile 1820 un’epistola nella quale Boguet ad esempio lamenta i disagi per un processo intentato nei suoi confronti dall’ex proprietario della casa:
«Vous pouvez vous faire une idée combien cela doit m’amuser, en vous figurant que c’est ancore pire que la goutte. J’espère que cela finira, et je crois avoir raison; mais il y a toujours à craindre, dans un pays où les lois ne sont pas claires et où il dépend des hommes de les faire pencher du côte qu’il leur plaît. Quoiqu’il en puisse arriver, cela ne lasse pas de me donner beaucoup à faire et encore plus à penser».[9]
Il paragone con la giustizia francese era, a quanto pare, inevitabile!
Oltre Bouget, qualche decennio prima aveva deciso di trovare una residenza stabile ad Albano anche Jakob Philipp Hackert (1737-1807). Questi fu a Roma tra il 1769 e il 1786 e fu costantemente presente sui Colli Albani (fig. 6), spesso ospite a Frascati di Johann Friedrich von Reiffenstein (consigliere e direttore dell’Accademia di Belle Arti della Corte Imperiale di Russia a Roma) e a volte dimorante in locande.
La sua attenzione per i dintorni di Roma, visitati anche con il fratello Georg, gli consentirono di ritrarre in un centinaio di disegni i paesaggi osservati: questo procedere divenne programmatico per il pittore, che usò la propria abitazione romana soltanto come punto di partenza per i numerosi spostamenti e come studio per eseguire i quadri commissionati dai grand-touristes o da altri committenti, basandosi appunto sugli studi eseguiti in campagna.[10] Molte fonti letterarie (tra le quali l’immancabile Goethe) tramandano la sua presenza ad Albano, dove prese in affitto una casa e dove passava regolarmente l’estate, dedicando disegni alla via Appia, al paesaggio campestre e ai laghi. La Veduta dei Colli Albani con Castelgandolfo e Marino sul fondo (spesso citata erroneamente come Veduta dei Colli Albani con Ariccia sul fondo, fig. 7), dipinta dall’artista una volta abbandonata Roma per Napoli, ne è un’esemplare esplicitazione.
Al suo soggiorno albanense devono poi esser ricondotti una serie di disegni nei quali il protagonista è un maestoso albero: due fogli datati 1776 e 1777 con una pianta di Ariccia e tre alberi di Albano (fig. 8).
Gli alberi furono tra i soggetti più richiesti dell’opera del maestro tedesco, tanto che egli giunse ad affermare che
«niente piace di più in natura, disegnato o dipinto, di un bell’albero, con rupi o altri alberi in secondo piano. Una certa distanza rende bello il paesaggio in cui l’albero spicca come primo elemento».[11]
A documentare Hackert ad Albano sono purtroppo solo i disegni, nulla sappiamo al momento sulla sua abitazione.
Altro artista, svizzero di nascita, che decise di acquistare un immobile nei Colli Albani fu François Keiserman (1765-1833, fig. 9). Egli giunse nella capitale pontificia nel 1789, come assistente del paesaggista Louis Rodolphe Ducros e, salvo sei anni trascorsi a Napoli, tenne stabilmente residenza a Roma fino alla sua morte, convertendosi pure al cattolicesimo nel 1822. Keiserman dipinse quasi esclusivamente acquerelli, raffigurando sistematicamente i più importanti scorci della città papale e dell’entroterra, riuscendo ad entrare nel giro di importanti committenti e procurandosi in particolare la protezione dei coniugi Paolina Bonaparte e Camillo Borghese.
Il catalogo dell’artista è ancora da sistematizzare[12], ma da quello che conosciamo emerge la preferenza che l’elvetico ebbe per i paesaggi dei dintorni di Roma, ed in particolare per l’area albana, dove è documentato a più riprese (ospite spesso dei suoi committenti) e dove nel 1811 acquistò una residenza di campagna. La sua presenza sul territorio è evidenziata non solo dalla sua produzione grafica ma anche da quanto lasciò scritto l’architetto Béat de Hennezel (1733-1810), giunto a Roma dalla Svizzera nel 1791, residente per un periodo nella casa romana di Keiserman e con il quale nel 1792 condivise parte di un viaggio nella Campagna Romana.
Hennezel descrive il connazionale come un uomo dal carattere difficile o meglio «impertinent sans caractère» e dai modi a volte feroci:
«C’etait un petit peintraillon, mignardiste, camarade du désagréable Keiserman. Il était un peu bête, amoureux de sa petite figure, s’imaginant que toutes les femme qui le regardaient étaient éprises de lui; il avait la passion de la parure, et mettait tous ses petits gains en habits. Petit en tout, en figure, en talents, en caractère, en passions et fort ennuyeux».[13]
I due artisti trascorrono circa un mese vagabondando attorno al vulcano laziale, avendo per base una locanda a Genzano e impiegando il tempo a disegnare. Risalgono proprio a quel periodo e a quel sodalizio un acquerello di Kaiserman con uno scorcio dell’agglomerato cittadino (fig. 10) e una piccola gouche intitolata Vue de ma fenêtre à Gensano, di Hennezel.
Nel 1811 Keiserman decise al fine di acquistare, durante una vendita all’asta dei beni delle congregazioni religiose, una residenza ad Ariccia – ossia una porzione dell’attuale edificio Bonaparte-Primoli (fig. 11), posto accanto alla chiesa di san Nicola -, che verrà alienata però subito dopo la sua morte dall’erede, il nipote e pittore Charles François Knébel (1810-1877).
Sono solo frammenti di vita, assemblaggi letterari e visioni pittoriche quelli fin qui proposti, che restituiscono a ogni buon conto, e nostro malgrado, una tela narrativa dei luoghi consentendo di riappropriarci di un passato prossimo che velocemente sta disgregandosi, ma che tuttavia pare ripetere sommessamente, ai viaggiatori di allora come a quelli di oggi, di spingersi oltre Roma per trarne ispirazione e forza anteriore e per ripartire, forse, accresciuti. A.A.A. guardasi e cercasi.
Margherita FRATARCANGELI Roma 28 febbraio 2021
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