di Mario URSINO
I colori delle carte di Marco Sinorio, autore sconosciuto
Non è certo una novità dipingere con la carta, vi sono precedenti illustri, da Matisse a Picasso a Braque con i loro papiers collés. Ma i collages di un autore sconosciuto hanno una particolarità, a mio avviso, costituita da sezioni di segni geometrici, taglienti, pezzi di carte colorate, combinate a volte come semplici note cromatiche, altre volte per evocare un oggetto, per esempio frammenti di strumenti musicali, in qualche caso paiono memoria di un luogo misterioso, uno spazio senza storia e senza riferimento.
Effettivamente, per esempio, a guardare quella serie di “Detriti” (così li ha definiti l’autore nel titolo incluso nell’opera) sono espressione di una realtà inconoscibile; all’inverso, e con tecnica opposta, penso ai collages-decollages di Mimmo Rotella (1918-2006) nei quali riconosciamo quasi sempre la realtà di provenienza, basti pensare ai manifesti strappati degli anni Cinquanta-Sessanta dove affiorano volti di attori famosi, prima fra tutti e numerose volte la mitica Marilyn, e poi Mastroianni, Sofia Loren, Liz Taylor, Humphrey Bogart, Cary Grant e Grace Kelly, Elvis Presley e altri ancora. Nel caso dei collages di Sinorio, possiamo solo dire che essi appaiono come la realtà di un caos, assunto come unico riferimento sia prima che dopo la storia. È fin troppo semplice immaginare che l’autore stesso abbia inteso rappresentare (forse anche inconsciamente) lo stato d’ansia dell’uomo contemporaneo assediato dall’idea che il potenziale distruttivo dell’odierna società non può tramandare che scarti di una realtà irriconoscibile (i detriti), ma, ripeto, è soltanto una mia ipotesi, peraltro filosoficamente molto pessimistica.
Certo è che se consideriamo le tracce di ciò che dell’antico conosciamo, altro non sono che frammenti giunti fino a noi; e tutto quanto si è cercato di ricostruire e conservare non sono altro che reperti di civiltà scomparse; e il tutto è avvenuto (e continua ad avvenire) attraverso la ricognizione e la sistemazione di “frammenti”, ovviamente con particolare riferimento all’architettura e alla scultura classica, quasi sempre monca: è un pensiero già formulato dal geniale Piranesi, quando nel Settecento si assemblavano talvolta anche fantasiosamente reperti dell’antichità.
Diversamente la rappresentazione di questi gradevoli collages, accordati cromaticamente in maniera percettivamente ineccepibile, non mi pare ci siano delle stonature, anzi, come dicevo in principio, possono alludere a “note cromatiche”, come si dice anche nel linguaggio critico musicale.
Fatto sta che, pure attraverso un preoccupante pensiero negativo che si fonda sul timore, sempre latente nel mondo contemporaneo da quando è stata inventata la bomba atomica, che “il villaggio globale”, come già cinquant’anni fa fu definito il nostro pianeta dal famoso studioso di comunicazione di massa Marshall McLuhan (1911-1980), potrebbe scomparire (speriamo di no!) da un momento all’altro.
A questo punto, l’autore di questi collages, di fronte a una tale sconvolgente ipotesi, pare si sia arreso con la poetica dei “detriti”, poiché, tutto sommato, anche ciò che è, o sarà irriconoscibile, potrebbe conservare tuttavia una straordinaria bellezza. Del resto, come diceva Gertrude Stein a Picasso ai primi del Novecento, un’opera per essere davvero originale rispetto al passato deve apparire a prima vista “brutta”, poi, col tempo, diverrà esteticamente attraente e sarà considerata importante e forse anche bella. Non è forse così tutto il procedere e lo sviluppo dell’arte contemporanea? Naturalmente con le dovute eccezioni.
Mario URSINO Roma giugno 2018