di Marta ROSSETTI
“La scultura a cera persa. Mostra dedicata al confronto tra gli scultori del bronzo italiani e giapponesi.”
Museo Venanzo Crocetti. via Cassia, 492 – Roma fino al 27 ottobre 2018
L’esposizione organizzata dalla Fondazione Venanzo Crocetti e dal Comitato Esecutivo Mostra di Scambio Scultura in Bronzo Italo-Giapponese al Museo Venanzo Crocetti di Roma, con il patrocinio dell’Istituto Giapponese di Cultura in Roma e la Fondazione Italia Giappone, si pone sulla scia delle iniziative culturali proposte nell’ambito del centocinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche bilaterali tra l’Italia e il Giappone (“Trattato di amicizia e commercio”, 25 agosto 1866) e in seno all’intensa relazione di scambio con l’Oriente vissuta dallo scultore abruzzese Crocetti (1913-2003), specialmente dagli anni Settanta del Novecento e sino alla sua morte.
La mostra è davvero occasione speciale per confrontarsi con la contemporanea scultura giapponese (a colloquio con l’italiana) e per visitare lo stesso Museo Venanzo Crocetti, luogo abitato da una selva di sculture in bronzo di enorme raffinatezza, in continuo dialogo con l’antico e con la tradizione sia pittorica che scultorea italiana dei secoli passati.
Qui sono poste a colloquio le opere di Shiraishi Eiji, Takesue Hiroko, Nakamura Yoshitaka, Miyazaki Ko, Matsuo Daisuke, Kawashima Fumiya, Kimura Masanori per il Giappone, con quelle di Akiyama Nobushige, Adriano Bimbi, Enzo Carnebianca, Sarah Del Giudice, Novello Finotti, Valentino Moradei Gabbrielli, Nagatani Kyoji, Vezio Paoletti per l’Italia (i due ultimi scultori giapponesi vivono in Italia).
Dal 2010 la pubblica Università di Tsukuba nella Prefettura di Ibaraki in Giappone è impegnata nel progetto di ricerca “Nuove espressioni scultoree che valorizzano la fusione a cera persa (secondo lo stile italiano” e ha cura di conservare e divulgare la tecnica di fusione a cera persa introdotta in Giappone dopo il 1950 ad opera di scultori italiani quali Marino Marini, Giacomo Manzù, Venanzo Crocetti, così come Pericle Fazzini ed Emilio Greco (fatta eccezione per il trascorso ruolo svolto in tal senso da Vincenzo Ragusa). In tempi precedenti, infatti, nelle ere Meiji (1868-1912) e Taishō (1912-1926), la tecnica della cera persa è nota in Giappone, ma con difficoltà se ne trova traccia nella scultura del periodo; per creare una scultura in bronzo, gli artisti giapponesi utilizzano, poi, esclusivamente modelli in legno o in gesso, non in creta. La Biennale di Venezia del 1952, primo anno in cui il Giappone partecipa, e un’importante stagione di mostre di scultori italiani in Giappone inaugurata a partire dagli anni Cinquanta, nonché i viaggi di studio degli scultori e fonditori giapponesi e italiani nei due diversi paesi cominciati sempre nello stesso periodo, richiamano l’attenzione sulla scultura italiana in bronzo e sulla tecnica della fusione a cera persa, che viene conosciuta e divulgata in Giappone attraverso la pratica diretta e la pubblicazione di manuali specificamente dedicati (dall’introduzione al catalogo della mostra di Todate Kazuko, pp. 6-11).
Il pensiero giapponese classico è sintetizzato in Pioggia di benedizione (2016) (fig. 1) e in Torre (2017) di Shiraishi Eiji, che apprezza il vuoto interno ed esterno all’oggetto e l’accostamento di materiali diversi; l’amore poetico per la natura è in Uccello (2016) (fig. 2) e in Alla foresta (2018) di Takesue Hiroko, la quale utilizza piante da cui ricava lo stampo in cera e impiega come
motivo disegnativo; il sacro di ogni tempo echeggia da Lottatore di sumō (2017) (fig. 3) e da Un ragazzo che indossa una fascia (2018) di Nakamura Yoshitaka, scultore responsabile del progetto della stessa mostra; la favola lirica e sognante è in Un racconto di terra e cielo – coltivazione (2018) (fig. 4) e in Un geco e un seme (2018) di Miyazachi Ko, interessato ai temi dello spazio che circonda le persone, della circolazione della vita, del cosmo, del cielo, delle nuvole, del vento e del tempo; la storia dell’universo è documentata da Elemento (2015) e da Astronave antica e stella futura (2018) (fig. 5) di Matsuo Daisuke, che utilizza la combinazione di legno e bronzo; la tradizione della scultura in bronzo occidentale è viva in Giovanotto (2013) (fig. 6) e in Testa di donna (2017) (fig. 7) dei giovani Kawashima Fumiya e Kimura Masanori.
Vicino al linguaggio occidentale è quello di Akiyama Nobushige, che in Una statua della donna (2013-2018) e in Messaggero 17 (2017) (fig. 8) accosta materiali diversi, compresa la carta washi giapponese, e che è scultore residente in Italia come Nagatani Kyoji, rappresentato invece da Genesi (2016) e da Matrice del tempo (2018) (fig. 9), opere che raccolgono in loro stesse l’energia dei corpi celesti intesi come “semi” di vita.
Tali lavori sono in dialogo diretto con quelli di scultori italiani: Cleopatra (1993) e Nascita di Castore e Polluce (2000) di Enzo Carnebianca, Il contemplatore di stelle (2004) e Lo stanco (2003) di Sarah Del Giudice, Annuncio (2011) e L’uovo miracolato (2011) di Novello Finotti, Umanità (2004) – in due versioni – di Valentino Moradei Gabbrielli, Lazzaro da ‘Mistero buffo’ (1998) e Ipitombi (2008) di Vezio Paoletti, opere, queste, tutte eredi della storia della scultura occidentale e di quella di un oriente a noi più prossimo.
Tra queste, Un piccolo pezzo d’Oriente (2018) (fig. 10) e Solo un’onda del mare (2018) di Adriano Bimbi si dispongono invece a fare propria la tradizione estetica dell’Oriente più estremo, il “Nihon”, la terra della “origine del Sole”.
Marta ROSSETTI Roma OTTOBRe 2018