di Sergio ROSSI
Quando ero uno studente di Storia dell’arte moderna al secondo anno (allora non era stata ancora istituita la Cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea), appena trasferitomi a Roma da Messina, incurante delle file e della burocrazia, mi sono recato al ricevimento di Giulio Carlo Argan, che si svolgeva puntualmente tutti i lunedì, martedì e mercoledì dalle 15,30 alle 16 prima delle lezioni, per chiedergli la Tesi di Laurea. Gli proposi come argomento il possibile rapporto tra il simultaneismo di Robert e Sonia Delaunay e la Teoria della forma e della figurazione di Paul Klee. Argan me lo sconsigliò, sia per l’intrinseca difficoltà (Argan da antico gentiluomo piemontese non usò il termine di astruseria) dell’argomento, ma soprattutto per una questione di metodo che ha poi influenzato tutta la mia futura attività di insegnamento e di ricerca.
Infatti egli mi disse che se una volta laureato io avessi voluto intraprendere la carriera di critico e studioso di arte contemporanea allora era comunque necessario che svolgessi un argomento di quella che anacronisticamente all’Università si chiama ancora Storia dell’arte moderna, ossia dal Quattrocento al Settecento, proprio per acquisire quegli strumenti storiografici che mi sarebbero comunque risultati necessari in futuro per affrontare anche l’arte contemporanea da un punto di vista storico e non impressionistico o letterario. E nello stesso tempo, studiando l’arte antica con uno spiccato interesse verso il contemporaneo, la mia visione critica sarebbe risultata più completa.
Dal momento che io gli risposi che in alternativa mi sarebbe piaciuto un argomento di storia sociale dell’arte riguardante il Seicento, il professore mi propose in prima battuta un tema non meno astruso del mio iniziale e cioè quello del reduce della Guerra dei Trent’anni nella pittura del primo Seicento: «Vada in biblioteca e torni quando ha trovato qualcosa». Naturalmente quando tornai avevo trovato poco o nulla e lo stesso Argan, dimenticandosi di essere stato lui a farmi quella proposta, mi disse che decisamente bisognava cambiare il soggetto della tesi e dopo una breve consultazione ci accordammo su “Il concetto di imitazione del simile e del peggiore nelle teoria artistiche seicentesche”, argomento sicuramente suggestivo e affascinante, ancorché molto complesso. Infatti mi resi subito conto che per affrontarlo in modo adeguato dovevo partire da Aristotele, passare per Leonardo da Vinci, soffermarmi sui teorici accademici del tardo Cinquecento. E arrivato all’incirca a cinquecento pagine ero ancora fermo a Federico Zuccari e fu così che in effetti mi laureai su “I problemi dell’ideazione e dell’imitazione nelle teorie d’arte del tardo Manierismo: Zuccari, Danti, Lomazzo”, con la lode accademica e la pubblicazione di una sintesi della mia tesi in due saggi della Rivista “Storia dell’Arte”.
Durante l’ormai ahimè lunghissima carriera ho sempre cercato di fare tesoro del suggerimento arganiano, ancorando ogni mia ricerca ad una prospettiva rigorosamente storiografica che non manchi comunque mai di un saldo intrinseco rapporto con la contemporaneità. E questo mi è tanto più utile davanti a questo bellissimo libro di Antonella Cappuccio, Lettere dal tempo, una sorta di dialogo a tu per tu con i Maestri del passato che la Cappuccio ha più amato, Andrea Mantegna, Sandro Botticelli, Raffaello Sanzio, Tiziano Vecellio, Giorgione, Artemisia Gentileschi, Piero della Francesca, Jacopo da Pontormo. Su molti di questi pittori ho scritto saggi, tenuto conferenze, curato mostre ed è anche per questo che il libro della Cappuccio mi ha colpito in modo particolarmente positivo. E va detto subito che il rapporto della nostra artista con i suoi referenti dell’antichità non è “anacronistico” (anche se un movimento cui Antonella ha aderito tempo fa si chiamava proprio Anacronismo) o nostalgico, ma piuttosto un confronto alla pari. Chiariamolo subito, la Cappuccio non copia o cita, interpreta, introduce nei suoi dialoghi elementi del Surrealismo, della pittura Metafisica, dell’Iperrealismo, finanche dell’Arte Concettuale, e nello stesso tempo mantiene una cifra assolutamente personale e originale, per cui si capisce subito che questi quadri non potrebbero che essere suoi e solo suoi.
Su Mantegna, recensendo la bella mostra Mantegna und Bellini. Meister der Renaissance (Berlino, Gemäldegalerie, dall’1-3 al 30-6 del 2019) ho scritto di recente che da questa esposizione è emerso quanto certo già si sapeva, ma che comunque solo un confronto visivo così ravvicinato poteva confermare e cioè che più ancora che verso lo Squarcione, Mantegna è debitore nei confronti degli artisti fiorentini che quasi avevano colonizzato Padova a partire dal 1434, e cioè Filippo Lippi, Paolo Uccello e naturalmente Donatello; e conferma altresì che anche quando il cognato Giovanni Bellini riprende e in qualche caso addirittura copia soggetti mantegneschi ne stravolge comunque l’assunto ideologico di fondo, traducendoli, come avrebbe detto Roberto Longhi “in moneta veneziana”. Infatti quello di Andrea è
«un mondo costruito di indeperibili materie, di inalterabili spazi, di immobili presenze, di immutabili affetti» (Renata Cipriani, 1956)
e la sua arte, come ebbe a dire a suo tempo Argan, non ricerca un effetto di dramma, ma è piuttosto “tragedia” nel senso classico e aristotelico del termine.
Indubbiamente, le indeperibili materie, le immobili presenze, gli immutabili affetti, l’epos classico di una tragedia incombente li ho tutti ritrovati nei dipinti che la Cappuccio ha dedicato al Maestro veneto. Si pensi alla rivisitazione del Cristo morto: il virtuosismo prospettico del corpo visto in audacissimo scorcio si unisce all’onirica visione delle altre sagome di Gesù fluttuanti come fantasmi e che trasformano un possibile esercizio accademico, per quanto di ottima fattura, in un bellissimo dipinto surrealista degno di Max Ernst.
«Citando il tuo Cristo morto – scrive Antonella – ne immaginai altri quattro deformati dall’anamorfosi intorno a lui, dando all’opera, proprio in quanto deformati, la percezione fisica del dolore mentre, a confronto, il Cristo appare composto, serenamente dormiente».
Mentre nel Martirio di San Cristoforo un imponente fondale architettonico che fa da quinta alla rappresentazione dimostra come alla nostra artista sia stata proficua la sua attività di scenografa e costumista che per un certo periodo ha affiancato quella di pittrice.
E in questa scena, come lei stessa scrive:
«Mi sono inserita sfacciatamente per ben cinque volte. Scelsi così quattro spazi in cui collocarmi, mi affacciai dalle finestre, mi confusi con i soldati e infine, senza pudore, a braccia conserte mi posi in primo piano nel tuo quadro riproposto come un affresco strappato sul muro».
A Mantegna la Cappuccio ha dedicato ben otto tele, che non posso descrivere tutte nel dettaglio, ma prima di lasciare il sommo pittore voglio ancora citare la statuaria Presentazione al tempio, con la Vergine nel cui volto si innestano quelli del Bambino e di Giuseppe con un effetto drammatico e straniante quasi da Rosemary’s Baby, effetto confermato dall’espressione mesta di Maria che quasi prevede il futuro martirio del figlio e sembra reggere tra le sue mani un blocco di sale più che un essere umano.
Su Sandro Botticelli non ho ancora scritto nulla, ma insieme a Klee è stato l’artista che da giovane io ho amato di più e mi ha molto colpito quanto ha scritto la Cappuccio nel suo dialogo immaginario col pittore:
«Quando iniziai la lavorazione dei quadri da te ispirati, scoprii di essere incinta del mio terzo figlio. In nove mesi realizzai nove opere su tavola, ogni mese ne completavo una, l’ultima, la più grande, fu terminata dieci giorni prima del parto».
Che la Venere al centro del dipinto sia incinta, autentica Venus lucreziana madre di tutte le cose è un dato indubbio ancorché a mio avviso non abbastanza sottolineato dalla critica, così come è indubbio che la sua iconografia si richiami alla Madonna del Parto di Piero della Francesca. E d’altra parte è altrettanto assodato che presso la corte medicea dove Bottticelli si è formato il sincretismo tra cultura pagana e cultura cristiana era un elemento fondamentale e basta leggere il De Amore di Ficino per rendersene conto.
Ora, senza voler fare della psicologia da strapazzo, il fatto che la Cappuccio si sia sentita particolarmente attratta dalla grande tavola degli Uffizi proprio mentre scopriva di essere incinta, è un elemento che seppur casuale può aver costituito, anche a livello inconscio, uno stimolo in più per sollecitare la sua creatività e farle produrre una serie di tavole e tele in cui quella che la pittrice chiama “ironia” è a mio avviso pura libertà d’invenzione.
Di Raffaello Sanzio, al contrario che di Botticelli, mi sono occupato a lungo, fin dalle mostre didattiche del biennio 1983-84: I luoghi di Raffaello a Roma e Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del Cinquecento romano, curando anche le pubblicazioni dei rispettivi cataloghi con la casa editrice Multigrafica di Roma. In quella sede rimarcavo come Raffaello sia l’artista che nella coscienza dei contemporanei viene avvertito già come il vero antagonista di Michelangelo Buonarroti. Ma ecco che ci troviamo subito di fronte ad una felice contraddizione in grado di spiazzare molti luoghi comuni: Raffaello, cantore dell’unità e della conciliazione delle diverse culture, alfiere di un’arte apparentemente rasserenante e radiosa, dissipa questo suo impulso vitale nel corso di un’esistenza breve e intensissima, in cui ogni cosa, dal numero di opere al numero di allievi, dai guadagni agli amori, appare eccessivo, ma condotto con quella facilità e quella “grazia” che fa sembrare tutto naturale. Egli, così classico ma in realtà così moderno, muore giovanissimo, stroncato proprio dal suo eccessivo amore per i piaceri e le emozioni della vita, quasi fosse un moderno divo del cinema o del rock. Mentre Michelangelo, cantore della separatezza e del contrasto, alfiere delle difficoltà dell’arte, che per lui non vanno celate ma al contrario mostrate in tutte le loro contraddizioni, si macera in una casta e dolente attesa della morte, che giungerà alfine solo sulla soglia dei novant’anni.
Non è dunque un caso se una delle più convinte celebrazioni dell’arte raffaellesca venisse compiuta a Venezia, da Ludovico Dolce, nel suo Dialogo della pittura del 1557:
«So bene io che in Roma, mentre Raffaello viveva, la maggior parte, sì de letterati come de’ periti dell’arte, lo anteponevano nella pittura a Michelagnolo. E quelli che inchinavano a Michelagnolo erano per lo più scultori, i quali si fermavano solamente sul disegno e sulla terribilità delle sue figure, parendo loro che la maniera leggiadra e gentile di Raffaello fosse troppo facile, e per conseguente non di tanto artificio, non sapendo che la facilità è il principale argomento della eccellenza di qualunche arte e la più difficile a conseguire, et è arte a nasconder l’arte, e che, finalmente, oltre al disegno, al pittore si chieggono altre parti, tutte necessarissime».
Il Dolce rovescia dunque l’assunto vasariano, e alla “terribilità” di Michelangelo viene preferita la “facilità” di Raffaello, cioè quella capacità di far sembrare naturali anche le cose più difficili, “arte a nasconder l’arte”. Ma la facilità nasconde in realtà un assiduo studio, ed ecco che Raffaello diviene il prototipo dell’artista per eccellenza studioso e quindi da studiare, secondo l’acuta definizione di Argan. Esempio probante della “grazia” raffaellesca è già il suo capolavoro giovanile dello Sposalizio della Vergine ora a Brera, del 1504. È qui evidente la ripresa dello schema compositivo già adottato dal Perugino nella Consegna delle chiavi nella Cappella Sistina, anche se la spazialità monumentale e l’ariosa prospettiva risentono piuttosto del precoce influsso di Leonardo, oltre che della nitida solarità di Piero della Francesca. Ma la rigida simmetria peruginesca si scioglie ormai in una soave e contenuta articolazione spaziale che si basa sul modulo circolare che avvolge tutto il dipinto e che è pieno di evidenti connotati simbolici. Quel fondale, poi, rappresentato da un cielo terso e luminoso, colto poco oltre l’albeggiare, è già tipico del giovane Raffaello e assolutamente geniale è la trovata di aprire la porta dell’edificio centrale, ancora bloccata nel modello peruginesco, proiettando lo sguardo dello spettatore verso l’infinito.
Quel cielo terso lo ritroviamo, ad esempio, nelle Tre Grazie ora a Chantilly, del 1506, quando ormai il Sanzio si era trasferito a Firenze. Qui egli sosterà dal 1504 al 1508, eseguendo per le ricche famiglie dell’aristocrazia mercantile alcuni celebri ritratti, alcune opere di piccolo formato come il delizioso Sogno del cavaliere ora alla National Gallery di Londra, ma soprattutto quella memorabile serie di Vergini col Bambino dove il ricordo di Piero della Francesca e del Perugino e i più recenti influssi di Leonardo e Fra’ Bartolomeo si fondono tutti in quell’assoluta unità di stile, in quell’apparentemente miracolosa facilità di ispirazione che nasconde uno studio accanito e una continua decantazione del processo creativo. In queste opere, appunto, egli fisserà una nuova immagine della Vergine, insieme madre umanissima e creatura divina, bella di una beltà ideale e universale ma comunque sensualmente percepibile, in cui la grazia peruginesca si unisce al luminismo di Leonardo.
Venendo alla Cappuccio lei così si rivolge al suo “caro maestro”:
«Le tue Madonne sono uno schianto. Tutte le tue modelle bellissime lo sono state ma, stranamente, nella mia prima rivisitazione decisi di realizzare un quadro in cui volli ignorare la Bellezza a te tanto cara. Il quadro della Madonna con Gesù e San Giovannino subì, da parte mia, una aggressione ispirata alla psicoanalisi e ai mostri dell’inconscio. Dividendo in due parti l’immagine del tuo quadro, ne utilizzai solo la parte sinistra che raddoppiai specularmente affiancandola, come riflessa in uno specchio, sulla sinistra del quadro. Ne emerse una creatura aliena, senza occhi, naso e bocca e accanto a sé, appoggiato al suo fianco, San Giovannino guardava se stesso con un’asta sulla spalla che in cima aveva uno specchio ovale, nel tuo quadro si trattava di una croce…».
Si tratta in effetti di un dipinto sorprendentemente moderno (è del 1983) che anticipa certi temi diventati poi di moda quarant’anni dopo, come il post umano, l’ibridismo e altro ancora.
In un bellissimo e spiazzante film fantascientifico vincitore a Cannes nel 2021, Titane di Julia Ducournau con uno splendido Vincent Lindon, la protagonista è una giovane serial killer dalla incerta identità sessuale, che finisce col partorire un essere ibrido nato da una sua relazione con un Tir e morire subito dopo il parto. Nel frattempo un ufficiale dei pompieri (Vincent Lindon appunto) convintosi ogni oltre ragionevolezza ed evidenza che la ragazza sia un suo figlio scomparso molti anni prima decide di prendersi cura del neonato e di amarlo al di là di tutto e di tutti. Come era prevedibile, oltre a molti consensi il film ha ricevuto anche molte critiche di chi non ha assolutamente capito nulla definendolo un “famolo strano” in salsa radical chic e dimostrando così solo il proprio piatto conformismo e perbenismo intelletuale.
Comunque, tornando al dipinto da cui eravamo partiti, anche la figura ibrida e anamorfica della Cappuccio potrebbe evocare scenari apocalittici e inquietanti, se la presenza dei due fanciulli che si riflettono come in uno specchio e che dalla figura stessa sembrano essere stati partoriti non aprissero uno spiraglio di speranza e di “umanesimo”, paragonabile al gesto di tenerezza e amore nonostante tutto con cui Vincen London tiene in braccio la creatura nata poco prima da quell’unione contro natura. Di recente nella Madonna col cardellino la nostra artista è tornata a confrontarsi con Raffaello in un dipinto quasi neoclassico nella sua assoluta purezza, se non fosse per quel proliferare dei uccellini svolazzanti che riempiono la scena e che sembra quasi di udire con i loro aggraziati cinguettii.
Tiziano rientra nella categoria dei Maestri da me sempre amati ma su cui non ho mai scritto nulla al livello dell’interpretazione delle sue tele, mentre me ne sono a lungo occupato dal punto di vista della letteratura artistica, in riferimento alla contrapposizione della sua personalità rispetto a quella di Michelangelo, che per i teorici veneti del Cinquecento è diventato un vero leitmotiv interpretativo. Il colore rispetto al disegno, la natura rispetto all’ossessione del corpo umano, l’universalità rispetto alla “terribilità”, ecco i principali motivi addotti dai vari Pino, Dolce, Sorte, dallo stesso Aretino per preferire il Vecellio, considerato in questo l’erede spirituale del Sanzio, rispetto al Buonarroti. E devo dire che nella sua rivisitazione del 2002 del tizianesco Amor sacro ed Amor profano che la Cappuccio ha voluto intitolare Verso sera queste peculiarità risaltano in pieno.
Siamo infatti di fronte ad un paesaggio serotino di grande bellezza e respiro, ravvivato dal rosso del drappo poggiato sull’antica vasca lustrale e sulla quale siede quella strana figura acefala e monca che introduce la solita nota surreale e spiazzante che attesta l’assoluta modernità della pittura cappucciana, se mi si consente questo neologismo:
«Protagonista di questo spettacolo è la solitudine, soltanto il cielo sereno e brillante di azzurro di Sèvres resta immutato a guardarci».
Di recente, così come era accaduto con Raffaello, la Cappuccio è tornata a dialogare col Maestro veneto in Danae, rivisitazione a olio, foglie d’oro e tecnica mista del capolavoro tizianesco.
Ed è proprio questo pulviscolo materico che inonda la scena a sancirne l’assoluta modernità, tanto che essa mi ha riportato alla mente la geniale performance ideata da Vadim Zakharov per il padiglione russo alla Biennale di Venezia del 2013 e dedicata appunto al “Mito di Danae”, dove da un foro del soffitto piovevano letteralmente delle monete coniate dallo stesso artista e raccolte da delle donne protette da un ombrello, messe in un secchio e poi rimesse in circolo e coinvolgendo il pubblico che da semplice visitatore diveniva egli stesso protagonista dell’evento. E anche nel caso della Cappuccio lo spettatore è in qualche modo invitato a entrare nel quadro e smarrirsi nell’atmosfera ovattata e sensuale della scena.
Sulla Tempesta di Giorgione sto da tempo preparando uno studio che non esito a definire profondamente innovativo e che ribalterà molti dei luoghi comuni e delle considerazioni finora date per acquisite su questo dipinto, uno dei più studiati eppure ancora dei più misteriosi di tutta la storia dell’arte: studio di cui posso qui solo anticipare alcuni punti chiave. A tutt’oggi uno dei testi più noti è certamente quello di Salvatore Settis, La Tempesta interpretata. Giorgione, i committenti, il soggetto, (I° edizione Torino Einaudi 1978), in cui per spiegare l’opera si ripropone un tema biblico, quello di Adamo ed Eva che allatta Caino ammoniti da Dio Padre. Già nel titolo l’autore ostenta la piena sicurezza nelle proprie tesi, confermata poi dal tono quasi irridente con cui egli liquida le opinioni che ritiene in contrasto con le proprie. E indubbiamente la fortuna del libro di Settis si deve anche alla sua prosa sempre avvincente e serrata:
«Nel quadro di Giorgione, il ponte sovrastato dal fulmine collega la regione abitata da Adamo ed Eva e dal rudere a una città turrita dove appaiono alberi e colonne e su un tetto, un bianco uccello, ma nessun segno di presenza umana».
In questo caso si tratterrebbe dell’Eden da cui Dio Padre ha scacciato Adamo ed Eva. Ma non solo su costoro
«fa cadere la Bibbia i fulmini della maledizione divina: e perciò il serpente che striscia in una cavità, sottilissimo ma in primo piano, e direttamente sotto la figura di Eva, è del tutto a posto in questa scena: “Per quello che hai fatto, sei maledetto fra tutti gli animali della terra; striscerai sul tuo petto, e mangerai terra ogni giorno della tua vita” (Genesi III 15-16)…Nascondendosi alla vista, confondendosi con la terra, il serpente già mostra il compiersi della maledizione divina; e insieme si sottrae a una troppo agevole lettura (né forse è un caso che lo sovrasti il calcagno di Eva, come a prefigurare l‘avverarsi della punizione predetta da Dio, e dunque la vittoria della Donna e la redenzione del genere umano)».
Purtroppo per Settis, però, il presunto serpente simbolo del peccato, alla luce dell’ultimo restauro del 1984 si è rivelata una molto più innocua, e da nessuno mai maledetta, radice dell’arbusto in primo piano (si veda G. Nepi Sciré, Leonardo e Giovanni Bellini, in Leonardo e Venezia, Catalogo della Mostra, Venezia 1992), con conseguente smentita di tutto il suo per altro così articolato e complesso castello interpretativo. E per di più il fulmine, di cui in effetti parla non solo Settis, non è assolutamente tale ma piuttosto il riflesso del sole che si sta facendo largo tra le nuvole dopo la fine del temporale.
Assai più stimolante appare l’intuizione di Maurizio Calvesi, (La “Morte di Bacio”. Saggio sull’ermetismo di Giorgione, in “Storia dell’arte”, 7-8, 1970 e La Tempesta di Giorgione in Giorgione e la cultura veneta tra ‘400 e ’500, Roma 1981), poi ripresa da altri studiosi ( tra cui William Melczer, Giorgione ed i (possibili) contributi ebrei alla tradizione ermetica in Giorgione e la cultura veneta, cit.) che inserisce l’opera di Giorgione nell’ambito di un filone di pensiero ermetico ed ebraizzante e che arriva a supporre che lo steso pittore potesse essere ebreo, intuizione ancora feconda di ulteriori approfondimenti ma che appare quella maggiormente in grado di chiarire molti presunti “misteri” della sua pittura. Tornando alla Tempesta, l’interpretazione calvesiana del quadro come rappresentazione del Cielo e della Terra individuati come due forze in congiunzione amorosa attraverso il rimescolamento degli elementi appare a tutt’oggi quella da cui partire per ulteriori approfondimenti, e questo anche per l’intima carica “erotica”, sia pure di un erotismo sublimato ed ermetizzante, che caratterizza l’opera.
Indubbiamente compaiono acqua, aria, terra e fuoco, rappresentato dal sole che si fa largo attraverso le nuvole dopo un temporale e che, lo ripeto, non è assolutamente il fulmine di cui parlano tutti gli studiosi e che in tutte le rappresentazioni pittoriche ha una forma zigzagante e non spiraliforme come quella del nostro dipinto. Sicuramente siamo poi in presenza di una raffigurazione della “coniunctio” alchemica tra maschile e femminile, rafforzata dal fatto che nella parte inferiore della tela, proprio nello spicchio di terra bruna in primissimo piano compare una forma che allude alla vulva in maniera talmente evidente che è inspiegabile come nessuno se ne sia accorto prima d’ora. Ma per svelare il mistero di questa che è una delle opere più enigmatiche di tutti i tempi rimando al mio studio di prossima pubblicazione.
Comunque, quale che sia l’interpretazione che si vuole dare alle sue singole tele, nel caso di Giorgione, rimane il fascino di una pittura assolutamente nuova e ineguagliabile che ha aperto una radicale svolta nell’arte europea, e non solo veneziana, del XVI secolo.
Certo egli non appare all’improvviso, perché Giovanni Bellini, Antonello da Messina, Leonardo ne hanno in qualche modo agevolato il cammino, né all’improvviso scompare perché Tiziano ne sviluppa molte delle potenzialità rimaste inespresse data la sua morte prematura. Eppure pochissimi altri artisti, di ogni epoca e forma espressiva, in un così breve arco di tempo hanno inciso così profondamente sulla cultura del proprio tempo ed oltre: e vengono in mente i nomi di Masaccio, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio Mozart, Puskin e pochi altri. Così, a tutt’oggi, appare straordinariamente calzante la lettura che ce ne fornisce il Ridolfi (Le meraviglie dell’arte, Venezia 1648):
«Hor questi facendo un misto di natura, e d’arte, compose un così bel modo di colorire, che io non saprei, se si douesse dire una nuoua Natura prodotta dall’arte, ò un’arte nouella ritrovata dalla natura per gareggiare con l’arte sua emulatrice»,
dove la consueta formulazione barocca della natura superata dall’arte sua imitatrice si connota di un senso di quasi stupita e commossa ammirazione che ne costituisce il pregio e attesta tra l’altro come ancora in pieno Seicento la pittura di Giorgione fosse capita e apprezzata dai suoi conterranei.
E questo senso di commosso stupore la Cappuccio sa trasmetterlo nel suo recente La Tempesta a teatro, del 2023, dove la sembra che l’idilliaca scena giorgionesca sia stata travolta da un improvviso terremoto che ha sconvolto la parte inferiore della scena: l’uomo è scomparso, solo la donna rimane immota ad allattare il suo bambino, Venere lucreziana generatrice d’amore.
Mentre nell’altro dipinto precedente di oltre un trentennio compare solo un bellissimo e minaccioso cielo cosparso di nubi e il fulmine è sparito, quasi che la pittrice abbia intuito la mia interpretazione dell’opera molto prima che io stesso la formulassi.
Su Artemisia Gentileschi ricordo una mia conferenza in italiano tenuta a Rovaniemi presso una delle sedi finlandesi della Dante Alighieri, tra i boschi di abeti ancora ricoperti di neve, davanti ad un pubblico prevalentemente femminile interessato e partecipe, a conferma di quanto l’arte italiana sia seguita ovunque nel mondo molto più di quanto noi stessi non immaginiamo. E questo Susanna e i vecchioni del 2002 acquista una singolare attualità alla luce dei tragici eventi di cronaca di questi giorni: Scrive la Cappuccio rivolgendosi direttamente ad Artemisia: «I soggetti dei tuoi quadri rivelano la tua storia di donna calunniata, abusata, tradita, incompresa perfino dal proprio padre. La calunnia è grave quanto un’uccisione, il mondo ne fa largo uso e le donne, in particolare, ne hanno subito l’umiliazione e il dolore che essa infligge. Nel mio quadro i vecchi sono trattati con un colore grigio ferro ed emergono come fantasmi dal fondo. Le loro minacce ricattatorie sono scritte a rovescio intorno a loro, rese illeggibili, mentre a contrasto Susanna è splendente e luminosa nella verità, si rivolge a Dio e sullo sfondo intorno a lei la sua preghiera è leggibile e merita tutta l’attenzione».
La figura di Susanna emerge in effetti dalle tenebre in tutte la sua sensuale eppure casta bellezza, mentre i vecchioni sono sordidi fantasmi che tramano nell’ombra creando un contrasto di grande potenza evocativa e confermano come la Cappuccio sappia coniugare classicità e innovazione nella medesima opera. Caratteristiche che ritroviamo anche in un suo doppio omaggio a Piero della Francesca L’ombra di Cristo del 1982 replicato quarant’anni più tardi. Nel primo dipinto quattro soldati dormono davanti al sepolcro davanti ad un paesaggio spoglio eppure di lirica bellezza mentre l’ombra proiettata dal Cristo risorto appena fa capolino sulla destra della tavola; nel secondo l’ombra ha ormai invaso ed oscurato quasi l’intera scena con un effetto straniante degno di Magritte.
E veniamo così, per concludere, a Jacopo Pontormo, l’artista che insieme a Caravaggio io ho più amato e sul quale ho scritto uno dei miei saggi più innovativi (Jacopo Pontormo e il suo doppio in Los Mundos del arte. Estudios en homenaje a Joan Sureda, Barcelona 2019). Mi riferisco in particolare alla mia interpretazione della cosiddetta Deposizione della Cappella Capponi nella chiesa fiorentina di Santa Felicita, che poi, in senso stretto, non è propriamente una Deposizione, non è un Trasporto, non è una Pietà, non è una Lamentazione, ma è piuttosto una commistione di questi temi in un unicum iconografico di sconvolgente originalità: il Corpo di Cristo è già stato deposto dalla croce (che per questo non compare più nemmeno nel fondo della scena) ma non è stato ancora interrato nel sepolcro. Quindi di tutte le definizioni che sono state date di questo sublime dipinto, forse la più pertinente è quella di Trasporto verso il sepolcro, anche se i protagonisti non sono colti in azione ma piuttosto come bloccati in una dimensione senza tempo proprio come aveva genialmente intuito Pasolini in quel capolavoro assoluto che è La ricotta.
Spostandoci al campo formale, anche quell’apparentemente casuale groviglio di corpi ha un proprio rigore compositivo in cui domina lo schema della piramide o addirittura del rombo, con al vertice alto la figura della Vergine incinta, ai lati quelle di Giovanni Evangelista e Giuseppe d’Arimatea ed in basso il giovane inginocchiato, forse Nicodemo, come lascerebbe intendere il panno verde srotolato ai suoi piedi e destinato anch’esso ad avvolgere il corpo di Cristo: doppia piramide, dunque, doppia valenza di morte e resurrezione. E perno ideale dell’intera scena è Maria, “Mater dolorosa”, giovane quanto se non più del figlio, come nella michelangiolesca Pietà di S. Pietro: Maria che prevede il futuro martirio più che viverlo ed è come se si sdoppiasse: in alto, ai vertici della Pala, nella figura della giovane incinta, malinconica più che dolente (dai sublimi toni dell’azzurro, del rosa e del pervinca) e che guarda proprio verso il Cristo, diafano e con le punte dei piedi livide come si addice appunto ad un morto; appena più in basso e sulla destra, nell’altra Maria, poco più anziana ma molto più sofferente eppure luminosissima nelle sue vaporose vesti dal celeste al blu e sorretta, in alto, dal giovane Giovanni, reso con le tonalità molto più acide del verde e dell’arancio. Proprio l’Evangelista si sdoppia a sua volta nel giovane riccioluto che sostiene il corpo di Cristo e ne diventa in qualche misura l’erede spirituale e il testimone.
Veniamo così all’aspetto più rivoluzionario e misterioso (talmente misterioso da non essere stato finora compreso appieno) della nostra tavola, quello autobiografico. E non mi riferisco infatti solo alla figura di Giuseppe d’Arimatea, già individuata dal Berti come sicuro autoritratto pontormesco; a quell’uomo come senza età con i capelli e la barba di un biondo tendente al bianco e che se ne sta in un angolo, quasi sofferente a rimirare la scena; ma mi riferisco anche alla figura di Gesù Cristo, in cui è da vedersi un altro autoritratto del Pontormo, che fra l’altro, al momento di dipingere questa Pala era trentatreenne, proprio come Nostro Signore quando fu crocefisso. E che anche questa figura sia un autoritratto lo conferma la somiglianza di questo volto con quello del S. Jacopo della pala Pucci nella chiesa fiorentina di S. Michele Visdomini.
D’altra parte questo tema dell’autoritratto ad imitationem Christi, come ben sappiamo, non è esclusivo del Pontormo e tra i vari prototipi il più celebre è senz’altro l’autoritratto del Dürer ora al Prado, del 1498, che forse il Carucci può avere conosciuto attraverso qualche incisione. Ma soprattutto è da rammentare come l’amico e compagno di stranezze del Nostro, cioè il Rosso Fiorentino, si autorappresenti in un Cristo dalla barba e dai capelli rosso fiammeggianti come i propri in almeno quattro occasioni e in un arco di tempo che va dal 1521 al 1540: la Deposizione della Pinacoteca Civica di Volterra; il Cristo morto ora a Boston; la Deposizione in S. Lorenzo a San Sepolcro; e la Pietà ora al Louvre.
Nella Pala Capponi Pontormo si raffigura dunque come Giuseppe d’Arimatea; come Cristo; ma anche come S. Giovanni. Se infatti guardiamo il volto del giovane Evangelista che sostiene le braccia del Redentore vediamo che anche questo adolescente ha i lineamenti simili a quelli degli altri due personaggi: anzi il suo viso e quello dei Cristo sono assolutamente coincidenti, come risulta dall’immagine formata proprio dalla sovrapposizione dei due volti. E se sovrapponessimo anche il volto di Giuseppe d’Arimatea e quello di Giovanni otterremmo più o meno lo stesso risultato. Jacopo si identifica pertanto nelle tre diverse età dell’uomo. Come era da giovinetto, nelle vesti di Giovanni, come era al momento del dipinto, nei panni del Cristo; come sarebbe stato in futuro in quelli di Giuseppe d’Arimatea, spettatore dei probabili, venturi, patimenti del mondo. Ma siamo anche di fronte ad una sottile resa psicologica dei diversi stati dell’animo: lo stupore innocente, la sofferenza consapevole, la meditazione malinconica.
Tornando, prima di concludere, all’atmosfera di magica sospensione di cui si diceva in precedenza, essa è quella che precede un evento miracoloso in cui la luce è una luce soprannaturale che tutto pervade e colora quasi ci fosse un’eclisse. E il giovane Evangelista, la dolente Maria, il supposto Nicodemo che guardano abbacinati ed attoniti al di fuori del dipinto, verso il sepolcro, intuiscono che qualcosa di miracoloso deve avvenire, ma non sanno ancora né cosa né quando. Capolavoro, dunque questo, si sconvolgente originalità, colta, seppure in negativo, dal Vasari che osserva come Pontormo
“pensando a cose nuove, la condusse senz’ombre e con un colorito chiaro e tanto unito, che a pena si riconosce il lume dal mezzo e il mezzo dagli scuri”, aggiungendo che Jacopo andava “investigando nuovi concetti e stravaganti modi di fare”.
Ma il grande aretino scrive nel 1568, in piena epoca controriformistica, in cui l’insistenza sul tema del valore salvifico della grazia per la redenzione dell’umanità peccatrice, specie alla luce delle dottrine apertamente “eretiche” che Pontormo svilupperà molto più tardi nel coro di San Lorenzo, avrebbe potuto, se pienamente compresa, far correre qualche pericolo al nostro Trasporto. Ed è per questo, e non certo perché non fosse in grado di comprendere l’assoluto valore della Cappella Capponi, che egli, a scanso di equivoci, si affretta a precisare che il Carucci per così dire, “non ci stava già più con la testa”, unico modo per preservarne la memoria e soprattutto per mettere al riparo da ogni possibile critica colui che di Pontormo era stato fino all’ultimo un grande mecenate ed estimatore e cioè lo stesso Cosimo I.
Di Pontormo la Cappuccio ha scelto un altro dipinto da replicare in una delicata tempera su carta dai toni prevalenti dell’arancio, e cioè un affresco nella villa di Poggio a Caiano con Vertunno e Pomona che lei ha intitolato Gran Tour (2016), ma sono certo che dopo aver letto queste mie pagine deciderà di cimentarsi anche nell’ardua impresa di replicare a suo modo la tavola pontormesca su cui io ho tanto scritto in precedenza.
Tentare in poche righe un bilancio dell’ormai lunghissima attività artistica di Antonella Cappuccio è certo impresa ardua ma alla quale non posso esimermi in queste note conclusive. Intanto vi è da dire che la nostra artista non è etichettabile all’interno di un movimento o di una scuola (pur avendo fatto parte dal 1895 al 1994 della cosiddetta “Nuova Maniera Italiana”) perché il suo approccio all’arte antica ed alla migliore tradizione della nostra storia dell’arte è sempre stato originale ed improntato alla più assoluta modernità.
Come dicevo all’inizio, Antonella non copia o cita ma reinterpreta e questa è una cosa molto diversa. Del resto lei è sorretta da una straordinaria tecnica esecutiva che si basa innanzi tutto su una grande capacità manuale e disegnativa. Qualità esaltate dal suo lavoro iniziale di costumista e scenografa che le ha consentito di ampliare il suo orizzonte formale e il suo sempre convincente rapporto con la spazialità. Ma tutto questo potrebbe ridursi appunto a “manierismo” nel senso deteriore del termine se la Cappuccio non conoscesse tanto bene l’arte del nostro novecento quanto quella dei secoli passati. Ed allora ecco che la sua pittura non si potrebbe comprendere senza de Chirico, Ernst, Magritte, la psicanalisi, il cinema di fantascienza ma anche una profonda sensibilità femminista che si saldano in un unicum ancora suscettibile di gradite sorprese.
Sergio ROSSI Roma 25 Febbraio 2024